Recensione: IL COUNSELING. Comunicazione e relazione nell’incontro con l’altro


Il counseling. Comunicazione e relazione nell’incontro con l’altroVi segnaliamo questo libro, da noi letto, recensito da Lucia Zorzi.
Semplice, scorrevole, da leggere tutto d'un fiato, "olistico", un must have del counseling.

Da qualche tempo si torna a discutere della rinnovata fioritura di una professione nell’ambito delle relazioni d’aiuto, quella del counselor. La novità non risiede nella professione di per sé (se ne parla dalla metà del secolo scorso), ma nella diffusione che questa pratica sta vivendo e nell’accattivante appeal che la contrappone – forse ingiustamente, sicuramente in modo superficiale - alle psicoterapie. Come se fosse finalmente possibile la riscossa di chi per anni si è steso sul lettino, ha investito un fiume di denaro, e spesso si ritrovato con la sensazione di aver risolto ben poco. Ma non è questo, a nostro avviso, il centro di interesse del nuovo scenario.

 

Si parla di counseling per indicare una relazione d’aiuto del tutto diversa dagli approcci terapeutici riferibili alla psicologia, dove radicalmente nuovi sono il rapporto consulente/cliente, la modalità di intervento e gli obiettivi finali. Va tenuto presente che le relazioni d’aiuto non possono (non avendone gli strumenti) prendersi cura di problemi patologici, campo che resta di pertinenza della psicologia e delle psicoterapie.

Ogni intervento di counseling parte dal presupposto che la persona abbia già dentro di sé le capacità per affrontare i problemi che possono intralciare il corso della sua vita, senza dover ricorrere al sapere profuso da qualche esperto e senza l’obbligo di essere ‘psicologizzata’ sempre e comunque. Si tratta di una tendenza a migliorare e a sapersi orientare nella vita, si potrebbe dire, a patto che patologie vere e proprie non intervengano a inficiare questa naturale capacità.
Carl Rogers, il primo ad essersi occupato del counseling in una relazione d’aiuto, ha osservato questa forza positiva e auto-migliorativa anche in un tipo di alghe che vivono sugli scogli della California, deducendo che si tratta di una caratteristica propria di tutti gli organismi, non solo dell’essere umano.

Perché una denominazione inglese? Non esiste un termine corrispettivo in italiano? C’è stato un ampio dibattito in Italia sulla questione e si è stabilito che ‘counseling’ resta per il momento il termine che più rappresenta e connota la nuova disciplina.
Va detto che pur destando curiosità, è una realtà che resta ancora avvolta in un’aurea un po’ misteriosa e che si pensa ad uso di una ristretta cerchia di privilegiati, con tanto tempo libero, idonei mezzi culturali e personalità già ben sviluppate. Si assiste però ad un recente tentativo di raccontarla meglio: ci provano i giornalisti e ci provano soprattutto gli ‘esperti’, coloro che da anni si stanno impegnando per contribuire alla fondazione teorica e pratica, per farla diventare una professione legalmente riconosciuta a tutti gli effetti.

Allo scetticismo di alcuni e all’entusiasmo di altri corrisponde un panorama assai variegato: si moltiplicano a ritmo sostenuto corsi e seminari su vari tipi di counseling quali l’analisi transazionale, l’autobiografia esistenziale, il counseling rogersiano centrato sulla persona, il counseling filosofico, quello sistemico, il training autogeno, il counseling on line, quello razionale-emotivo di Albert Ellis, per citarne solo alcuni. Alla parola ‘counseling’ corrispondono oltre otto milioni di voci su Google. Fare chiarezza in un orizzonte così ampio – sia a livello normativo che a livello di fondamento teorico - non è cosa da poco. Un senso di confusione e vaghezza, ma anche di ‘area di confine’, è inevitabile. E’ soprattutto chi si avvicina a questa disciplina come possibile cliente o come futuro counselor che ha bisogno di veder delimitate le linee essenziali, fondanti e contraddistinte di quest’ambito delle relazioni d’aiuto.

