Il setting: spazio relazionale
Il counselor lavora all’interno di un setting che distingue la sua professionalità. Il setting può essere visto come spazio di lavoro, scena, luogo mentale, luogo fisico, confine, riunione, contesto, cerchio, posizione, contesto relazionale con modalità e regole determinate tra counselor e cliente.
Il solo concetto di spazio fisico non realizza comunque il senso di setting, che va piuttosto visto come spazio psichico: “Il cliente che ho davanti è il mio cliente, con lui definisco lo spazio; insieme definiamo uno spazio psichico e un confine.”
Il counselor usa lo spazio psichico per formulare, e fuori dello spazio mentale della relazione (setting), il rapporto con il cliente è diverso. Nel counseling c’è quindi necessità di un confine che delimita uno spazio. Tale confine e spazio sono regolamentati da un contratto counselor/cliente, che definisce la modalità della relazione d’aiuto (la problematica, la durata del colloquio, il numero di colloqui, l’onorario, la riservatezza del colloquio, il segreto professionale, ecc.), per dare così significato alla relazione.
Le dinamiche relazionali sono dunque manifestate entro un confine regolamentato. Una volta definite le regole convenzionali, si dà luogo all’espressione della relazione d’aiuto, e il setting stesso diventa un laboratorio dove il cliente ha la libertà di esprimersi, confrontarsi con la propria problematica, ipotizzare, immaginare, decidere nuove soluzioni. Nel setting ci può essere un’eccezione ma questa deve essere prima determinata.
Le problematiche personali del counselor non devono tuttavia inquinare la relazione con il cliente. Il counselor deve essere cosciente dei propri movimenti interiori, e non proiettarli sulla relazione d’aiuto. Ci deve essere una presa di coscienza del counselor sul non detto, che di per sé rappresenta un pericolo nella gestione della relazione con il cliente. Il counselor deve essere consapevole della reazione che prova verso il cliente: “Quello che il cliente fa o come si pone mi rievoca qualche situazione passata che mi rappresenta incapacità, frustrazione? Oppure un certo tipo di figura che fa parte della mia storia e che mi porta a inquinare la mia risposta al problema della persona?”
In aggiunta, Il counselor risponde in base a ciò che ritiene giusto provare e non a quello che prova. La presa di contatto con le proprie emozioni è un lavoro lungo, complesso, ma fondamentale. Per questo il counselor deve amplificare la propria coscienza di sé e la consapevolezza delle proprie problematiche così da poterle gestire.
In definitiva, nella relazione d’aiuto noi somministriamo noi stessi; non c’è un terzo: counselor- cliente - oggetto (la medicina). La relazione è solo tra counselor e cliente, e non attraverso l’oggetto. La responsabilità della relazione è quindi del counselor.
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