sentirsi accerchiati dai problemi…


sentirsi accerchiati dai problemi…

Foto di Anand Kumar da Pixabay

                       Quando la persona in aiuto anziché narrarsi, enumera, quasi senza prender fiato, una serie di problemi tendente all’infinito, è necessario che l’intervento del counselor si ponga come distrattore un modo cioè efficace, non invadente, per portare all’attenzione un elemento altro, non previsto e tuttavia del tutto coerente con lo stato in cui versa la persona (ansiosa attesa, richiesta di approvazione…).

 

Per distrarre la persona in aiuto da ciò che è pronta (e allenata) a raccontare il counselor più che alle parole si affiderà ad una o due immagini di evidente e semplice impatto come, ad esempio la raffigurazione di due recipienti di diverso colore a colonna e graduati, denominati il primo “problema” e l’altro “autostima”, e inviterà la persona in aiuto a indicare con un tratto di penna il livello in cui pone la sua personale valutazione dell’uno (il problema) e dell’altra (l’autostima).

Chiamata ad interrogarsi prima di esprimersi, la persona (l’ho riscontrato in molti casi e con persone di età e problematiche molto diverse) quasi in automatico interrompe il flusso del racconto che è abituata a lasciar fluire con estrema spontaneità e si fermerà a riflettere. È sufficiente qualche secondo perché lei abbandoni l’atteggiamento passivo da mero ripetitore di un film senza via d’uscita perfettamente impresso nella sua mente e fortemente emozionante e si attiverà, coinvolto in qualcosa che ha afferrato appena e che la attrae come preludio ad una soluzione.

           Da questo momento in avanti, finalmente avrà inizio il colloquio propriamente detto ed emergeranno sottese tensioni, ansie e probabilmente una scarsa autostima che la persona nutre verso se stessa, comunque inferiore quella che le consentirebbe di affrontare i problemi.

Sono questi elementi causa scatenante dell’atteggiamento evidentemente di “accerchiamento” che la persona lamenta con collaudata convinzione. Potremmo spingerci a ipotizzare che la percezione d'accerchiamento, facilmente accompagnata da pulsioni rancorose è presente in chi si stima più piccolo di ogni problema che, con instancabile perizia e attenzione, osserva intorno a sé. Il dato certo e provato è che la persona, indotta a valutare se stessa e le proprie capacità oltre che la gravità del problema (come abitualmente è pronta a fare), scopre le complesse radici su cui poggia il mondo dei “suoi” problemi.

È possibile individuare caratteristiche ricorrenti in persone che arrivano lamentando di essere sempre le vittime designate di eventi di ogni tipo, piccoli, minimi, e giganteschi? Sì, e sono evidenti, a cominciare dalla frase più gettonata “Capitano tutte a me!” , e poi da effetti tipici del disturbo post-traumatico da stress, fenomeni di iperallerta, pensieri ossessivi, azioni di evitamento, ansia, depressione; la persona che si definisce vittima costantemente delle circostanze, dell’altro e in genere della vita si sente sempre “attaccata”, “non compresa” e, dunque, autorizzata a rimanere solidamente ancorata alle proprie convinzioni. Se le accade (raramente) di ammettere i propri limiti,  invece di riconoscerli e combattere la battaglia con se stessa per migliorarsi, si mette in conflitto con gli altri.  Vive frequenti gli attacchi di panico che sono conseguenza di una situazione di costante compressione, di ricatto e di accerchiamento psicologico, rispetto ai quali il DAP, il disturbo di attacco di panico agisce come una valvola di sfogo che colpisce sia persone sensibili e concilianti, sia soggetti fortemente creativi tanto che, ad esempio, chi ha l'ossessione di organizzare ogni cosa è facilmente predisposto al panico. La necessità avvertita di un totale, costante controllo può nascondere infatti la necessità di non perdere mai di vista e di contenere la propria interiorità, spesso vissuta come qualcosa di problematico o di pericoloso e dunque da isolare ingabbiato all'interno di uno schema facilmente governabile.

Paola Vinciguerra psicoterapeuta, direttore dell’Unità Operativa Attacchi Panico presso la Clinica Paideia di Roma e Presidente dell’EuroDAP, Associazione Europea Disturbi Attacchi di Panico, ha riscontrato un forte aumento di quella che definisce  “Sindrome del sorvegliato speciale” e ne ha verificato le cause osservando cento pazienti che presentavano sintomi comuni. “Uno su cinque - spiega la Vinciguerra -ha raccontato nei vari incontri di sentirsi soffocato, accerchiato e non libero perché controllato da sistemi dei quali oggi nessuno può fare a meno finendo così, involontariamente, nel vortice del grande occhio che tutto controlla. È una sindrome in rapido aumento”. in evidente relazione con la società ipertecnologica in cui viviamo. I sintomi sono ansia, attacchi di panico seguiti da disturbi fisici come forte emicrania. A causarli sono i sistemi di controllo “occulti” dai quali siamo invasi e che di fatto danno una sensazione di “non privacy”, nonostante le leggi tentino di tutelare il privato. Internet, telefonini, banche dati, carte di credito, computer che conservano tracce di tutto: sono strumenti dei quali ormai non facciamo più a meno e che sono esposti a intrusioni o danno informazioni su comportamenti che dovrebbero poter restare privati. Poi ci sono le telecamere attive in ogni angolo, le multe con le foto e ora è arrivato anche il sistema Gps che indica esattamente dove si trova la persona che si sta cercando semplicemente digitando il suo numero di telefonino. “Temono controlli dei datori di lavoro e dei familiari - aggiunge - in particolare del proprio partner, temono che escano comportamenti esecrabili anche dal lontano passato, oppure multe che svelino bugie, acquisti che non vogliono si sappiano, frequentazioni di certi siti internet o telefonate a numeri particolari, relazioni extraconiugali o comunque proibite” .