Una possibilità di chiarificazione viene proposta durante le presentazioni dei corsi delle varie scuole che si susseguono in molte città e dove spesso intervengono anche i docenti per rispondere direttamente alle domande degli interessati. Ma in questi incontri non è detto che si acquisisca una maggiore chiarezza. Non resta che intraprendere un proprio percorso personale cominciando in libreria, alla ricerca di alcuni testi specifici (Carl Rogers, Rollo May, Roger Mucchielli, Annamaria Di Fabio, Marcella Danon, Scott Meier, per citare alcuni nomi).

Può risultare ancora più utile, tuttavia, cominciare dal testo giusto, quello che sa rappresentare, con linearità e sintesi, le principali caratteristiche e realtà di questo panorama in continua espansione. Segnaliamo la recente uscita di un agevole libro edito da Xenia, “Il Counseling. Comunicazione e relazione nell’incontro con l’altro”. L’autore, Luca Nave, è docente presso la Scuola Superiore di Counseling Filosofico di Torino, direttore della Rivista Italiana di Counseling Filosofico, ricercatore ISFIPP nell’area “Filosofia e medicina”, da anni impegnato come counselor filosofico in ambito clinico, dove lavora sia con gruppi che individualmente.

Il libro di Nave prova a mettere ordine tra le tante informazioni reperibili sull’argomento e lo fa in modo chiaro e conciso. L’intento dell’autore è esplicitamente didattico: semplificare il più possibile questa realtà per offrirne il massimo numero di sfaccettature. Un’operazione non facile, che prevede una considerevole e approfondita conoscenza dell’argomento per poter includere tutti gli aspetti peculiari senza risultare superficiale o affrettata. In poche pagine, Nave riesce a tracciare quell’orizzonte a cui si è fatto riferimento scegliendo di privilegiare la didatticità dell’obiettivo (è un libro di servizio, uno strumento didattico con cui iniziare il proprio percorso) e non la problematicità che ci si potrebbe aspettare da un testo su questo argomento. Conoscendo la capacità e la consuetudine dell’autore di attraversare complessi sistemi di pensiero, è un’apprezzabile fatica quella di aver sacrificato la ricerca concettuale in profondità a favore di una sintesi lineare, che risulta puntuale e ricca.

In ogni pagina si sente l’eco di decine di autori che hanno scritto la storia del counseling in Italia e nel mondo, autori (e i rispettivi testi) che formano il substrato del libro di Nave e che dovrebbero accompagnare le riflessioni di chi intende avvicinarsi a questa nuova professione. Gli aspiranti counselor troveranno in questo libro non soltanto i concetti fondanti della disciplina, ma anche un reticolato bibliografico da ripercorrere e approfondire, all’insegna della semplicità espositiva, ma denso di echi di importanti autori: Carl Rogers, A H Maslow, R Mucchielli, A Di Fabio, Umberto Galimberti, L Boella, Paul Watzlawick, Rollo May, Edith Stein, Carl Gustav Jung, Sigmund Freud, R Jakobson, Mastronardi, Schein, Langs, Margareth Howgh, Marcella Danon.

Lo sforzo è quello di delineare un terreno comune a tutte le pratiche di counseling esistenti oggi, sottolineando la necessità di partire dal rispetto per la persona, dalla sua libertà di decisione e di scelta. Se è vero che al counselor sono necessarie quelle qualità che in fondo dovrebbero essere comuni e connaturate in tutte le persone (capacità empatica e di risonanza con un’altra persona; fiducia nella possibilità di ogni essere umano di svilupparsi al meglio; acutezza nel saper ascoltare e nel porre le domande giuste, nel modo giusto, al momento giusto), è anche vero che il counselor poco deve lasciare alla spontaneità delle doti che ha avuto con la nascita. L’empatia va migliorata e approfondita, ricorda Nave, così come la capacità di accettare completamente l’altro con le proprie convinzioni radicate e una originale visione del mondo.

Il libro di Luca Nave, si è detto, indica la cornice di supporto, quella che ogni aspirante counselor dovrebbe tenere presente addentrandosi nella propria formazione. Anche i clienti dovrebbero imparare a conoscerla, per capire se effettivamente una relazione d’aiuto di questo tipo è quello che cercano.
Dai titoli dei capitoli (l’arte della comunicazione, l’arte dell’osservazione, l’arte di aiutare, della comprensione empatica, dell’accettazione, l’arte di ascoltare, del domandare e del rispondere), si capisce che quello artistico è un concetto fondamentale: non si sta infatti parlando di una terapia o di una tecnica, ma di un’arte vera e propria che va ‘sentita’, sviluppata e coltivata dentro di sè.

