Da sempre, diversi filosofi si sono sempre interrogati su come un umano possa procedere lungo tutto il suo percorso esistenziale senza subire eccessivamente le pressioni esterne. Tenendo presente che questo fenomeno è inevitabile, e che la sua presenza è utile e funzionale all’apprendimento, la comparsa dello stesso dimostra come noi siamo contaminabili, suggestionabili e aperti alla introiezione di stimoli che diventano poi esperienze, configurazioni percettive e rappresentazioni della realtà che si susseguono in funzione di passaggi preliminari che ne costituiscono un intero processo. Tale complesso procedimento da luogo a una serie di schemi di giudizio e di valore attraverso cui ci orientiamo nel mondo, dando senso e significato a ciò che viviamo, e facendo anche in modo che questa cornice contestuale che include anche la nostra identità venga al tempo stesso modificata da tutte le vicende e le dinamiche che sviluppiamo attraverso la nostra biografia e il nostro racconto, delineando un nostro profilo personale, costruendo un nostro identikit psicologico; tutto ciò mentre avviene nella contemporaneità sia la ricezione di influenze esterne che l’invio a nostra volta di tutti i nostri segnali comunicativi, sia intenzionali che impliciti. In pratica partecipiamo ai processi che influenzano ciascuno nel percorso della sua evoluzione.
Non siamo cioè limitati alla funzione di recettori che assorbono gli input esterni quali fossero soltanto elementi passivi, ma siamo anche trasmettitori che restituiamo ed inviamo messaggi e contenuti associati alle nostre personali coordinate espressive (esempi, comportamenti, conoscenze), in funzione del ruolo che ricopriamo ed anche del carisma che riusciamo ad avere. Attualmente tale discorso si estende alla fruizione e all’uso dei social network, del cui linguaggio, non casualmente, si utilizza l’espressione “influencer” per indicare un profilo in grado di esercitare influssi verso una certa moltitudine di persone.
Ciò serve a riconoscere tutti coloro che dentro i contatti di una rete multimediale attivano la loro capacità di generare intorno a sé un consenso di seguaci (followers) pronti ad aggiornarsi sull’agenda quotidiana del profilo prescelto. Chi emerge con il suo potere attrattivo di “net leader”, si impegna a pubblicare e diffondere contenuti che contribuiscono a formare quelle che sono le pubbliche opinioni o meglio orientamenti di tendenza di natura in genere passeggera, di solito legati verso scelte di abbigliamento, stili di vita, interventi su di sé a livello estetico e corporeo.
Al di la di come cambiano i tempi e di come questo tipo di realtà si attualizza nella nostra trama contemporanea di accadimenti, rimane un denominatore comune in tutte le epoche storiche, cioè il fatto che noi siamo al tempo stesso emettitori e ricevitori di segnali sociali, di transizioni, che contribuiamo a generare, modificare e negoziare con le nostre stesse azioni. Specie se queste ultime sono dettate da iniziativa personale, da inclinazione creativa e sperimentale, capacità ricreativo-critica dei concetti e delle azioni che in qualche modo muovono la società. La nostra influenza può avere un livello non soltanto più o meno esteso dal punto di vista dei numeri (in riferimento ai contatti da social che fanno parte della nostra community) ma anche dal punto di vista della qualità. Noi potremmo cioè essere delle autorevoli voci ed edificanti esempi anche per un numero molto ristretto o esclusivo di persone, per le quali però siamo molto importanti, basti pensare ad esempio a quanto i genitori inizialmente, nelle prime fasi precoci di vita dei bambini siano soggetti privilegiati agli occhi dei loro rispettivi figli, in quanto insostituibili eroi che peraltro nell’immaginazione dei bambini sarebbero in grado di fare cose ben oltre le oggettive capacità umane. Esiste quindi un posto verso cui una buona parte della filosofia ha cercato di argomentare e di porre all’attenzione del pubblico e di farne uno squisito oggetto di indagine dialettica. Tale luogo è quella essenza interiore che riesce a rimanere pura e incontaminata, capace di spontaneità e iniziativa personale, così come lo era all’origine, affrancata da tutte quelle contaminazioni ed influenze con cui ha dovuto inevitabilmente fare i conti durante il suo percorso.
