IL SABOTAGGIO AL SETTING. Le difficoltà incontrate con i clienti depistatori

Inviato da Nuccio Salis

 depistaggio

Creare un setting è fondamentale nell’intervento di counseling. La premura con il quale si costruisce è pari all’importanza che vi si attribuisce.

La cornice di lavoro è descrittiva della modalità di lavoro e dello stile comunicativo del professionista. Mediante il setting si rivela quale approccio si persegue nell’organizzazione della propria attività, e se ne definisce il proprio orientamento.

IL contesto dentro cui si accoglie la persona e vi svolge il colloquio, oltre a denotare l’indirizzo metodologico che lo specialista ha scelto, è anche una importante piattaforma che impegna le parti in un reciproco contratto, la cui utilità riguarda l’assunzione delle proprie responsabilità in termini di impegno ad un lavoro costruttivo fondato su princìpi di condivisione ed alleanza.

Le caratteristiche spazio-temporali del setting, in forza della loro coesione e stabilità, definiscono un luogo sicuro che funge da cornice protettiva soprattutto per il cliente che vi fa affidamento, dal momento che può contare sulla creazione di un contesto regolato da una serie di impegni che egli stesso ha sottoscritto, vincolandosi ad una serie di norme che è necessario rispettare, al fine di garantire la corretta procedura di tutto il percorso che prevede il rispetto di un reciproco patto fra counselor ed utente.

Durante l’itinerario affrontato, però, può capitare che un cliente perda la motivazione iniziale, a volte già troppo instabile e residua fin dalle prime battute.

È importante comprendere quando ciò sta accadendo, e per la verità è abbastanza osservabile durante le dinamiche del confronto fra cliente e specialista, quando il primo comincia a lanciare più o meno consapevolmente una serie di segnali di sofferenza e quindi di non piena condivisione ed accettazione in merito al percorso che si sta svolgendo insieme.

IL cliente dovrebbe in pratica manifestare dei comportamenti di sabotaggio dell’esperienza di counseling, ed alcuni di questi sono piuttosto noti e facilmente osservabili. È più che probabile che nell’esperienza di ciascuno di noi, ciò sia accaduto, e che peraltro, per una legge speculare dei rapporti umani, la demotivazione del cliente abbia influenzato anche il counselor, riducendo il suo carico di entusiasmo e di spinta al prosieguo del lavoro.

Forse, il desiderio impulsivo di lasciare che l’altro si allontani, o di abbandonarlo, potrebbe prevalere in quanto scelta certamente più facile da assumersi e da realizzarsi nell’immediato, senza eccessivi costi personali sul piano psichico ed emotivo.

Tuttavia, proprio il momento in cui il cliente cerca di boicottare il percorso liberamente accolto, coincide con il tempo del massimo impegno giunto ad aiutare il soggetto coinvolto nella proposta progettuale tramite il counseling. È fisiologico mettere in conto momenti di difficoltà, di stallo, di ripensamento. Tali situazioni sono peraltro del tutto naturali, e possono affacciarsi proprio in quei momenti in cui si sta per realizzare o consolidare un importante passaggio esistenziale nella vita del cliente. Nei processi evolutivi e dell’apprendimento, difatti, una improvvisa battuta d’arresto o una temporanea regressione si rivelano spesso come momenti cruciali che preludono ad una prossima ed imminente novità su di sé, in termini di acquisizione di nuovi atteggiamenti più consoni, favorevoli e adattivi sul piano delle strategie di fronteggiamento problemico.

La revisione di sé implica sempre fasi a carattere stressogeno, e pertanto i comportamenti di boicottaggio possono essere previsti, attesi ed anche classificati, in modo da adottare possibili ed efficaci contromisure per assicurare il buon prosieguo del trattamento ed il raggiungimento degli obiettivi identificati.