Una relazione d’aiuto (come qualsiasi altra relazione umana) si fonda sul dialogo tra due persone, ma in quell’incontro la parte principale viene recitata dal modo di essere del counselor, non dal suo ‘saper fare’ o ‘saper dire’.
Se può risultare relativamente semplice imparare una prassi di intervento, non altrettanto si può dire delle qualità personali necessarie. Un counselor deve investire molto nella propria formazione, ricordando quanto sia importante l’efficienza personale: nell’incontro è lui, infatti, a portare la responsabilità di accompagnare l’altro, quindi deve porsi sempre al meglio.

In quell’incontro tutto si gioca nella capacità di far posto al mondo dell’altra persona, alla necessità di uscire dal proprio egocentrismo per lasciarsi meravigliare e sorprendere dal mondo portato dall’altro. Solo ‘creando’ e promuovendo un ascolto attivo ed empatico, il counselor potrà condurre efficacemente il cliente fuori dal problema enunciato. Un atteggiamento artistico che non esclude un fondante ricorso alla ragione, ad un approccio razionale che non ha nulla di prestabilito, né di rigido. La relazione d’aiuto viene circoscritta al ‘qui e ora’: non interessa la storia clinica del consultante, non è fondamentale sollevare i veli dell’inconscio. Nessun ricorso a etichette, casistiche, similitudini, psicologizzazioni: il counselor deve credere profondamente che ogni persona con la quale ha a che fare, nella vita e nella professione, è un essere unico, irripetibile, degno del massimo rispetto e della massima attenzione, indipendente e responsabile.

Assunta sinceramente questa convinzione, il counselor inizia a lavorare su se stesso in un processo formativo senza fine, che si comporrà come un progetto di vita: ogni sforzo sarà concentrato sul diventare una persona capace di comunicare sempre meglio, per poi aiutare altre persone a farlo. Ci si può forse spingere a dire che, prima ancora di occuparsi di come affrontare una seduta, il counselor deve avere a cuore un’utopia che lo renda un visionario, occupato in prima persona a costruire una vita migliore, più consapevole, per sé e per quelli che potrà aiutare.

Il testo di Nave risulta uno strumento agevole per chiarire questi concetti di fondo e per togliere confusione e possibili fraintendimenti. Stiamo parlando di una disciplina ‘multi-settoriale’, precisa l’autore, che tiene conto al proprio interno di elementi appartenenti alle scienze psicologiche, filosofiche, sociologiche e pedagogiche. Lo scenario in cui viene inserita una relazione d’aiuto è dunque molto vasto: non solo una tecnica, ne fa parte l’intera esistenza. Poggiando su un territorio molto vasto, chi pratica una relazione d’aiuto deve essere competente in molte discipline perché è proprio nella complessità e nelle varie sfaccettature del reale che questa pratica può cercare di essere veramente efficace.

Le prime pagine (pp. 7-19) sono dedicate ai concetti principali della comunicazione quale strumento per eccellenza che rende possibile una relazione d’aiuto. Si parte elencando gli elementi di comunicazione globale, per passare poi a differenziarla da quella lineare descrivendo l’emittente, il ricevente, il canale e il codice, le conseguenti codifica e decodifica, il fenomeno del feedback, infine il messaggio vero e proprio. L’argomento del primo capitolo inquadra l’influenza reciproca che si verifica tra cliente e counselor e la necessità di prestare attenzione non soltanto al messaggio che viene detto, ma soprattutto al contenuto paraverbale e non verbale della comunicazione. L’obiettivo deve essere quello di imparare ad affinare sempre di più l’arte di ascoltare e di osservare, acquisendo quelle competenze comunicative che rendono efficace la capacità di relazione.