Riassumendo questo passaggio, vi è una parte della filosofia che ha scelto di rimanere impressionata da tale fenomeno e che dunque ha privilegiato questo interrogativo specifico, partendo dalla convinzione che esista un luogo interiore che rimane sostanzialmente illibato rispetto a tutto ciò da cui invece verrebbe attraversato. Raggiungere questo luogo sarebbe come trovare oggi una distesa d’acqua cristallina in un mondo dove fondamentalmente la maggior parte dei fiumi, dei laghi, dei mari e di tutta la natura conosciuta è stata irrimediabilmente devastata dalla presenza delle attività umane e dove lo sfruttamento dissennato e senza controllo delle risorse naturale ha prodotto profonda contaminazione.
C’è questo luogo? È possibile accedervi? Sono quesiti che hanno unito e impegnato concettualmente diversi pensatori e ricercatori di varie epoche. In cosa consiste esattamente questa spinta primigenia e spontanea? Sappiamo che attraverso di essa si è propensi ad utilizzare quella autentica interiorità che attualmente con il linguaggio della psicologia contemporanea chiamiamo il vero Sé, il quale peraltro rimane una entità una e molteplice, e pertanto un concetto in ogni caso non compatibile con l’idea della originaria essenza secondo le conclusioni di altre scuole che identificano tale essenza con il Pneuma del principio, quindi come spirito che invece sarebbe un Uno indivisibile e, come afferma l’indirizzo neoplatonico un Uno nell’UNO, a descrivere come l’indivisibilità microcosmica dell’essenza abita dentro la Sorgente maggiore da cui è scaturita e verso cui ritorna.
Al di là degli orientamenti, delle esperienze senzienti, delle preferenze e delle scuole di appartenenza a cui eventualmente si aderisce, questa curiosità ha riguardato e coinvolto generazioni di diversi tempi, ed anche senza dover formulare domande complesse, intrise o guidate dai concetti filosofici che le sostanziano in modo più strutturato, vi sono varie personalità che si sono confrontate sul tema e che hanno chiamato questa parte pura e profonda, sfuggente dalle sollecitazioni contaminanti esterne, come “Bambino interiore”. Questa parte di noi vien però in questo caso ad essere interconnessa con elementi psichici della personalità, e pertanto la fortunata espressione, anche se più facilmente comprensibile da un pubblico più vasto, resta ancora vaga e tale da non soddisfare la descrizione di quella invisibilità che ricerca e sospinge la vita. Il vocabolo è dunque un espediente descrittivo che avanza il tentativo di racchiudere in un’immagine semplice qualcosa la cui impossibilità di descriverla col linguaggio della mente diviene esperienza troppo insopportabile per l’umano medio abituato a catalogare, definire, misurare, monitorare e controllare senza che tutto ciò urti il suo stabile recinto di ritualità e ripetizione che conferiscono sicurezza e appartenenza sociale.
Questa parte di noi non solo vive a contatto con la sua stessa natura primordiale da cui ne ricava i bisogni essenziali (i quali coincidono anche con quelli di un bambino: il contatto, la prossimità, la vicinanza psicologico- affettiva, il contenimento, la protezione, il nutrimento, la fiducia e l’alleanza con il caregiver, il gioco, la scoperta per ricerca attiva e sperimentale), ma se ne affranca nel contempo, poiché queste qualità rappresentano sì i parametri dai quali partire per poter dare una sottolineatura molto forte a certe coordinate che nell’età contemporanea vengono sottostimate, e non sono comunque gli obiettivi permanenti di una essenza che si risveglia proprio per lavorare al loro superamento. Penso ancora ad esempio alla dimensione della leggerezza, del gioco, della creatività, della gioia per la scoperta, dell’espresso desiderio di intimità e condivisione; sono queste tutte tensioni sicuramente favorevoli a questo tipo di energia ed anche alle istanze che la stessa propone e cerca di soddisfare e perseguire per se stessa, e al tempo stesso non mi convince che sia soltanto il “Bambino” che impegna la giornata in questa sua zona funzionale di atti che fanno riferimento a quella immagine collettiva e dunque semplificata dell’essere bambino, poiché questa parte di noi cerca anche di vincere i bisogni stessi che sono quelli legittimi, profondi ed autentici della parte bambina, e di superarne quelle inclinazioni che la parte bambina stessa si porta dentro, come per esempio il desiderio permanente di ricevere attenzioni, in un modo sistematico, sostenuto, ininterrotto e continuativo. Queste annoverate esigenze citate, difatti, vengono gratificate mediante una modalità che consiste nell’afferrare gli stimoli esperienziali dall’esterno, mentre questa energia primordiale è autoalimentata e non ha necessità di ricevere carburante esterno, non ha necessità di fare il pieno dei nutrienti artificiali conosciuti, non ha nemmeno necessità degli altri. Essa ha bisogno solo ed esclusivamente di se stessa. E nell’autoalimentarsi con questa consapevolezza, scopre che non può consumarsi, rivela a se stessa la sua eternità.
