EMPATIA. Usi e abusi di un termine da chiarire

Inviato da Nuccio Salis

 cammina con le mie scarpe

È entrata ormai a far parte del vocabolario collettivo l’espressione ‘empatia’. Se prima  erano già in troppi  a sentirsi “un po’ psicologi”, ora con l’acquisizione di un nuovo termine, molto spesso impropriamente proferito, ci si potrebbe addirittura sentire esperti e specialisti di alfabetizzazione socio-emotiva. E ciò sarebbe piuttosto curioso, visto il livello di competenza relazionale-affettiva generalmente diffuso.

Constatati gli usi e le applicazioni del tutto approssimativi, equivoci e superficiali del termine, sembra proprio che occorra rafforzare la consapevolezza del vocabolo, prima che l’ennesimo processo di  trasformazione semantica lo sfiguri, rendendolo vuoto o addirittura obsoleto.

La metafora che viene per lo più indicata, viene sintetizzata nella fortunata espressione “mettersi nei panni di…”, considerata come una sorta di immagine esaustiva che chiarisce e rende comprensibile il concetto. Forse è il caso di poter dire che la questione presenta notevoli sfumature, nonché numerosi elementi di complessità che inducono a riflettere, approfondire, sperimentare le vie e i percorsi legati a tale fenomeno.

 

Lo slogan “mettersi nei panni di…”, se applicato soltanto nella sua accezione puramente associata a una risposta comportamentale dovuta a un riflesso emozionale, facilmente potrebbe essere confuso e sovrapposto ad altre tipologie espressive dello psichismo umano, le quali non possono essere pienamente inserite e riconosciute fra le risposte propriamente empatiche.

Un esempio: un bambino molto piccolo (poniamo fino a 4 anni) che emette il comportamento di pianto in risposta ad aver osservato o sentito un coetaneo piangere, sia in un ambiente corrispondente che attraverso uno schermo che glielo ha mostrato. Tale manifestazione non è congruente con i parametri che definiscono la competenza empatica, dal momento che si tratta della spontanea attivazione di uno schema imitativo, che prevede l’emissione rispondente dello stesso segnale-stimolo che si è ricevuto. Si comprende come ciò, da una parte costituisca una sorta di primo gradino di una buona empatia, e al tempo stesso sia una struttura ancora insufficiente dentro la quale poter definire i criteri connotativi della capacità matura di assumere e condividere l’esperienza emozionale di chi è “altro da noi”.

In pratica, la sola specularità istintuale ed i successivi livelli intermedi, non sono ancora adeguati a descrivere i corretti parametri dell’empatia. Ovvero, un bambino ma anche un adulto che piangono in risposta al comportamento che ha suscitato la reazione medesima, in realtà possono non avere né capacità e né intenzione alcuna di sostare sui contenuti intrapsichici di chi ha emesso l’input “pianto”, in quanto potrebbero aver innescato involontariamente la risposta speculare al modello comportamentale che ha provocato la reazione, senza poter da questo in poi sviluppare ulteriori e costruttivi livelli relazionali e comunicativi con la persona. Ciò che non si attiva, cioè, è un processo di continuità e di sintonizzazione reciproca e interpsichica, che condurrebbe i soggetti coinvolti dentro un intenso flusso di segnali che l’uno invia all’altro. Tale condizione permetterebbe a ciascuno di connettere i propri vissuti secondo direzioni vicendevoli, rendendosi così partecipi e co-costruttori di un luogo in cui dominano intimità, fiducia, apertura e condivisione circa le proprie dinamiche emozionali ed affettive.

Esiste però anche un livello ulteriore che si potrebbe riscontrare come fosse il punto estremo della situazione precedentemente descritta. Si tratta di quella dimensione relazionale in cui il concetto di “mettersi nei panni di…” è spinto alle conseguenze della immedesimazione.

Ma non è forse l’immedesimazione un connotato dell’empatia? Questo è un aspetto altresì delicato dell’intera faccenda, dal momento che esiste un grado di empatia matura, soprattutto se intesa come strumento sofisticato facente parte dell’attrezzatura del professionista dell’aiuto, e quindi come risorsa da investire all’interno di un setting specialistico. Dentro tale cornice contestuale, che deve possedere il carattere del contenimento protettivo e dell’atmosfera di autenticità che deve pervaderla, risulterebbe rischiosa una identificazione puramente suscitata da una risonanza immediata fra le parti, che all’inizio potrebbero vivere l’impressione di potersi quasi “capire al volo”, grazie ad un immaginario fluire di rimandi legati alla dimensione meramente emozionale. Le conseguenze di un’empatia mal riconosciuta e mal gestita potrebbero verificarsi come seriamente deleterie per la persona che si rivolge al facilitatore (helper) per affrontare i nodi focali del suo percorso.

L’empatia va dunque regolata, prima che scattino irreparabilmente tutte le sue trappole dovute ad una eccessiva identificazione degenerata in una sorta di osmosi simbiotica fra le parti, a svantaggio dell’individualità, a detrimento della possibilità di far emergere variabili di criticità, di dissonanza, di discontinuità fra il vecchio sé e una nuova ristrutturazione psichica e identitaria.

