Quando l’ansia è …troppo poca
Convivere con uno stato di ansia è così diffuso che quasi quasi a non provarla ci si sente in imbarazzo; provare ansia in questo mondo in continua febbrile e talvolta purtroppo solo apparente modificazione appare come l’inevitabile effetto dell’essere collegati e reattivi, connessi al moto perpetuo di novità e scoperte più o meno modaiole.
Ma forse usare discernimento per scegliere se e quando è importante viversi anche uno stato di ansia è ciò che dovremmo imparare, perché in verità l’ansia se non è l’inevitabile risposta al condividere le vita frenetica, non è neppure la nemica da combattere sempre e ad ogni costo.
Un esempio?
Di fronte ad una prova, livelli decisamente alti di ansia determinano prestazioni scadenti, lo sappiamo bene e ne sono consapevoli moltissimi studenti, forse la quasi totalità, ma il fatto è che anche livelli decisamente bassi di ansia ostacolano il raggiungimento di una performance proporzionale al nostro impegno, alle nostre conoscenze, alle nostre reali potenzialità.
Può sembrare strano, ma ognuno di noi, ripensando ad episodi vissuti credo che ne converrà: bassi livelli di ansia inducono a non prestare al problema sufficiente attenzione, a mantenere una fiducia nelle proprie capacità e competenze immaginata piuttosto che verificata in concreto, a credere in un esito positivo, senza intervenire a monitorare situazioni ed effetti. Così, ad esempio di fronte ad un esame chi non prova ansia può non cominciare a studiare con congruo anticipo; sopravvalutando le proprie conoscenze, può mantenere una modalità di apprendimento disorganizzata; può mantenere un atteggiamento e comportamenti non adeguatamente motivati e quasi di disimpegno; può continuare ad ascoltare il suo dialogo interiore che gli suggerisce: <speriamo che vada bene…ma se poi andasse male, in fondo che cosa mi accadrebbe di grave?>.
Paradossalmente, anche il basso livello di ansia può essere segno di una mancata fiducia in se stessi, sì proprio come la ben nota ansia da prestazione per la quale tuttavia potremmo trovare giustificazioni, per così dire, esterne. È infatti spesso indotta –l’ansia da prestazione- da chi ha un ruolo decisionale su di noi e lo usa per far leva su di essa magari per spingerci verso risultati migliori. Sono quei genitori e quei docenti che, per “costringere” i figli o gli studenti ad applicarsi ingigantiscono la portata delle verifiche o dell’esame finale, un’operazione che ha ben poco a che vedere con la formazione e la crescita armonica…
Aspettarsi il peggio da sé, può significare compromettere i possibili risultati positivi, ma anche aspettarsi solo il meglio ed esattamente ciò che vogliamo, senza collaborare attivamente e spenderci con convinzione, ci allontana dall’obiettivo.
Di questo è bene sia consapevole chi si pone in ascolto dell’altro, in particolare il counselor che appunto, diversamente dallo psicologo o dallo psicoterapeuta, vive con il cliente una sorta di rapporto paritario, entrando in empatia per far leva proprio sul coinvolgimento della persona che vive un momento di difficoltà, verso il cambiamento.
Il porsi in atteggiamento rilassato, quasi passivo, in attesa dei “consigli” del counselor, affidando a lui/lei la soluzione del proprio problema, non appena è stato con racconto minuzioso raccontato, è quanto di meno corretto si possa fare per attuare un percorso di crescita.
Nella Relazione di Aiuto, come counselor, non possiamo consentire alla persona che ci chiede aiuto di considerarsi estranea al processo per individuare prima e poi attuare le soluzioni possibili per il suo problema ed è assolutamente necessario che proprio la persona in aiuto collabori, in atteggiamento proattivo per chiarire e chiarir-si il problema.
Quando il cliente arriva al primo colloquio imbarazzato, agitato, con le mani sudate e loquace molto loquace, il counselor si adopererà in un setting adeguato, con parole e linguaggio paraverbale e non verbale, per aiutarlo a recuperare uno stato di calma, di serenità, in un clima protetto, sicuro, consapevole che questo sia essenziale per la validità, l’efficacia, la ragione stessa del colloquio e dell’eventuale percorso.
E quando al primo colloquio la persona arriva in una condizione di rilassamento, sorridente, pronta a divagare su questioni che non siano il problema per cui sono arrivate di fronte a noi, osservandosi intorno e magari ponendo a noi domande da semplice conversazione, forse il counselor ha un compito più facile? Può forse consentire che la persona divaghi o eviti di entrare in argomento?
Non so se questa sia la situazione più frequente, è certo che non è rara e quando accade, come counselor, sono consapevole di avere un compito ben più arduo che comincia con il cercare segnali per comprendere se la persona, ad esempio:
- sta tentando di mascherare un’eccessiva ansia che vive di fronte al problema
-vive uno stato di momentanea o profonda e radicata disistima di sé
-sta esprimendo un atteggiamento evitante (solo ora, per nascondere l’imbarazzo trovandosi a vis à vis con il counselor, o per abitudine di fronte agli ostacoli)
- sottovaluta il problema e si concede con noi una amabile conversazione, nella certezza che tanto tutto poi andrà bene (il che non tranquillizza affatto sull’efficacia percepita del ruolo del counselor…).
Nel caso in cui appaia evidente che la persona sottovaluta il problema, ancora una volta siamo, come counselor, nella assoluta necessità di convogliare la sua attenzione e le sue energie, nel qui e ora, al suo sentire, al suo dialogo interiore, o il colloquio sarà solo apparente, nella impossibilità di mettere in atto alcunché della professionalità e delle potenzialità che il counseling può offrire.
Meraviglioso lavoro quello che richiede ad ogni istante di fare ricorso alle nostre conoscenze, competenze, caratteristiche comportamentali, esperienze pregresse, per immaginare, individuare, attuare la strategia utile nel qui e ora su misura per la persona che abbiamo di fronte.
Cordialissimamente
Giancarla Mandozzi
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