Da un lato, il cliente è cosciente di una sua necessità e decide di precisarla. Dall’altro, il counselor si dispone ad accogliere una tale domanda di aiuto, esercitando capacità, professionalità e competenza. Il counseling si configura perciò come una relazione professionale che si instaura in un clima di fiducia reciproca tra counselor e cliente, all’interno di una domanda e di un’offerta, dove si presume di poter risolvere la problematica che il cliente presenta. Il counselor accoglie prima di tutto la persona e poi il suo problema.
All’interno della relazione d’aiuto, il counselor ascolta il cliente che presenta una storia in cui parla di ciò di cui è consapevole, ma lascia anche delle cose non dette. Il counselor non ha la pretesa di pensare che la persona non stia esprimendo una verità; in ogni caso, non si ferma al livello di verità narrata dal cliente, al suo esplicito, ma cerca nell’implicito, nel non detto: ascolta attentamente in modo da discernere quello che l’altro dice e non dice. Per cui l’apprendimento e l’addestramento del counselor sono indirizzati ad usare l’implicito del cliente
In questa modalità relazionale, il cliente non è l’oggetto passivo dell’intervento. Al contrario: è lui che ha scelto di comunicare, e ci chiediamo: “Perché ha scelto di farlo? Cosa mi sta dicendo a livello analogico? Si sente minacciato, controllato? Recepisco le sue domande? Non le giudico, sono interessato a capire qualcosa del mio cliente.” Si avvia così un processo di comunicazione tra due soggetti.
Inoltre, il counselor non esplora il cliente, ma riformula, ripropone alla persona il problema esplicitando l’implicito, e lo aiuta nell’esplorazione della propria esperienza. Le domande del counselor sono quindi semantiche (1) (es. In che senso? A cosa si riferisce quando…? Mi può spiegare meglio?), per agevolare il cliente a dare significato alle sue parole, e formare anche una base comunicativa tra lui e il cliente.
La riformulazione non è però interpretazione, non è spiegare al cliente quello che lui non comprende, e non è un consiglio (ciò non differirebbe dai consigli di qualunque altro). Infatti, un consiglio si basa sull’esperienza di chi lo propone, potrebbe essere intrusivo; non è una costruzione insieme, ma è a senso unico: dal consigliere al consigliato. Il cliente chiede prima di tutto di essere ascoltato, non tanto di ricevere consigli.
Allo stesso tempo, l’attenzione del counselor è rivolta al proprio atteggiamento interiore: deve essere consapevole dei sentimenti che prova in quel preciso momento nei confronti del cliente: sconforto, rabbia, delusione, gratificazione, difesa, ecc. In questo modo, il counselor assume un atteggiamento di neutralità rispetto alle proprie emozioni, e le usa come dati informativi interiori nella gestione della relazione.
Al centro del colloquio rimane comunque e sempre il cliente con la sua soggettività. Il counselor non si pone come l’esperto della soluzione ma come competente nella relazione d’aiuto, e non accetta delega di responsabilità dal cliente. In altre parole, non si sostituisce al cliente per prendere le sue decisioni. Nello spazio del counseling, il counselor e il cliente aprono nuove ipotesi da esplorare, nuovi spazi e strumenti relazionali nella risoluzione di situazioni specifiche.
Il setting: spazio relazionale
Il counselor lavora all’interno di un setting che distingue la sua professionalità. Il setting può essere visto come spazio di lavoro, scena, luogo mentale, luogo fisico, confine, riunione, contesto, cerchio, posizione, contesto relazionale con modalità e regole determinate tra counselor e cliente.
Il solo concetto di spazio fisico non realizza comunque il senso di setting, che va piuttosto visto come spazio psichico: “Il cliente che ho davanti è il mio cliente, con lui definisco lo spazio; insieme definiamo uno spazio psichico e un confine.”
Il counselor usa lo spazio psichico per formulare, e fuori dello spazio mentale della relazione (setting), il rapporto con il cliente è diverso. Nel counseling c’è quindi necessità di un confine che delimita uno spazio. Tale confine e spazio sono regolamentati da un contratto counselor/cliente, che definisce la modalità della relazione d’aiuto (la problematica, la durata del colloquio, il numero di colloqui, l’onorario, la riservatezza del colloquio, il segreto professionale, ecc.), per dare così significato alla relazione.
