Accogliere l’altro significa ascoltare la trama e il significato sotteso o più o meno esplicitato che si evince dalla storia di cui egli è portatore. Avere una storia, equivale quasi del tutto ad essere la propria storia. L’esperienza biografica incide e determina il corso stesso dello sviluppo verso cui ciascuno di noi si direziona. Vicissitudini e creazione di senso si intrecciano vicendevolmente a generare strutture di significazione, a forgiare un profilo del Se da intendere come un mosaico dentro cui si sente agenti ed agiti, attivi e passivi, decisori e succubi. È proprio tale groviglio che delinea la nostra forma di espressione ed enuclea la nostra sostanza, come fossimo una calda e malleabile palla di fuoco da forgiare. Ed il fabbro, in questo specifico caso, fosse ancora e sempre lei: la nostra storia.
Viviamo la nostra storia o siamo vissuti da essa? Probabilmente, la risposta non può assumere una direzione univoca. L’argomento è ampiamente trattato, e le diverse scuole di pensiero filosofiche e psicologiche si sono sempre confrontate cercando di validare ciascuna per se la portata delle proprie argomentazioni e delle proprie tesi.
Il punto che mi interessa affrontare è un altro: riguarda lo sviluppo della relazione interpersonale, nella fattispecie quella d’aiuto anche se non del tutto in modo esclusivo. Tale relazione mi rimanda alla natura di un rapporto caratterizzato dall’incontro fra due Io esperienziali portatori di storie, contenuti, vissuti, sistemi percettivi e orientamenti di senso. In pratica, nell’incontro con l’altro, non sono soltanto due persone fisiche che si confrontano, ma due vere e proprie unità strutturali, due entità storicamente fondate che scelgono di stabilire un certo livello di vicendevole compenetrazione che porterà, immancabilmente, a una reciproca contaminazione ed influenza. Al di la delle strategie di non direttività o applicazione del principio del minimo impatto, non possiamo far finta di non prendere in considerazione quanta ascendenza formativa possiamo avere sull’altro, specie se consolida insieme a noi un alleanza decisamente impiantata sulla fiducia, sull’onestà e sulla fedeltà del nostro ruolo. Altrettanto, mi sembra ovvio, l’altro ha un impatto su di noi, anche se si suppone venga gestito in maniera appropriata all’interno di un certo principio di formalità e asimmetria nella relazione di aiuto.
Credo che questo aspetto, forse sempre del tutto inevitabile, la dica molto lunga sulla profondità emozionale e sullo spessore formativo che si assume nell’impegno di espletare il servizio del sostegno psicologico alla persona. Questo tema è dunque un elemento del corollario umano, che rende propriamente viva e “calda” anche la relazione interpersonale qualificata da un certo margine di neutralità. Tale aspetto si determina a seguito di un incontro alchemico fra due distinte sovrastrutture dell’Io narrante: quelle del facilitatore e quelle del richiedente aiuto. Dunque, ciò che mi sento di ricordare, è che anche il counselor, nell’accogliere ed ascoltare l’altro, utilizzando strumenti efficaci della comunicazione interpersonale, deve ottemperare a un processo di decentramento che riguarda diversi livelli del suo sistema di relazioni. Anch’egli, come il cliente, è soggetto storico, fondato dalla molteplicità strutturale della pluriappartenenza. Anche il counselor, come il cliente, ha introiettato dal suo microsistema di relazioni primarie un protocollo famigliare, da cui ha incamerato gli stimoli fondanti del suo essere; possiede gli ulteriori strati concentrici di relazioni secondarie (scuola, amici e compagni), i livelli ulteriori su aspetti via via sempre più macrosociali (quartiere, città, regione, nazione, continente), con tutte le loro complesse ed influenti variabili storiche e socioculturali. Lo sforzo del counselor, dunque, nell’esperire lo sforzo del decentramento, riguarda un impegno preciso: la sospensione del molteplice. Intendo con questo termine il sistema unitario dei fattori personale e contestuali che gli sono propri, la struttura generale a cui è tenuto attribuire un senso compatto ed organico, al fine di prevenire una sensazione interna di vulnerabilità o disordine. In poche parole, credo che il counselor abbia a che prendersi cura di tale delicato compito. Poiché se è vero che facilitiamo noi stessi e l’altro a concentrarci nella parentesi temporale del qui ed ora, forse non è possibile trascurare del tutto la possibilità di guardare a se stessi come altrettanti Io narranti, che si perdono momentaneamente, per poi ritrovarsi, senza per questo dimenticarsi nel frangente della sospensione, decentrarsi in modo maturo nella consapevolezza che ogni frammento di esperienza anche dolorosa che ci ha trasformati, è accomodato e in un posto sicuro raggiungibile per agire verso l’altro con quella congruenza che è di solito tipica solo di chi detiene la consapevolezza di essere un guaritore ferito.
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