“Se i bambini imparano a rispettare i diritti degli animali e a riflettere sul loro dolore e la loro sofferenza allargheranno le loro capacità empatiche: l’universalizzazione dell’empatia fino a includere tutti gli esseri viventi è il vero traguardo della razza umana, l’unico in grado di cambiare davvero l’attuale stato delle cose”. L’umanità ha dunque una speranza: l’antispecismo innato dei bambini, coltivato durante la crescita e portato a maturazione da adulti, salverà il mondo dalla catastrofe ecologica ed etica?”
(dott.ssa Annamaria Manzoni, psicologa – psicoterapeuta)
Se l’empatia si riferisce ad una competenza che consiste nel comprendere gli stati d’animo di chi è “altro da noi”, e di sentirli come se fossero nostri, allora l’esperienza emozionale riferita e sperimentata dagli umani non si limita ai propri simili, dal momento che si può essere sconvolti da scene ed immagini in cui il dolore viene manifestato da esseri in grado di esprimere stati affettivi quali certamente la sofferenza.
Se è vero ciò che pensa Jeremy Rifkin, il quale sostiene che l’umanità può scommettere solo sull’empatia, nel tentativo di salvarsi dal degrado e dall’autodistruzione, allora questa straordinaria e nobile risorsa dovrà essere allargata e indirizzata verso l’habitat naturale degli umani, unici animali che prediamo sprovvisti di un senso della misura e di un concetto di limite. Noi umani partecipiamo con il nostro stile di vita (che difendiamo e non vogliamo mettere in discussione) all’inarrestabile ed irresponsabile depauperamento del delicato equilibrio dell’ecosistema. Prediamo le risorse naturali che appartengono ad altre specie, con la conseguenza di contaminare le acque, prosciugare e ad avvelenare il suolo, provocare l’estinzione di varie specie animali e soprattutto causare silenziosi genocidi per via della penuria e della sottrazione di risorse che le nostre abitudini implicano per milioni e milioni di esseri umani come noi.
La mente dualiana dei contemporanei, nutrendosi oramai di indifferenza, fugherà certamente da certe osservazioni, trovando riparo nelle comode mistificazioni di chi tende sempre a minimizzare, ed a bollare come allarmisti o catastrofisti le persone che riportano dei dati di realtà non certo confutabili, oppure a denigrare chi per primo invita e testimonia il tentativo di un modello di vita il quale necessita del coinvolgimento di una parte consistente di individui risvegliati ad una nuova sensibilità.
IL discorso sull’empatia non può essere racchiuso nello steccato dei rapporti interpersonali de-contestualizzati dall’ampia rete sociale di cui fanno parte. Sarebbe, oltre che un errore di impostazione scientifica, relativo alla lettura e nella comprensione del fenomeno, anche una mancata occasione preziosa circa l’impegno e il dovere di educare la collettività ad assumere comportamenti a tutela della vita.
C’è dunque bisogno, a mio avviso, di introdurre un paradigma molto più esteso e completo, che inquadri l’empatia dentro un significato macro-relazionale e in una prospettiva ecologica che abbracci ed includa l’intero orizzonte spazio-temporale in cui ogni umano vi si trova inserito. Non è infatti più possibile, se è vero che siamo dentro un villaggio globale, trascurare gli effetti delle decisioni e delle qualità dei legami che caratterizzano il nostro modo di essere e le nostre dinamiche relazionali.
Occorre perciò il riconoscimento di una compiuta e matura prospettiva ecologica, che restituisca all’empatia la sua piena capacità di ri-connettere l’essere umano come fruitore di uno spazio-tempo denso di significati, a carattere partecipativo e sociale, dentro cui scoprirsi protagonisti attivi degli scenari storici e culturali di cui sentirsi responsabili co-costruttori. Soltanto realizzando questo assunto, e riportandolo nella pratica degli eventi quotidiani, gli umani potranno smettere di chiacchierarsi addosso su concetti quali “democrazia” o “dimensione comunitaria”, producendo soltanto propaganda e fiumi di inchiostro ad opera dei più cialtroni e sinistri parolai, noti e meno noti.
E dal momento che appunto si fa un gran bel parlare dell’empatia, e in qualche buon saggio che la sottopone ad attenta disamina se ne indicano finanche i livelli e le zone più progredite ed avanzate, è lecito chiedersi se il culmine apicale dell’empatia sia proprio la capacità di sentirsi partecipi dei sentimenti di altre creature molto vicine a noi, quali per esempio la maggior parte delle forme animali conosciute.
Ma a dirla tutta, è più che probabile che lo sviluppo dell’empatia possa disturbare seriamente chi domina ed inganna il suo prossimo, schiacciandolo dentro i non-luoghi delle prigioni senza sbarre, per annichilirlo e servirsene come merce per i suoi scopi.
Se uno è empatico, può darsi che si rifiuti di fare la guerra o di immaginare nemici a comando; è probabile che non venda il suo odio e la sua rabbia per essere assoldato in un cosiddetto ‘scontro fra civiltà’, e forse nemmeno vorrà sfogare tali frustrazioni nella folle e squilibrata corsa al consumo di cose inutili, la maggior parte delle quali verranno gettate via in quanto non sufficientemente corrispondenti ad un nuovo ordine di bisogni alienanti indotti. E poi, sviluppando empatia forse potrebbero esistere genitori migliori, più attenti e comprensivi, meno instabili e indifferenti, più autorevoli e più credibili. Avremmo dei modelli migliori di relazione e comunicazione umana, con una conseguente e drastica flessione di episodi di violenza, bullismo, suicidi, dipendenze. Conviene davvero a tutti?
Per chi non si fosse stancato di riflettere, potrebbe essere anche un quesito più che stimolante.
Lo sviluppo di una empatia ecologica e interspecista metterebbe in discussione molte delle nostre abitudini consolidate ed i pilastri che reggono le nostre credenze e le nostre coordinate di valore, legate alle tradizioni e allo stile di vita che abbiamo ereditato.
L’assunzione di un nuovo punto di vista, a seguito della maturazione di un livello empatico non circoscritto esclusivamente ai propri simili, costituirebbe un’autentica rivoluzione alla quale non tutti si sentono visibilmente pronti. Un sentimento di destabilizzazione sarebbe avvertito dalla maggior parte degli umani.
È noto che gli esseri umani vorrebbero la rivoluzione, alle seguenti condizioni:
- mantenimento dei propri privilegi e delle proprie comodità
- conservazione del proprio sistema di credenze, tradizioni e abitudini
- disimpegno morale e deresponsabilizzazione
- delega dell’atto rivoluzionario alla collettività o ad altri soggetti istituzionali
In pratica, tutti attendono che gli altri muovano il primo passo, naturalmente per poterli poi puntualmente aggredire, irridere e criticare brutalmente per essersi permessi il lusso di metterli in discussione.
“Cambiate pure il mondo, ma non coinvolgetemi”, potrebbe essere il motto unanime a cui aderisce la stragrande maggioranza dell’umanità.
Forse, occorre ancora del tempo relativamente lungo, affinché si sviluppi e venga accettata come ordinariamente umana, tale suprema forma di capacità empatica; e allora, prima che l’essere umano raggiunga una compiutezza più progredita ed evoluta, resta da chiedersi se questo tempo sarà sufficiente per salvare il salvabile, per diffondere una nuova coscienza che preceda il definitivo collasso dell’ecosistema, beffardamente stuprato dal folle squilibrio dell’animale umano, violento e distruttore senza scrupoli.
IL futuro imminente attesterà l’epilogo di questa vicenda.
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