Dunque, c’è da sapere e da riconoscere che quando si parla di empatia, quasi sempre la si declina dentro contesti generici, senza conferire ad essa un gradiente di intensità, senza definirla in prospettiva della sua espressione funzionale e qualitativa.

Da tutto ciò si evince, per esempio, che quando si fa riferimento all’empatia, emerge un essenziale elemento di monitoraggio, verifica e controllo di tale competenza, la quale, pertanto, soltanto in ragione di tale circostanza, non può più essere assunta dentro una configurazione di significato meramente emozionale. Dunque, empatia non significa soltanto emotività, prima di tutto.

La chiave di lettura principale è la consapevolezza (awereness), intesa come la progressiva e crescente maturazione dell’abilità di associare alla manifestazione emotiva una spiegazione, un senso, una direzione, un’eventuale alternativa; quindi la dimensione cognitiva si interseca con la globalità del processo, e ne diventa anche guida responsabile e cosciente.

E tutto ciò parte prima di tutto da se stessi. Ecco perché la stessa espressione “empatia” originariamente deriva dal greco ἐμπάθεια, con riferimento allo sguardo interiore, alla ricerca di ciò che si sente e si prova innanzitutto dentro di sé. Se non si è maturi sotto questo aspetto non si può praticare una condotta legata all’empatia.

Anche questo particolare è fin troppo trascurato, e ciò porta riconoscere l’empatia come movimento essenzialmente esterno, sempre da espletarsi verso qualcuno. Questo però rischia di impoverire il concetto specificamente dinamico su come funzioni un contatto interpersonale, e di perdere di vista la multicomponenzialità del fenomeno in oggetto.

Tale caratteristica, peraltro, è necessaria in quanto aiuta a gestire la distanza psicologica con l’interlocutore, costituendo un fattore utile da investire in qualunque relazione, non soltanto in quella formale.

Chi ha ricevuto una sana e rigorosa educazione emozionale, avrà imparato l’importanza di riconoscere le emozioni altrui, sentirle in alcuni casi come se fossero le proprie, rimarcando quel non trascurabile “come se”, imprescindibile spartiacque fra un’esperienza di invischiamento emozionale ed una di vera e propria empatia.

Su questo punto ci sono a quanto pare ancora numerosi equivoci e credenze da sfatare. Non è empatia affatto fare proprie le emozioni altrui in mancanza di un sano elemento di distacco e di disidentificazione. Comprendo che per la mente dualistica un fenomeno non può non essere concepito nella sintesi delle sue complesse sfumature, ma l’empatia non è tale soltanto perché si sta sperimentando o sentendo ciò che l’altro prova. Troppo spesso questo termine viene trovato in sostituzione a ciò che invece è un fenomeno di contagio emotivo, di simpatia, di innamoramento o di identificazione fusiva con l’alterità.

Quando si parla di empatia, invece, esiste in modo inconfutabile la presenza di una sorta di torre di controllo a carattere cognitivo, che rende possibile l’uso (in parte anche innato) del riconoscimento e dell’accoglienza dei sentimenti altrui, in modo da poterli partecipare restituendoli al legittimo proprietario, senza esserne travolti ed appiccicati. Se non si fa questo non si è affatto empatici, e si è dentro un grande equivoco che travisa la terminologia scientifica e pregiudica la buona prassi operativa.

La mente dualistica metterà in conflitto un concetto ingenuo e riduttivo di empatia con il suo contrario. Ma utilizzare una matura o avanzata forma di empatia non equivale affatto a sfreddare la propria parte emozionale, oppure arginarla e censurarla con il guardiano della ragione, si tratta piuttosto di provare ad imparare come gestirla per renderla efficace dentro i processi della relazione di aiuto, per garantire un sostegno di qualità alla persona in stato di temporaneo disagio.

Come era prevedibile, però, la popolarità del termine sta conducendo ad un abuso che mistifica l’accezione della parola stessa, snaturando il processo ed il significato a cui è legata.

Accadrò la stessa cosa con l’altro termine di moda che risponde alla parola “resilienza”?

Tutto ciò mi ricorda quando un giorno, ascoltando semi-estasiato un mio caro amico pianista di jazz, gli domandai come mai questa musica non fosse conosciuta, e perché passasse soltanto orribile spazzatura in radio e in TV. “Ma per carità” – ricordo che mi rispose lui -“Meglio così, sai, Nuccio. Se questa musica diventasse commerciale sarebbe la sua fine”-

Ed anche se la mente dualiana ha già emesso il suo insindacabile verdetto, concludo sostenendo che il compito di ogni studioso delle discipline che producono ricerche e riflessioni intorno al tema dell’empatia, coincide a mio avviso con il dovere di chiarire i confini semantici del termine, di indicarne possibili sfumature, eventuali contraddizioni e aspetti critici, restituendo comunque l’importante senso originario per cui ciascuna espressione viene coniata e diffusa. 

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