Le dinamiche relazionali sono dunque manifestate entro un confine regolamentato. Una volta definite le regole convenzionali, si dà luogo all’espressione della relazione d’aiuto, e il setting stesso diventa un laboratorio dove il cliente ha la libertà di esprimersi, confrontarsi con la propria problematica, ipotizzare, immaginare, decidere nuove soluzioni. Nel setting ci può essere un’eccezione ma questa deve essere prima determinata.
Le problematiche personali del counselor non devono tuttavia inquinare la relazione con il cliente. Il counselor deve essere cosciente dei propri movimenti interiori, e non proiettarli sulla relazione d’aiuto. Ci deve essere una presa di coscienza del counselor sul non detto, che di per sé rappresenta un pericolo nella gestione della relazione con il cliente. Il counselor deve essere consapevole della reazione che prova verso il cliente: “Quello che il cliente fa o come si pone mi rievoca qualche situazione passata che mi rappresenta incapacità, frustrazione? Oppure un certo tipo di figura che fa parte della mia storia e che mi porta a inquinare la mia risposta al problema della persona?”
In aggiunta, Il counselor risponde in base a ciò che ritiene giusto provare e non a quello che prova. La presa di contatto con le proprie emozioni è un lavoro lungo, complesso, ma fondamentale. Per questo il counselor deve amplificare la propria coscienza di sé e la consapevolezza delle proprie problematiche così da poterle gestire.
In definitiva, nella relazione d’aiuto noi somministriamo noi stessi; non c’è un terzo: counselor- cliente - oggetto (la medicina). La relazione è solo tra counselor e cliente, e non attraverso l’oggetto. La responsabilità della relazione è quindi del counselor.
Le Tree D nel Counseling
Nel colloquio di counseling si mettono in atto le tre D:
1. Dire l’indicibile. 2. Decidere l’indecidibile. 3. Dubitare dell’indubitabile.
Nella relazione d’aiuto non si offre una relazione impacchettata, ma questa si costruisce nell’incontro. È all’interno della relazione che avviene il tutto: che l’altro possa dire quello che era indicibile, anche se a noi può sembrare ovvio.
Dire l’indicibile mi permette di dubitare dell’indubitabile; di prendere coscienza dei sentimenti di rabbia o di invidia (magari verso la persona amata): “Forse posso modificare quel comportamento”; mi permette di ipotizzare di decidere quello che non potevo decidere.
Nel setting siamo come seduti in cerchio. Questo evoca perfezione, completezza, armonia: non c’è gerarchia ma un confine forte, e ogni parte è equivalente; c’è una ricerca entro confini delimitati: non si apre nulla se prima non si chiude.
Lo spazio è così costruito dal cliente e dal counselor. Di solito, ci si siede per riflettere, studiare, riposare, meditare… Nel setting sorge la domanda: “Sei seduto nella tua vita o stai camminando?” Nella relazione di counseling ci si siede, fermi, seduti, nel qui e ora. L’atteggiamento è comodo ma vigila con particolare attenzione. È come dire: “Non devo più scappare dai miei problemi; mi siedo e affronto la mia situazione.”
Per riassumere: nel colloquio di counseling si trasmettono sempre e comunque messaggi a più livelli:
1. Logico razionale: sul piano verbale attraverso l’informazione e i contenuti.
2. Analogico-transferale: sul piano non verbale, a livello inconscio, attraverso la relazione.
- Con il linguaggio del corpo: espressione facciale, sguardo, gesti e postura, contatto fisico, aspetto esteriore, vocalizzazioni non verbali, odore, gestualità, espressività, emozioni (es. ti accetto, non ti accetto, mi piaci, ecc.).
Il linguaggio non verbale è il linguaggio del corpo, del comportamento. Allora è impossibile non comunicare, perché il comportamento stesso è comunicazione.
Nella narrazione (2) del cliente sono da considerare i diversi livelli della sua lettura della realtà e di relativa e diversa verità. Questo non significa che un livello è vero e l’altro è falso. Il counselor può agire sul livello di comunicazione possibile in quel momento, e aprire una nuova comunicazione. In questo modo il cliente sviluppa un atteggiamento critico nei confronti del proprio sintomo; non si identifica più con la sua sintomatologia, si apre al dialogo e a nuove prospettive. Un livello di accesso alla comunicazione è dunque sempre possibile nello spazio relazionale del counseling (3).
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1. se·màn·ti·co
agg.
1. CO relativo al significato delle parole: cambiamento, mutamento semantico di un vocabolo
2. TS semiol., ling. relativo alla semantica: studi semantici, evoluzione semantica di un morfema
3. TS filos. nella logica aristotelica, di enunciato verbale che, come una preghiera, non può essere detto né vero né falso
DATA: 1930.