Rinchiusa così come è, dentro un complesso di scatole cinesi che rappresenta tutte le nostre interpretazioni e letture sul piano mentale, suggestionate da credenze, supposizioni, esperienze, aspettative, progettualità, pianificazione per il futuro, rimane congelata sulla base di una piattaforma comune che ci invita a sostare dentro questa dimensione. Fino a che resta infatti imprigionata dentro questa area che ne sollecita l’annichilimento, dimentica se stessa ed attende di risvegliarsi per un qualche motivo. È come se sostasse temporaneamente dentro le spire di un serpente, stritolata ed oppressa da forze esterne, ancora incosciente sulla sua suprema ed invincibile forza. Si renderà conto di questo dal momento in cui scopre il legame con la Fonte primaria da cui ha origine, e con naturalezza sprigionerà la sua forza. Molti ricercatori che in qualche modo si sono impegnati entrando nel merito della dimensione umana, facendo gli speleologi di una ricerca così complessa ed approfondita, hanno dovuto fare i conti con questa frontiera del Sé profondo, ed hanno dovuto anche riconoscere tale entià come la unica e sola essenza vitale. Tutto quello che non coincide e che non è essenza, si sovrappone come negazione stessa della spinta vitale, praticamente è morte (mortido, thanatos) o illusione (maya). Quindi, se dobbiamo cercare al vita e vogliamo vivere esclusivamente attraverso l’atto e le dinamiche potenziali che possiamo compiere con la forza vitale, è questa la dimensione che dobbiamo ricercare.
Socrate dall’antica Grecia ci parla del daimon, Bergson discetta sull’èlan vital, per arrivare ai più contemporanei Carl Rogers ed Eric Berne, che sono peraltro due distinte personalità che collimano all’interno di una psicologia impegnata alla creazione di una nuova veste, specie dentro l’ambito clinico dell’offerta opzionale dei percorsi terapeutici, di cura e servizio alla persona in stato di bisogno, con la finalità di promuovere un ricercato sostegno molto prossimo alle istanze umane, per poterle realmente comprenderle e soddisfare, generando situazioni di vero equilibrio e salute nel campo sociale.
Rogers illustra questa forza intrinseca, attribuendola a chiunque, come della “tendenza attualizzante”, realizzando un fortunato accostamento di termini, a mio invalido avviso, dal momento che la parola “tendenza” ci può far percepire come vi sia anzitutto un movimento, un qualcosa che si propone di agire, ci scuote animatamente dall’interno, in modo diretto e assertivo, in un moto perpetuo. Ciò è curioso dal momento che significa che agisce anche se apparentemente sta ferma, anche quando sembra immobile e priva di valenze a carattere progettuale. Il suo movimento difatti non traspare affatto anche dalla manifestazione cinetica dell’autore che la contiene. Tutt’altro, piuttosto, il lavoro interiore molto più che spesso e volentieri necessita di silenzio, di ritiro, di meditazione, di riposo e di inazione. La superficialità dell’immondo (colui che appartiene al mondo) la giudicherà come indolenza e pigrizia, inconsapevole di quanto sia lui stesso in realtà caricato esattamente di quelle valenze. Egli può comprendere soltanto il linguaggio del rapporto schiavile fra chi gli garantisce un lavoro e lui stesso che ne sottoscrive il patto.