La realtà che viviamo - continua la Vinciguerra -costruita sui nostri bisogni di controllo e di risparmiare tempo ci si sta rivoltando contro. Tranquillizzare le nostre ansie sapendo sempre dove sono figli, mogli e mariti utilizzando il telefonino in vari modi o sapendo come stanno andando gli investimenti usando Internet, per esempio, o riuscendo ad essere in due riunioni di lavoro contemporaneamente grazie alla tecnologia, sembrava la soluzione alla nostra ansia rispetto all'evento imprevisto. Ma ora ci rendiamo conto che "noi" siamo i controllati. Questa sensazione stimola un senso di apprensione che ben presto si trasforma in ansia (http://www.italiasalute.it/8400/Arriva-sindrome-del-sorvegliato-speciale.html).

Al counselor il compito di allertare, nella persona che ha di fronte, risorse finora da lei non sperimentate per riuscire a conoscersi e rafforzare se stessa, per avere una maggior consapevolezza della propria situazione, per individuare opportunità fino ad ora neppure ipotizzate per l’abitudine a rilevare problemi in un gioco (inconsapevole) di profezia che si autoavvera (“lo sapevo io che sarebbe andato a finire così, cioè male!”). Tra le concrete possibilità di percorso di crescita e libertà da questa forma di accerchiamento da cui la persona si sente oppressa, cominciare a riflettere proprio mentre si sente oberata da una montagna di dveri improrogabili e pressioni di ogni tipo, rappresenta l’enorme vantaggio di darsi un po’ di tempo per ricercare e scoprire le priorità di alcuni impegni rispetto ad altri, il ritmo che potrebbe, vorrebbe darsi, il senso che per se stessa ha ognuno di quegli impegni.

Anche il lavoro psicocorporeo può accelerare l’acquisizione di nuova consapevolezza, poiché una è la modalità che coinvolge insieme sfera cognitiva ed emozionale: “Una persona può essere aiutata a rendersi conto della connessione tra una sua criticità emotiva e la struttura della sua colonna vertebrale. Si può accorgere, ad esempio, che la sua schiena si raddrizza in concomitanza con il cambiamento della sua visione di Sé e del mondo e contemporaneamente le sue convinzioni mutano con le nuove sensazioni provenienti dalla sua schiena eretta.

Il lavoro psicocorporeo crea una regolazione emozionale che può essere di tipo top-down (cioè dal cognitivo al sensoriale) oppure bottom-up (cioè dal sensoriale al cognitivo). In ogni caso, le nostre reazioni biocorporee sono sei volte più veloci del nostro pensiero”.(da Assocounseling, Rivista italiana di Counseling, Settembre 2014).

           Il lavoro più profondo che la persona in aiuto accompagnata dal counselor è guidata a compiere è  il riconoscere la propria responsabilità esistenziale  e ciò implica un percorso Dall'io al sé. Per l'uomo che agisce e soffre prima di arrivare sino al riconoscimento di ciò che egli è in verità, ossia un uomo capace di certe realizzazioni il cammino è lungo (Paul Ricoeur). Non è solo il riconoscimento che l'altro ha di me in base alla mia parola e alle mie azioni (piano etico), ma anche l’essere riconosciuto nel tempo e a distanza di anni sulla base di certi tratti somatici (piano gnoseologico, di conoscenza). Paul Ricoeur scrive: Il tempo si rivela come "un agente doppio, un agente dell'irriconoscibilità e del riconoscimento" e il lettore diviene "lettore di se stesso" (Paul Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, 2004) e cita Proust (Alla Ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato, IV) in cui in una scena di un pranzo gli invitati si incontrano dopo molto tempo e vivono la penosa difficoltà a riconoscersi reciprocamente per il fatto che il Tempo aveva cambiato il loro aspetto. 

Saremo in grado di ri-conoscerci se abbiamo almeno iniziato il percorso per …conoscerci e conoscerci significa consapevolizzare che siamo soggetti in continuo cambiamento. Impegno arduo e irrinunciabile.

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

 

 

 

 

 

 

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