Dunque, la prima cosa da fare potrebbe riguardare la capacità di riconoscere i possibili comportamenti di attacco attraverso cui il cliente tenta di destrutturare il setting. Con l’aiuto di una combinazione fra esperienza personale ed evidenze già riportate nel merito, si prova ora ad elencare una serie di comportamenti che costituiscono delle aggressioni verso il contenitore spazio-tempo che offre luogo, senso, orientamento e struttura all’azione di counseling.

_ IL non rispetto di orari e del calendario stipulato in comune accordo. Ritardi, mancanze, dimenticanze, richieste frequenti di rimandare l’orario e soprattutto di ridurlo all’interno della dimensione oraria di lavoro, chiedendo l’uscita anticipata, sono tutte forme di sabotaggio all’indirizzo del progetto stabilito sulla base di un esame di bisogni e di obiettivi ad essi associati.

_ Trovare distrazioni continue durante il colloquio. Alzarsi, parlare d’altro e cambiare improvvisamente discorso, tergiversare e dirigere il tema in modo incongruo su altre direzioni. Giocherellare con oggetti in modo imperterrito e molesto.

_ Dichiarare di non aver avuto il tempo per riflettere su quanto emerso in situazione e di aver rimandato o non ottemperato nel verificare gli effetti di nuovi comportamenti da mettere in atto.

È molto probabile che una sensazione di fastidio, di fallimento, di inadeguatezza, o di non essere rispettati dal cliente, ci assalga e ci porti verso la tentazione di considerare il rapporto con quella persona una causa persa.

Di quali strumenti disponiamo per poter fare qualcosa anche in queste circostanze, onde evitare di perdere il prosieguo di un lavoro prezioso, nel caso abbia pur fruttato qualcosa?

Preso atto del disagio sperimentato ed agito dal cliente, le nostre abilità comunicative, connesse al principio portante dell’autenticità e della chiarezza, nel counseling, ci sospingeranno consapevolmente  a rimandare quanto stiamo osservando, in oggettivazione. Vale a dire che possiamo attenerci a descrivere ciò che si sta visibilmente verificando, con la constatazione da parte dello stesso cliente, accertata la sua integrità psichica.

Ciò necessiterà di un rimando in cui si sottolineerà la natura degli accordi raggiunti, e della direzione del lavoro da svolgersi. Descrivere il piano delle discrepanze è utile per catturare ed orientare l’attenzione del cliente verso il progetto che egli stesso ha discusso, negoziato e sottoscritto con lo specialista. Un rimando costruito senza alcuna domanda finale, può essere tentato fin da subito, nel tentativo di fare appello alla capacità di autoanalisi da parte del cliente. Un tono di voce rassicurante ed assertivo al tempo stesso, un generale comportamento non verbale non scomposto ma fermo, sempre in posizione di apertura ed accoglienza, potrà facilitare una risposta sincera e in tutta coscienza. Per lo meno questo è l’auspicio.

L’importante è non sottostimare e non far passare il concetto che il cliente farà un po’ come gli pare, perché da quell’istante in cui prenderà lui il timone, disfacendo e rifacendo il setting a suo piacimento, il lavoro di counseling potrà considerarsi del tutto inutile, fuorviante e quindi dovrà essere ufficialmente concluso.

Diversamente, se sarà stato di qualche utilità l’intervento semi-direttivo sulla messa in evidenza delle discrepanze, potrà essere ritagliato perfino uno spazio speciale sulle ragioni del comportamento di sabotaggio, purchè la stessa trattazione non diventi paradossalmente l’ennesimo pretesto per non affrontare le proprie responsabilità.

Insomma, l’argomento in questione allarga ragionevolmente le occasioni di dibattito scientifico, di confronto e di scambio esperienziale fra noi praticanti della professione di aiuto alla persona. L’auspicio infatti, è anche rivolto a chi vorrà riprendere e rielaborare personalmente e criticamente queste mie riflessioni, nell’augurio di arricchire le prospettive e le ipotesi argomentative della nostra bella e difficile professione. 

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