Molto importante il capitolo terzo (pp.33-51) che si occupa dell’arte di aiutare e che fa chiarezza sulle differenze (e su qualche similitudine) tra counseling, consulenza, psicoterapie e psicanalisi. Pur fondandosi su un terreno non così facilmente delimitabile, risulta davvero importante non fare confusione tra questi tipi di intervento. Nave ricorda come il counseling sia nato a metà del secolo scorso quale alternativa alla psicanalisi di stampo freudiano e all’indirizzo comportamentista in psicologia, che erano allora i due modelli ‘classici’ di intervento. L’approccio studiato da Carl Rogers, che si è subito proposto come terza ‘forza’ in psicologia, ha prodotto una rivoluzione copernicana. Lo psicoterapeuta americano si era accorto dell’impossibilità di far rientrare ogni singolo paziente nelle classificazioni previste da ciascun modello teorico. Rogers ha dunque preso le distanze dai due principali modelli di intervento psicologico non per divergenze teoriche, ma per percorrere una strada tutta sua che lo ha portato ad una nuova visione dell’uomo nel mondo.

Questo approccio sta alla base, pur con diverse varianti, del movimento umanistico o filosofico-esistenziale che si colloca tra filosofia e psicologia e che apre interessantissimi ambiti multidisciplinari nelle relazioni d’aiuto: atteggiamento non direttivo, ma di accompagnamento fiducioso della persona che cerca aiuto - considerata capace di decisioni e di assunzione di responsabilità - , non un sintomo da curare ma un problema da analizzare per poi essere efficacemente affrontato in prima persona dal consultante.

Si è scritto molto - e spesso in modo confuso o incompleto - per cercare di delimitare i rispettivi campi di intervento, dove sono inevitabili alcuni spazi di adiacenza e similitudine. L’empatia, per esempio, è usata sia nel counseling che nelle psicoterapie e in psichiatria. Forse il principale criterio di differenziazione sta nell’atteggiamento, nel metodo e nell’obiettivo: non spetta al counselor guarire una persona, ma aiutarla a ‘riattivarsi’ assistendola mentre riprende in mano la propria esistenza affrontando, e possibilmente risolvendo, un problema specifico. Non si tratta di interventi di ristrutturazione della personalità, né di tecniche persuasive o dissuasive. Non interessa scandagliare l’inconscio, nè ripercorrere una biografia, ma agevolare un processo di ‘ridestamento di presenza attenta’: la persona torna a essere protagonista della propria vita, con le capacità attualmente a disposizione. Verrebbe da dire che la relazione di counseling mira a ripristinare un protagonismo esistenziale, una libertà di scelta momentaneamente interrotta o celata dietro alla problematica enunciata durante la seduta.

Le ramificazioni delle psicoterapie e del counseling sono veramente numerose, come si è detto, e questo rende ancora più difficile tracciare linee precise di demarcazione. Quello che forse non va fatto è l’errore di contrapporre continuamente le prime al secondo. Non si tratta di annunciare un aut-aut ai clienti/pazienti, ma semmai di cercare rinnovate intersecazioni multidisciplinari che abbiano in comune l’obiettivo di essere efficaci per la soluzione del disagio lamentato dalla persona che chiede aiuto. Decenni di affinamento delle tecniche psicologiche non possono essere liquidati con superficialità o pregiudizio: va detto chiaramente che ci sono problematiche non affrontabili con una relazione d’aiuto, mentre quegli stessi problemi possono essere brillantemente risolti dalle psicoterapie. Forse è nei casi di confine - in quei disagi dove lo psicoterapeuta interviene e che anche il counselor può affrontare - che va cercata una nuova alleanza, se il sincero obiettivo è il bene del cliente/paziente. In fin dei conti, ciascuno il proprio medico se lo sceglie: perché non poter essere aiutati a scegliere anche il ‘medico dell’anima’, senza trovarsi per questo su un malfermo terreno di spartizione?

Vogliamo immaginare una situazione possibile dove un counselor dice al proprio cliente: “Per risolvere il suo problema, è meglio che si rivolga ad uno psicoterapeuta”. Altrettanto serenamente uno psicoterapeuta saprà dire al proprio paziente: “Contatti un counselor: saprà aiutarla con competenza”. Il codice deontologico - a cui Nave fa un breve accenno nella conclusione del libro – prevede già questo: con lealtà il professionista è tenuto a indirizzare la persona ad altre figure cliniche, qualora lo ritenga utile. Ci rendiamo conto che non è cosa da poco delimitare in modo convincente il campo di intervento di una nuova disciplina, senza suscitare perplessità quando va bene, alzate di scudi se va male. Ma il counseling non può prescindere dal guadagnarsi il consenso sul campo, con serietà e tenacia, lavorando per ottenere il permesso di fare un passo in avanti e affiancare altri tipi di pratiche che si prendono cura dell’uomo.