ETIMO: dal lat. tardo semanticu (m), dal gr. semantikós "significativo", der. di semaíno "indico con un segno", der. di sema "segno, segnale"; nell'accez. 1 cfr. fr. Sémantique.
De Mauro, Dizionario di lingua italiana, Paravia
2. L’intero processo di sviluppo psicologico sì impernia su una dialettica di conflitto e di risoluzione, di cambiamento e di crescita. Ricordare, organizzare mentalmente e raccontare la propria biografia, composta dai valori, dalle convinzioni e dalle aspirazioni personali, oltre che dai fatti e dalle esperienze che abbiamo vissuto, non è solo un’attività primaria di sviluppo personale; il racconto di sé può anche rappresentare un testo prezioso per la comprensione del comportamento umano.
Il racconto autobiografico è forse il mezzo più efficace per capire come si evolve nel tempo il Sé, o quantomeno per cogliere la prospettiva soggettiva rispetto a quest’evoluzione. Il Sé è stato definito, in termini narrativi, come una vicenda continuativa o come un’interpretazione creativa.
Poiché la narrazione autobiografica non è la vita in sé, ma una mera rappresentazione di essa, potremmo dire che raccontare la propria biografia è un modo per organizzare l’esperienza e strutturare, o verificare, la propria identità (Mc Rae, 1994; Ochberg 1994). La costruzione di una narrazione autobiografica potrebbe benissimo essere il mezzo con cui quella vita viene ricondotta a unità per la prima volta, o trova il filo conduttore che le dà un senso compiuto.
Raccontare la propria vicenda esistenziale così come la si vede può essere una delle risposte più empatiche alla domanda “Chi sono?”. Per alcuni narrare la propria storia significare rafforzare la propria immagine e l’autostima…
Il fatto stesso di raccontare la propria vicenda in modo chiaro, onesto e diretto può essere terapeutico…
Quando l’approccio narrativo viene utilizzato dagli psicoterapeuti, dai counselor o da altri professionisti, come mezzo strutturato per aiutare i clienti a recuperare dettagli della loro vicenda esistenziale che potrebbero rivelarsi preziosi per capire gli atteggiamenti ripetitivi, i problemi, i conflitti o dilemmi che li affliggono (il che avviene normalmente nella terapia), si verifica un processo di “storicizzazione o di ristoricizzazione” (White, Epston, 1990). Le implicazioni di ricerca, oltre che terapeutiche, di questo processo sono assai rilevanti. Storicizzando e ristoricizzando la propria esistenza, si ha la possibilità di creare nuove narrazioni, dal possibile effetto liberatorio.
Robert Atkinson, L’intervista narrativa, raccontare la storia di sé nella ricerca formativa organizzativa e sociale, Raffaello Cortina, Milano, 2003, pp. 18-21.
Si può intendere la narrazione come la modalità di percepire, organizzare e comunicare la realtà attraverso un processo di interpretazione e di attribuzione di significati. Essa implica la ricostruzione degli avvenimenti della propria esperienza ala ricerca di un senso in funzione del punto di vista di chi narra. Si tratta di una tappa evolutiva importante nello sviluppo della competenza comunicativa, poiché quest’ultima prevede non tanto l’abilità di usare le parole e di esprimersi attraverso enunciati semplici, quanto piuttosto la capacità di elaborare una sequenza di frasi dotata di coerenza e di organizzazione tematica al fine di «narrare» un evento, una storia o una fantasia. In questo processo entrano in gioco importanti processi sia cognitivi (come l’elaborazione delle informazioni, il ricorso a conoscenze precedenti, le capacità inferenziali, cioè deduttive – dedurre: trarre da una o più premesse di carattere generale una conclusione particolare) sia emotivi (come la comprensione delle emozioni dei protagonisti, l’empatia). Sotto questo aspetto si può ritenere che l’acquisizione dei significati, oltre che essere utile per classificare gli oggetti, serva per comunicare la propria esperienza.
Luigi Anolli, Psicologia della comunicazione, Il Mulino, Capannori (Lu) 2002, p. 137.
3. Considerazioni tratte dagli appunti sul Seminario di Epistemologia del Counseling, docente Dott.ssa Patrizia Adami Rook, Scuola di Psicologia Comparata, Firenze, 14 Ottobre, 2004.
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