Qui invece sto facendo riferimento a una forza prorompente che altro non è che il risveglio, la conoscenza o meglio la ri-conoscenza di sé, cioè l’incontro con ciò che può essere unicamente chiamato vita. La Coscienza è la sola ed esclusiva sede di espressione di vita autentica, poiché viene dall’Origine. Tutto ciò che non è Origine è proiettato dall’ologramma e da tutta l’architettura demiurgica che pianifica l’orizzonte delle illusioni e delle apparenze, inglobando le stesse dentro la finzione e dentro l’inganno. Per cui bene hanno fatto tutte queste personalità a sostenere che se noi vogliamo realmente aiutare qualcuno, costui deve essere aiutata anzitutto a confrontarsi con questa parte di sé che poi è se stessa. Seguendo questa impostazione, noi aiutiamo qualcuno (anche in riferimento alla conduzione della relazione di aiuto dentro il setting professionale) solo se lo sospingiamo ad incontrare se stesso, distruggendo l’illusione e non facendolo galleggiare alla meno peggio in una condizione sui generis da cui abitualmente ricava stabilità e ordine apparente, esplicitando bisogni secondari artificiosi e indotti dalla massificazione in forza del suo ruolo e della sua funzione sociale, e quindi dalle aspettative di terzi (parenti, amici, famigliari, colleghi, capi ecc.). Questo è però ciò che purtroppo ricercano, chiedono ed attendono la maggior parte delle personalità che arrivano a chiedere un percorso terapico e di crescita. È molto difficile, soprattutto di questi tempi, che qualcuno chieda realmente di sgombrare tutti gli orpelli e le zavorre che accecano la lucida visione ed impediscono il risveglio. Quelli che si comportano in modo suddetto, o hanno una eccessiva paura di perdere i loro privilegi e di non poter immaginare che cosa possa esservi oltre il buio dell’incognito e dell’ignoto, e molti altri perché non ne posseggono tale natura.
Bisogna infatti prendere atto che solo una minima parte (veramente molto ma molto esigua) di quelli che chiamiamo generalmente umani, sono in realtà Spiriti incarnati, eterne essenze temporaneamente ridiscese su questo piano per i loro scopi. Tutti gli altri, come è constatabile semplicemente interagendovi, altri non sono che replicanti di replicanti, programmati allo stesso modo e rispondenti con le stesse modalità ai medesimi impulsi ricevuti. Se provocati allo stesso modo modulano le medesime risposte e gli stessi esatti atteggiamenti indottrinati nel loro software di natura collettiva e artificiale.
Proseguendo la disamina del linguaggio rogersiano, l’espressione “attualizzante” richiama la capacità di puntare e veicolare il presente, ed a realizzare l’unico tempo possibile espressamente tangibile ed utile. Si tratta dell’impegno verso il “qui ed ora” che è diventato difatti un vero e proprio paradigma nell’aiuto alla persona, particolarmente caldeggiato dall’attività di counseling. Questa è anche la ragione per la quale con l’avvento delle tecniche e delle terapie rogersiane cambia tutto nel panorama della relazione di aiuto e nell’ambito del trattamento clinico.
Si colloca al centro del trattamento la persona, che peraltro nell’accezione rogersiana non si intende la persona-maschera, altrimenti ciò destrutturerebbe il discorso sviluppato in precedenza. Non è dunque in linea all’accezione di simulacro teatrale che Rogers utilizza il termine “persona”, ne è la prova che egli scrive on becoming a person, vedendo nell’identità-persona il punto di approdo di una evoluzione condotta per mezzo di strumenti di strumenti di ascolto e di accettazione di sé. Seppur con l’inserimento di numerose ed epocali novità per gli approcci della psicologia tradizionale, i linguaggi rimangono comunque confinati nell’ambito dello psichismo, della mente e del comportamento.
In questa sede io sto cercando invece di proporre parametri di lettura di tipo spirituale, gnostica per la precisione. In rimando però, ancora una volta, all’espressione “attualizzante”, questa ritorna utile dal momento che il significato che assume riguarda la direzione a realizzare ciò che potenzialmente è insito nell’esistente, si affranca dalle ansie del futuro, dalle ipotesi, dai progetti, da ciò che verrà disatteso e deluso dall’incertezza dell’indomani. Questo è anche per giunta una preziosa indicazione in riferimento a un messaggio evangelico molto pregnante che riguarda le angustiose preoccupazioni per il domani, sul cibo, sul vestiario e sugli aspetti mondani del vivere. Il messaggio invita ad evitare di ricorrere alla pena del domani, al pensiero sul futuro, e stare piuttosto concentrati in presenza in quella dimensione che richiama a sé ciò di cui si ha bisogno, perché la Coscienza sa sfamare e dissetare i suoi bisogni più profondi.