Il capitolo centrale del libro (pp.52-67) è dedicato all’arte della comprensione empatica che “richiede l’attivazione dell’intera nostra sensibilità-emotività e dell’intera vita della nostra mente” (Nave, pg. 63). Di questo enigma della comunicazione abbiamo già accennato sopra: è difficile dire perché risulta così efficace; è arduo anche cercare di descriverlo nella sua totalità. Sembra però dimostrato che è sull’empatia – e non sulla formazione teorica del counselor - che si misura l’efficacia dell’intervento in una relazione d’aiuto. Se non si riesce a stabilire una reciproca attenzione empatica, il counseling praticamente non avrà luogo. L’incontro diventerà un’altra cosa: una richiesta di consulenza, un incontro di problem solving (di tecniche collaterali Nave parla brevemente nell’ultimo capitolo, pp.104-115).
Nella nuova visione antropologica indicata da Rogers, quello che spicca è il concetto di vita-in-relazione: noi viviamo solo se siamo esseri-nel-mondo, esseri-in-relazione. Per questo è necessario imparare a comunicare, e - altrettanto necessario - imparare ad ascoltare e a osservare. Una affermazione di Nave sottolinea bene questo concetto:

“Permettersi di comprendere un individuo, nel senso ampio del termine “comprensione” che include empatia, accettazione e ascolto attivo, significa infatti cercare di non plasmarlo a nostra immagine e somiglianza e di entrare nel suo ‘quadro di riferimento’, senza temere il cambiamento in noi che la sua vicinanza potrebbe comportare. Anzi, accettare gli altri significherebbe assumere come valore fondamentale il cambiamento, e considerare il divenire stesso quale scopo ultimo dell’esistenza-con-gli-altri” (Nave, pg. 73)

E’ un duro allenamento quello che aiuta ad abbondare l’abitudine a dare valutazioni e interpretazioni, a praticare l’epochè, a sospendere il giudizio. E’ altrettanto difficile imparare ad essere persone autentiche, a realizzare la matrice che ci abita. Spesso non abbiamo chiaro il nostro poter-essere. Quando questo è per qualche motivo reso possibile, i benefici non deludono: anzi, è forse l’unica modalità per sentire che la nostra vita si struttura di senso, che non ci lasciamo attraversare dal tempo che passa senza opporre alcunché: la consapevolezza per esempio, una decisione, un progetto esistenziale, la nostra filosofia. Sono tante le possibilità che possiamo mettere in campo. Un counselor sa che queste cose accadono prima dentro a se stesso e poi nelle persone che incontra. Un counselor vuole che queste cose accadano. Un counselor non si dà pace finchè queste cose non accadono.
Un aspetto veramente affascinante della relazione d’aiuto sta proprio nella dinamicità della relazione tra due persone (o tra un gruppo di persone): questo dinamismo ben rappresenta la mobilità creativa dello spirito che ci abita e riesce ad operare cambiamenti anche significativi in ogni persona che si ponga attenta e consapevole all’ascolto. Un counselor, forse, si fa forza soprattutto della convinzione che le biografie possono cambiare.

Il counseling.

Comunicazione e relazione nell’incontro con l’altro

(Xenia, 2009) di Luca Nave

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Luca NaveLuca Nave

Docente di Pratiche Filosofiche presso la Scuola Superiore di Counseling Filosofico e coordinatore dell’area “Filosofia e Medicina” presso l’Istituto Superiore di Ricerca e Formazione in Filosofia, Psicologia e Psichiatria di Torino. Collabora con il Master in Bioetica ed etica applicata dell’Università degli Studi di Torino e con il Master in Consulenza Filosofica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Direttore della Rivista Italiana di Counseling Filosofico, è autore di diverse pubblicazioni a carattere filosofico e psicologico, tra cui segnaliamo l’imminente uscita del suo ultimo libro intitolato Filosofia del benessere. La cura dei pensieri ed emozioni (Mimesis, 2010), scritto in collaborazione con Maddalena Bisollo.

 

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