IL COUNSELING E’ UN INTERVENTO A CARATTERE EDUCATIVO? Connotazioni pedagogiche in relazione d'aiuto

Inviato da Nuccio Salis

counseling educazione

Dipendenza e paralisi, sono forse queste, le due parole chiave che possono descrivere la situazione di chi sta vivendo un momento di stallo nella sua esistenza. Confermare a se stessi di trovarsi in uno stato di blocco, che impedisce il progresso di sé, significa riconoscere la presenza di caratteristiche personali orientate alla dipendenza e al congelamento della propria iniziativa, in termini esplorativi e motivazionali.

Il fattore dipendenza, riconduce all’immagine del soggetto passivo che ricerca il solutore esperto a cui delegare il sollevamento dai propri problemi. L’atteggiamento dipendente non permette una percezione di sé in termini di autoefficacia, e pertanto il modello interpersonale ricercato sarà quello del rapporto fra un soggetto inadeguato che sollecita un altro da sé considerato superiore, competente e infallibile. Il rischio ricorrente, dentro questo schema di credenze e aspettative, è che la controparte potrebbe sovente agganciarsi sul senso di inferiorità proposto da chi si pone in posizione “down”, ed assumere un comportamento responsivo complementare, facilitando così l’avvio di una danza mortale per entrambe le parti coinvolte. Questo accade fino a quando ambedue i soggetti permettono una tale specularità sincronica, facendo prevalere in essi rispettive sovrastrutture identitarie inadatte e anacronistiche, frutto di condizionamenti assorbiti talvolta in modo del tutto acritico o compiacente.

 

Questo aspetto è fra quelli più considerati nella cornice della relazione di aiuto, dal momento che il modello culturale dominante tende a sollecitare il bisogno dell’altro in termini di dipendenza, collocandolo cioè all’interno di una piattaforma di potere,  gestito ed esercitato con schiacciante autorità da un individuo in posizione “up” nei confronti di chi vi si affida.

Tale schema di confronto, altro non è che l’esatta riproposizione, nell’ambito microsociale, del rapporto tradizionale fra istituzione e persona, fra gruppo elitario dominante e minoranza ecc.

Per siffatto motivo, molto spesso, chi si appella per un consulto fondato sull’aiuto, attende di trovare già depositato, nell’altro da sé, la formuletta precotta per tutti i suoi problemi. Tale percorso, oltre a favorire chi ha una visione di sé come samaritano o profeta del buon consiglio, nel ruolo di chi offre il sostegno, privilegia nel richiedente aiuto la persistenza del modello di potere perpetuato dalla cultura dominante, che consiste cioè nel delegittimare posizioni assertive di sé, incoraggiando e premiando l’acriticità e la dipendenza dal falso profeta di turno. Ciò esenta la domanda dell’aiuto da opzioni esplorative interiori, e costruisce o rafforza un atteggiamento delegante e adattivo in senso disfunzionale.

A chi giova tutto questo? Un po’ a tutti: al professionista perché è così ricollocato nell’olimpo aureo delle semidivinità. Al soggetto che esplicita la domanda dell’aiuto, perché evita in tal modo di impegnarsi in un percorso di conoscenza di sé, affrancandosi da responsabilità personali in merito alle dinamiche delle proprie vicende. Giova anche alla collettività, che conferma così il modello dominante basato sull’asimmetria di potere fra un decisore e colui che invece obbedisce alle direttive del primo. Questo conserva l’ordine delle idee e l’orizzonte di convenzioni valori verso cui si è rivolti.

Il fatto assodato è che chi rimette all’altro da sé una domanda di aiuto, in quel momento della sua vita ha necessità di sostegno per effettuare la transizione da una situazione poco favorevole ad un’altra immaginata come migliore ed auspicabile. Questo espone automaticamente il nostro interlocutore dentro un quadro di vulnerabilità. Tale fattore non può e non deve diventare motivo di abuso e sopraffazione, da parte del professionista, in quanto la gestione appropriata di questa condizione, significa di fatto svolgere il proprio ruolo in modo efficace. Il cliente, d’altra parte, potrebbe rimanere sorpreso o sgomento da tale tipo di approccio e trattamento, visto che anch’egli, interiorizzando il modello dominante nei rapporti umani in cultura, si aspetterà che il professionista gli consegni un decalogo di comportamento preconfezionato a cui ottemperare.

In pratica, la condizione del richiedente aiuto è molto simile a quella di un adolescente che da una parte promuove istanze di trasformazione, e dall’altra, forse in modo più tacito ed implicito, chiede di essere guidato in sicurezza, con esempi coerenti ed autorevoli.

 Vista dentro quest’ottica, la relazione counselor/cliente assume una vera e propria connotazione educativa.

Il cliente, infatti, ha una serie di caratteristiche proprie del giovane che consegna parte di sé ad una guida reputata come sicura ed affidabile. Come già riportato, in primo luogo porta certamente un aspetto di vulnerabilità. Avvertire l’esigenza di un passaggio da uno stato esistenziale ad un altro, espone ad una inevitabile sensazione dell’esser in balia di eventi non gestibili o controllabili. Si deve fare i conti col senso di abbandono per le cose perdute, mentre ci si  proietta con incertezze ed incognite verso ciò che è nuovo. Ciò obbliga a fronteggiare il percorso del lutto, che diventa così un altro aspetto caratterizzante il cliente in vissuto di dubbio e instabilità.

Questo percorso, fra l’altro, muove soprattutto le sovrastrutture dell’identità, spingendo il cliente a problematizzare l’idea di se, esattamente come nella fase adolescenziale. Egli affronta inoltre il compito evolutivo focale, che consiste nel conquistare una propria indipendenza mentale. Sollecitato a generare da se i propri costrutti, egli dovrà ricostruirsi dentro un profilo personale di maggiore assertività e autodeterminazione. Dovrà trovare un equilibrio fra il vecchio Sé ed il nuovo Sé, vincendo l’instabilità e dando senso ai suoi conflitti, sia interni che esterni. Ed ancora dovrà restituire a se stesso significati e coordinate esistenziali che lo conducano in una nuova fase della sua vita, in cui scopra la dimensione gratificante dell’indipendenza. È in vista di tale processo trasformativo che ciascuna persona sviluppa da se il percorso ispirato al principio individuationis, l’unico in grado di emancipare l’individuo dagli influssi omologanti esterni.

In fin dei conti, l’autonomia di sé, come nel giovane, si sviluppa come un cammino da proseguire per tutto l’arco della vita, allo scopo di far coincidere il piacere di essere se stessi, col piacere di essere.

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