D’altra parte, a conferma di ciò, se io sto centrato sul presente, il domani non arriva mai, poiché l’attimo successivo è diventato presente, inglobato in un tempo che astrae il tempo. Concetti troppo spesso non contemplabili dalla logica lineare abituata ad organizzarsi su una sequenza di tempo che si dirige sul medesimo segmento e lungo lo stesso e ripetuto tragitto. Diversamente, però, ho la possibilità di gestire e concepire il tempo assecondando il principio del qui e ora, quindi non raggiungendo di fatto l’idea del domani (inteso principalmente come progettualità a medio e lungo termine), dal momento che viene trasformato nell’oggi. A questo punto il domani non è più ammesso come giorno riconoscibile sul calendario.
Posso comprendere la fatica del soggetto medio occidentale che vive proprio legato all’orario e ad un sistema di vissuto del tempo in modalità orizzontale e lineare, dentro uno schema rigido e monolitico. Diventano perciò molto importanti questi passaggi, proprio a causa del materiale carico di contenuti a carattere riflessivo che riescono a consegnarci.
Ancora in linea all’encomiabile tentativo di descrivere questa forza intrinseca che ci libra verso la meta del vero Sé (Essenza) , troviamo Eric Berne, il fondatore dell’approccio analitico-transazionale, il quale dapprima disegna in modalità schematica la struttura della personalità dell’individuo umano (Bambino – Adulto – Genitore), riferendosi a quelle parti di noi che sono prevalentemente costruite dalle esperienze (in modo particolare il Bambino e il Genitore), e ciò non dovrà però confonderci a identificare la physis con le istanze dell’Adulto. Niente affatto! Lo stato Io Adulto è parte della personalità, per quanto se equilibrata può aiutarci a gestire gli “elastici” (nel linguaggio berniano le risacche del passato che si ripresentano), ovvero i retaggi e le restituzioni di un’eredità esperienziale che ci spinge a sentire e ad avvertire limiti ed ostacoli, oppure ancora a percepire che non possiamo più proseguire per un nostro obiettivo, facendoci propendere per una rinuncia o per una scelta alternativa poco edificante o poco corretta. L’Adulto potrebbe anche mettersi al servizio di tale energia propulsiva primordiale e ordinatrice, a patto che però l’elemento personologico in questione non venga contaminato e disturbato dalle interferenze di uno o entrambi gli altri stati dell’Io rimanenti (fenomeno della singola e doppia contaminazione). L’ego Adulto può quindi ricevere insidiosi impulsi ad agire che vengono percepiti come appropriati e che invece sono delle vere e proprie occupazioni abusive di territorio; presìdi che tengono in scacco quella parte di noi che, convinta di assumere decisioni congruenti e responsabili, si affida senza saperlo a false convinzioni e distorte dottrine e tendenze emozionali che provengono da ferite e piccoli o grandi traumi. In tal caso, i compagni di viaggio dell’Adulto sono degli abili sabotatori parassiti travestiti però da sinceri amici e collaboratori.
La physis, come è illustrata e rappresentata da Berne è un vettore che punta verso l’alto, a trascendere lo schema della personalità, e quindi si erge come forza interiore che va nella stessa direzione concettuale secondo la filosofia di Rogers: ovvero è una ‘tendenza attualizzante’. Tende difatti a realizzare il presente vincendo i drammi, vincendo le relazioni pre-programmate da una identificazione impropria su maschere e ruoli sociali che procedono a sviluppare tutti quei meccanismi che vengono configurati dentro la piattaforma teorica dell’analisi transazionale sotto il nome di ‘giochi’ e ‘copioni’.
