ZITTI TUTTI, PARLA IL SILENZIO! Gestire le pause senza parola

Inviato da Nuccio Salis

silenzio

Uno dei momenti più difficili da gestire, durante un colloquio di aiuto alla persona, è notoriamente la risposta del silenzio, attuata da parte del soggetto verso cui si presta ascolto. Imbarazzo, senso di paralisi, sensazione di impotenza e inefficacia, possono essere le percezioni immediate che si provano durante questo tipo di esperienza, da parte di chi offre la prestazione di aiuto.

Accogliere la risposta del silenzio e stare in ascolto con essa, in regime di empatia, chiedendosi a quali dichiarazioni espressive si riconduca, e quali indicatori contenga, nell’ambito delle coordinate esperienziali della persona, potrebbe essere un modo per poterla trasformare in una preziosa risorsa.

Il silenzio, dopotutto, è spesso il miglior modo per fare chiasso!

 

Momenti più o meno prolungati di tacitazione verbale, restituiscono del resto una nota di enfasi a tutto ciò che viene rilevato come comunicazione non verbale, in tutta la sua estensione espressiva. La pausa silente può dunque rivelarsi un’alleata affidabile, dentro i confini della relazione di aiuto. Per via della moltitudine dei messaggi che è in grado di inviare, bypassando le censure logorroiche della parola, è proprio il silenzio a presentarsi come occasione irrinunciabile per intercettare bisogni non altrimenti esplicitati. Il silenzio può proporsi come una possibile via per decodificare quella complessa costellazione del sentire interiore, ovvero per promuovere l’esperienza del contatto di se, in una prospettiva finalizzata al recupero o alla conoscenza della propria autenticità.

Per questa ragione, riempire il silenzio con domande premature o inadeguate (fossero anche domande aperte o “neutre”), potrebbe soltanto sortire l’effetto spiacevole dell’interruzione. I tempi del silenzio sono così soggettivi, che solo l’ascolto e l’osservazione accurata rimangono gli unici strumenti di intervento, in quanto conservano e rispettano la sacralità di una dimensione ricercata, tutt’altro che vuota o passiva.

Le credenze personali del counselor non dovrebbero interferire con il bisogno di un tempo “senza rumori”, proposto in situazione da chi si offre in consulenza. Ovvero, il professionista dell’ascolto potrebbe rafforzare le sue abilità nel gestire il silenzio durante il setting, superando in modo definitivo tutti quei condizionamenti culturali che ci inducono ad avere paura del silenzio, e sovente a viverlo come qualcosa di destabilizzante, come un vuoto da riempire, segno di pressapochismo in un rapporto o di mancanza di contenuti.

Nella nostra cultura dell’horror vacui, il silenzio è assenza, menomazione, spazio sottratto alla dinamicità; un nulla dalla forza fagocitante, una prospettiva terribile e da evitare sempre. In una società tecnocratica e materialista, che convive nel baccano più insolente, che ricopre con le parole tutto ciò che può spalancare l’abisso dell’ignoto, il silenzio può essere vissuto come un preludio al contatto più intimo, quello cioè che disvela la verità, agli altri e a noi stessi, su ciò che siamo. Non è un caso, difatti, che il silenzio possegga un elevato spessore meditativo, e cioè un potere in grado di farci abbandonare ai territori più inesplorati del vero Sé.

È il silenzio, a questo punto, che diventa sollecitatore della nostra curiosità endoscopica, e che ci aiuta a definirci dentro uno spazio incontaminato, da tutelare da tutti gli stimoli distraenti esterni. È il silenzio, forse, il vero conduttore verso la giusta via in grado emanciparci, e di farci filtrare tutti quei rumori fuorvianti che ci confondono e disorientano.

È diffusamente noto il valore che viene attribuito al silenzio, da una certa cultura orientale. Nella nostra cultura, invece, nonostante la pregnanza dei valori animico-cristiani, il silenzio è morte senza resurrezione. Declamare un’espressione come “silenzio di tomba”, o anche praticare il “minuto di raccoglimento”, in omaggio o in ricordo di un lutto, ci fa comprendere come il silenzio sia assiduamente associato alla morte, vissuta come irreparabile ed irreversibile. Questa interpretazione monolitica, a senso unico, riguardo al silenzio, ci impedisce di cogliere il potenziale rigenerativo di un momento “senza parole”. Esso, invece, può essere un valido amico in luogo di processo dell’aiuto alla persona, perché eventualmente in potere di generare spazi di rivelazione autentica, o quanto meno atipica, affrancata dai modelli convenzionali di una società le cui condotte di relazione interpersonale si stanno sempre più basando su schemi ritualistici, austeri e stereotipi, privati di reale desiderio di una conoscenza più approfondita.

Formarsi al silenzio, potrebbe costituire un aspetto degno di più ampia considerazione, nel repertorio di expertise di un professionista dell’aiuto. Eppure, complice forse un’impostazione un po’ troppo “parolaia”, nel training di un consulente dell’aiuto alla persona, il valore del silenzio è bandito al margine del fastidioso imprevisto; come fosse una sorta di variabile da prevenire e controllare, in quanto disturbante nella relazione col cliente.

Chi si è occupato del tema della pausa senza parola, durante i colloqui di counseling, ne ha elencato le seguenti tipologie e connesse funzioni:

1. Pause emotive: Il cliente sta sperimentando emozioni e sentimenti di natura accentuata, e provvede automaticamente ad una battuta d’arresto.

2. Pause espressive: Il cliente ricerca parole o espressioni adeguate per descrivere i suoi stati d’animo .

3. Pause riflessive: il cliente si sforza di delineare un significato verso ciò che sta provando.

 

Aggiungo di mia iniziativa le funzioni del silenzio, individuate a seguito di tali riflessioni ed esperienze. Il silenzio può assolvere a tali importanti scopi seguenti:

a_) Ricognizione/rielaborazione: Il silenzio può essere utilizzato come ottima strategia per riflettere, raccogliersi in se, fare il punto della situazione e dominare le interferenze di una matassa di stimoli disorientanti. D’altro canto, la formula del “pensare prima di agire” non è che un vecchio adagio sempre valido.

b_) Introspezione/ricentratura: Il silenzio è un forte sollecitatore dell’esperienza autoesplorativa. Il silenzio, dentro quest’ottica, è luce, è l’Abisso da cui nasce la vita. Qui si manifesta con tutta la sua valenza archetipica, dominando fra l’altro come strumento di ricollocazione del Sè. Esso diventa risorsa di ritrovamento ed espressione di un sé confuso o perduto.

c_) Trasparenza/genuinità: La dirompente spinta autorivelatrice del silenzio può guidarci a raggiungere la condizione del coraggio di essere se stessi, e di manifestarci per quello che siamo, guadagnando in autonomia e in efficienza legata al “saper essere”.

 d_) Rigenerazione: Le tacite pause creano un campo di potenziale rinascita per tutti. Come il Caos è l’inizio dell’Ordine, il Silenzio è rilancio di pulsione vitale e progettuale.

 

L’uso del silenzio è una sfida aperta ad un mondo avulso dal rumore, è una modalità atipica e per questo di grande valore, che promuove l’istanza di una nuova dignità da riscattare, congiunta al diritto di poter vivere dentro spazi di creatività molto più dinamici di ciò che superficialmente si potrebbe pensare.

Recuperare questa condizione e riammetterla fra gli strumenti dell’operatore dell’aiuto, perfino nell’approccio basato sulla parola, potrebbe rendere il nostro intervento più elastico, efficace e, forse, in grado davvero di rispondere a chi solleva e condivide i propri vissuti ed esigenze.

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