Abili Alibi …labili 3 L’alibi della parola


Abili Alibi …labili 3

L’alibi della parola

René Magritte, 1966, le pélerin, homme, bleu, surréalisme (particolare)

 

           Chi osservi con spirito di obbiettività i vari fenomeni della vita sociale non può fare a meno di stabilire un punto comune di convergenza e, cioè, che la parola ha perduto la sua prima qualità di ricognizione del vero per diventare una maschera e trasformarsi nel più comodo degli alibi.

 

[Carlo Bo, Corriere della Sera, venerdì 31 luglio 1970, in:

https://www.bartolomeodimonaco.it/online/letteratura-i-maestri-lalibi-della-parola/]

           L’indiscussa autorevolezza intellettuale di Carlo Bo, ha oggi –da quel remoto 1970– ancor più efficacia; come una sferzata,  ridesta le nostre estreme difese di autonomia e nel contempo dilata l’amara percezione di impotenza che avvertiamo. Così, gli esempi che enumera ci giungono come riferiti con chirurgica precisione agli eventi che stiamo oggi viendo e non come documento storico.

Per questo, trovo emblematico ri-proporre alcuni brani di questo “antico” intervento lasciando libero, ognuno che leggerà, di ridestare associazioni, analisi anche diverse e pre-figurazioni di un prossimo futuro che ci attende.

Il primo esplicito esempio che Carlo Bo indica, di uso della parola come alibi a mancanze (di idee, di convinzione, di senso della realtà, di lealtà…) e come paravento e simulazione per nasconderci dietro di esse, è la politica: Prendiamo il caso della vita politica dove l’estrema complicazione degli strumenti del linguaggio denuncia esteriormente il bisogno della sincerità e della completezza delle informazioni mentre nella realtà quotidiana si assiste allo spettacolo di un tradimento immediato e contemporaneo alla professione di fede, ai propositi e agli stessi programmi.

Quando si sente ripetere fino alla noia che il pubblico non è in grado di comprendere il linguaggio dei politici non c’è nessuna obbiezione da fare, la cosa in sé è più che vera ma non dobbiamo dimenticare che lo scopo primo di tutti questi discorsi complicati è ben diverso: non si tratta infatti di rendere conto della verità ma di nasconderla, se mai ci fosse una verità da difendere.

La parola in tal modo tradita e camuffata ha un’altra funzione che è per l’appunto quella di allontanare, di allargare il fosso della divisione per radicare meglio la pianta del potere individuale. Non si è mai parlato tanto del bene comune e dei doveri che ognuno di noi ha nei confronti della comunità, eppure se si tenta un calcolo finale ci si accorge immediatamente che il bene inseguito è quello di una piccola famiglia e che il meccanismo degli equilibri astratti ha assoluta prevalenza sull’altro del miglioramento e della progressiva riduzione degli squilibri e delle ingiustizie.

Si assiste in ultima analisi a un’orgia di parole con potere limitato al momento. Chi volesse misurare o soltanto stabilire un rapporto di forza e di numero fra i discorsi programmatici e quelli finali dei risultati si troverebbe nell’impossibilità di arrivare a una sia pur minima e credibile conclusione.[…]

[Nella filosofia e nella religione] c’è tutta una posizione che sostiene una sorta di rottura totale e invoca delle scelte profetiche, rivoluzioni totali che, a ben guardare, sono altrettante maschere e alibi nei confronti di quelli che sono i problemi stessi della vita comune.

Ma non basta; questo giuocare al buio, questa finzione, questa accettazione dell’alibi non sono appannaggio soltanto dei professionisti ma vengono più o meno liberamente condivisi dalla massa. Le elezioni funzionano, nonostante tutto una minima parte di speranza viene riservata alle risposte delle urne mentre sul fondo delle coscienze resta il dubbio che nulla muterà e che la sola salvezza verrà da un miracolo, da « qualcosa che non sappiamo ». Ecco un’altra contraddizione fragorosa fra la precisione tecnica dei programmi e l’attesa della comunità basata su un atto miracoloso, su un intervento di natura non umana.

Pur nel rispetto della libertà di interpretazioni individuali, non può non colpire il fatto che Carlo Bo, mentre solleva lo sguardo ai grandi sistemi, alle teorie e alla spiritualità, con pragmatica certezza abbia netta considerazione del “particolare”, della nostra quotidiana routine: Né sembri da trascurare un altro particolare, vale a dire il contrasto fra le luci apocalittiche di certe diagnosi e il tran-tran quotidiano delle piccole soluzioni.

Da una parte c’è il ricorso all’alibi delle parole, dall’altra c’è il quadro dei problemi concreti. Questo spiega anche perché ben raramente si abbia il caso di gente che metta in pratica le proprie idee, perché nessuno si senta moralmente obbligato a rendere diretta testimonianza della propria verità.

La verità è stata sostituita da un’altra idea, quella dell’opportunità. E per questo c’è una valida giustificazione, la vittoria dell’irrazionale sul razionale, di ciò che ci viene dal di fuori su ciò che sta dentro di noi.

Chi sappia guardare fino in fondo nel proprio cuore finirà col fare una ben dolorosa constatazione: quando non si crede più in nulla, quando ci si sia abituati al perpetuo franare delle proprie opinioni sarebbe ridicolo puntare sui tempi lunghi, così come sarebbe inutile fare dei sacrifici o pagare di persona. Tutte cose che appartengono a un codice da troppo tempo scaduto e che nessuno ha più il coraggio di proporre.

Resta questo fiume infinito di parole, questo ricchissimo mercato di pretesti quotidiani, di offerte da consumare subito e soprattutto rimane la questione del valore da dare alle nostre parole.

Per il cristiano cattolico Carlo Bo, inevitabilmente una simile riflessione non può che trascinare un’altra Questione: la parola può essere dell’uomo o parola e silenzio sono soltanto di Dio? A questa domanda tenta di rispondere un professore di letteratura ebraica dell’università di Strasburgo in un libro pieno di suggestioni (André Neher, L’exit de la parole, Du silence biblique au silence de Auschwitz, nelle edizioni del Seuil). La Bibbia viene presentata con una nuova visione non più soltanto come il libro della Parola ma anche come il libro del Silenzio.

Il silenzio, questa categoria abolita dalle nostre abitudini, sarebbe inoltre il punto d’arrivo, il « regno autentico del Verbo ».

Non poteva mancare, nella prospettiva di questa lucida analisi, una proposta di concretezza, un’indicazione di comportamento:[…] Ogni volta che ci tocchi di analizzare la crudele dittatura delle parole umane, l’arbitrio e l’alibi dei nostri discorsi, è la riprova che il più delle volte, se non tutte, noi ci serviamo delle parole per nasconderci, per metterci la maschera che ci liberi dal dovere e dalle responsabilità.

Acquisire progressivamente consapevolezza della realtà, della nostra intima e di quella del mondo, dei contesti in cui ci muoviamo spesso con fatica, è compito altamente dignitoso, è forse il più alto che compete all’umano. Non è la soluzione, certamente non è la soluzione immediata, non dà solo certezze e forse, se ben condotta, acuisce interrogativi e dubbi latenti, ma è l’indispensabile avvio per mutare l’esistenza in autentica vita. E chi conosce il counseling ne sperimenta l’opportunità.

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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