Queste congetture possono costituire spunti e questioni indispensabili da affrontare, dalle quali non è riuscita ad affrancarsi nemmeno una certa psicanalisi, in riferimento a quella parte di questo indirizzo che ha accettato ed accolto riflessioni che hanno osato sfidare l’originario impianto freudiano più ortodosso. Nello specifico si potrebbe fare riferimento a personalità straordinarie come Jung e fra i suoi seguaci l’Assagioli, fondatore della psicosintesi e il più noto Hillman. Il primo che ho citato ci illustra magistralmente il concetto della supercoscienza, e quindi quella parte di noi in grado di trascendere quegli aspetti più soggetti alle influenze esterne e costruite dai contesti che incorniciano l’esperienza della persona. È mediante la supercoscienza che noi possiamo osservare i nostri moti interiori con un o sguardo sospeso, condurre quindi un’opera di metavisione e di conseguenza scegliere e decidere riappropriandosi della propria volontà originaria. Questo supera il concetto di ‘Super-Io”, legato piuttosto al sistema dei valori condiviso e introiettato dal soggetto che lo attiva. Dentro l’orizzonte teoretico e pratico di Assagioli il riferimento va a ad un superconscio che si astrae da ciò che perturba e dichiara l’identità plasmata dalle ‘cose del mondo’, per poter così orientare l’individuo verso mete supreme e più sublimi. La finalità di questo percorso coincide con il raggiungimento del vero Sé, autoguidato da se stessi e quindi gratificante come la conquista per eccellenza, determinata e appagata da una gioia impagabile, poiché questo successo coincide con l’auto-incoronamento nell’eleggersi e proclamarsi sovrani di se stessi. Ed è esattamente da questo punto in poi che per una Coscienza non diventa più pensabile temere un potere terreno al di sopra di se stessa, dal momento che non vi è alcun potere terreno al di sopra di una Coscienza! Essa non riconosce più nessuna autorità e nemmeno può partecipare alle vessazioni che le organizzazioni mondane prescrivono per i loro sottoposti. E ciò non ha nulla a che vedere con atti aperti di ostilità e ribellione. Semplicemente la Coscienza non fa parte dei meccanismi di un sistema congegnato per nuocere ai più e riservare privilegi ai soliti antichi lignaggi. Essa non aderisce a nessuna categoria di pensiero, non ha parrocchie o idee da difendere. Tutte le idee, anche le più apparentemente giuste, se sono nate nel mondo e servono al mondo, vanno ricacciate nel mondo, perchè sono finzioni allegramente impacchettate da finte rivoluzioni. Il mondo non fa nessuna rivoluzione. Come copia di uno scenario proiettato su un piano illusorio, è in grado di fingere perfino un cambiamento che mai avviene. I mondani sono riconoscibili esattamente per il fatto che credono possibili e già realizzati tali cambiamenti, e giammai li ritrovi impegnati alla ricerca della via di uscita, poiché non concepiscono il gioco manipolativo che invia da sempre tutti gli indizi per firmare la sua creazione.
La Coscienza che scopre se stessa ha la consapevolezza assoluta, indiscutibile e incontrovertibile che non vi è potere che possa metterla in condizione di nuocere a se stessa o di assoggettarla in forza di legge terrena. Alla Coscienza non può essere torto un solo capello, e quando lei lo scopre sono veramente guai seri per tutti coloro che perdono la maschera e debbono smettere di ingannarla.
E comunque, sempre sulla scorta della psicanalisi junghiana, ricito Hillman, il quale ha introdotto una grande novità nel dibattito contemporaneo in riferimento ad una certa psicologia eccessivamente deterministica dal punto di vista del legame causale con gli eventi passati e quindi anche giustificazioni sta in un certo senso della faccenda., poiché può sollevare la persona dalle sue responsabilità come co-creatrice degli eventi esistenziali. Anche Hillman cita una forza intrinseca che aspetta di schiudersi , a cui egli da l’immagine della ghianda come metafora di un potenziale pronto a crescere e fiorire. Egli, per la precisione, sostiene ciò che riporto da ‘L’anima del mondo’:
“Si tratta della consapevolezza che vi è qualcosa che accade nella nostra vita senza essere causato dai nostri genitori o dalla nostra infanzia. Vi è qualcosa che accade solo perché sospinto da una necessità intrinseca”
Fa dunque riferimento a qualcosa di automatico. Siamo noi stessi che ci boicottiamo e ci facciamo da parassiti da soli, cercando di direzionare la nostra esistenza laddove realmente ci occorre che vada. Tale disquisizione è compatibile soltanto con chi dotato di Coscienza procede verso l’uscita dalla grotta delle illusioni, dei riverberi e degli echi delle ombre che paiono realtà solide e consistenti. Ecco perché possiamo perdere di continuo i lavori, relazioni considerate significative, avvicendarci in lutti, perdite, “sfighe” a rotazione, che altri non sono invece che aggiustamenti per ricondurci nella via che ci serve per l’autoriconoscimento. Chi non è dentro uno stato di Coscienza e non vi può sostare (in quanto ne è privo) poiché non dotato di tale essenza in qualità di non-pneumatico, può invece permettersi di scegliere e fare quello che vuole. Su questo concetto ritornano ancora numerosi insegnamenti quali per esempio il riferimento al fatto che le prove più grandi sono riservate agli spiriti più nobili. Tutto riquadra in modo molto coerente.
Hillman introduce questa sua novità molto accattivante che taglia di netto con la psicanalisi a matrice freudiana, e forse più di quanto avesse fatto lo stesso suo istruttore Jung agli inizi del secolo Novecento. L’aspetto inedito della questione è che la persona viene ora posta ad assumersi le responsabilità delle sue azioni e delle sue vicissitudini, come agente attivo di causa ed effetto dentro le trame e il tessuto sociale che lo colloca come co-protagonista. Questo si lega anche a tutte quelle teorie della comunicazione che si sono sviluppate dalla scuola rogersiana, e penso in modo particolare a Thomas Gordon, il quale ci insegna come sia importante (rivolgendosi principalmente a tutti coloro che abbracciano il ruolo o la professione educativa) far parlare tutti i soggetti attraverso ciò che egli stesso chiama il “messaggio Io”, ovvero una formulazione della propria narrazione che ricorre sempre alla prima persona, autorivelando ed autodichiarando il proprio status interno. Non è qui da intendere come un messaggio portatore di un ego autoreferenziale ed auto celebrativo, disimpegnato dal cogliere il legame di causa-effetto nelle dinamiche interpersonali. Si fa invece proprio riferimento alla capacità di ciascuno di rimettere agli altri ciò che sente ed intende, allo scopo di contaminare all’apertura, al confronto e alla condivisione, dentro un linguaggio comunicativo efficace, il quale, per esempio si impegna a delineare con estrema precisione i contenuti del messaggio responsabile e sistemando la narrazione dentro un indicatore referenziale che precisa le coordinate dello spazio-tempo, aiutando un messaggio ad essere chiaro ed esplicabile.
Tramite il messaggio Io vengono diffuse le proprie istanze alla ricerca di una condivisione dove nessuno cerca di sopraffare, vincere o dominare. Si tratta dunque di ricorrere ad un training di alfabetizzazione emozionale che dia a questa tecnica un equipaggiamento di qualità, che può realisticamente favorire l’efficienza in termini di risultati nel processo comunicativo. Chiarendo i propositi interni e le circostanze contestuali che hanno contribuito a produrle, ci si immette dentro la rete dei rapporti in modalità assertiva, fornendo indicazioni che facilitano il lavoro altrui della decodifica e della risposta, poiché ricevono un messaggio che contiene elementi legati al dove, al come e al perché un certo status abbia ragione di manifestarsi.
Questa è la chiarezza espositiva e comunicativa che viene corredata da indici testuali pertinenti ed appropriati.
Ciò significa anche dare voce a quella dimensione dell’autenticità dentro i contesti della comunicazione. Qualora volessimo invece parlare di contesti in cui in genere questa dimensione si sente più a suo agio, allora dovremmo richiamare i contesti della condivisione “minimale” ovvero destinata e riservata strettamente a pochissimi simili della propria famiglia (intesa come famiglia spirituale).
La Coscienza è razzista. Non dobbiamo scandalizzarci di questo. Il babbano medioman che non può cogliere altre accezioni e sfumature semantiche rispetto a quelle che già conosce, qualora fosse malcapitato in queste righe avrà già equivocato ogni contenuto e travisato ogni aspetto spiegato dal sottoscritto.
Non è infatti a quella platea che la Coscienza si rivolge.
La Coscienza, semplicemente, prova grande disagio, imbarazzo e malessere (specie se ha scoperto se stessa) a condividere le proprie istanze con chi non può accoglierle, accettarle e comprenderle. La Coscienza ricerca (ma sarebbe meglio dire ritrova o incontra) soltanto chi fa parte della sua stessa famiglia. Nel caso di non incontro sta bene così. Si godrà cioè il silenzio e la pace. E saranno queste due condizioni ad essere elette come risorse e mezzi principali per proclamare il suo status e fronteggiare questo mondo assurdo e impietosamente governato da regole oscure, demiurgiche e folli, decise e poi sottoscritte da entità connotate da basse vibrazioni distoniche e patologiche.
Chi intraprende il percorso di risveglio non avrà bisogno di nessuna psicoterapia, né di counseling (lo affermo anche ad apparente svantaggio della mia professione), dal momento che, attraverso la conoscenza di sé si raggiunge la meta di tutte le mete.
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