Nuove generazioni crescono


Nuove generazioni crescono

           Nomi, sigle, logo, etichette sono una diffusa necessità, al punto che le sostanziamo come reali a sé stanti, quasi indipendenti dal concreto riferimento e gli lasciamo anche breve, brevissima vita in un continuo lavorio di ammodernamento, sostituzioni, capovolgimenti a volte addirittura in assenza di modifiche del fenomeno, oggetto, progetto …che identificano.

 

Sceglierci un nome non ci spetta, qualcun altro lo ha deciso per noi; possiamo decidere di modificarlo, accorciarlo o proprio cambiarlo ma quante volte per una sorta di pigrizia o noia per ogni forma di iter burocratico quel nome che ci hanno affibbiato finiamo per tenercelo pur non amandolo. Sarà anche per questa condizione che attribuire un nome diventa goloso esercizio, indice della nostra capacità di lasciare un segno di noi e solletica il nostro orgoglio.

Egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente(Giovanni Pascoli, Il Fanciullino, 1897, cap. III). Il poeta disegnava un ben diverso scenario per il Fanciullino e aggiungeva: Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola.

           Noi, lontani dalla profondità del Fanciullino, viviamo la superficie del presente e ci basta attribuire nomi, è così che abbiamo sentito la necessità di nominare le generazioni ultime con nomi riferiti ad un unico parametro (tecnologia informatica) e usando una sola lettera: X, Y, Z e C e ci è sembrato del tutto naturale, quasi ci è sembrato, catalogandoli, di conoscerli e soprattutto ci siamo sentiti noi liberi di essere, rispetto a loro, poco o per nulla abili nel mondo della rete e della virtualità che è evidente loro prerogativa.

Ma, è accaduto che ad una generazione il nome non glielo abbiamo dato e i protagonisti se ne sono garbatamente risentiti, dando voce ad un parlare misurato e di buon senso.

Qui di seguito riporto una parte dell’articolo dal titolo Saremo la generazione clima. [1]

Stiamo entrando nell'età adulta all'ombra del coronavirus, di sconvolgimenti economici e sociali, del cambiamento climatico. Qualcuno ci definisce una generazione spacciata, ma non sottovalutate la nostra capacità di risollevare la testa.

Chi avrebbe mai detto che l'imposizione di restare a casa potesse generare un tale senso di sradicamento? È questo l'effetto che ha fatto la primavera del 2020 a molti della nostra generazione, coloro che iniziavano a intravedere un barlume di indipendenza e ad entrare nell'età adulta prima che la pandemia si abbattesse su di loro. Forse abbiamo bisogno di un nome, noi che in questo momento abbiamo tra 18 e i 25 anni, perché siamo finiti in un limbo: ci sentiamo troppo giovani per essere millennial ma non abbastanza da rientrare nella generazione Z.

Nessuno dei nomi con cui ci ho sentiti chiamare negli Stati Uniti mi convince: generazione arcobaleno, zillennials, generazione spacciata (screwed, ndt). Eppure il fatto è che ci troviamo a un punto di svolta cruciale nelle nostre vite personali in un momento in cui il mondo, da tanti punti di vista, sembra stia per implodere. Qualche mese fa, con il susseguirsi dei lockdown, quasi nessuno è rimasto dove stava, sono tutti corsi a cercare un luogo più sicuro. So dove molti amici hanno cercato rifugio, perché ho passato buona parte della quarantena a scrivere lettere - le classiche lettere lunghe e scritte a mano - e ciò ha significato raccogliere indirizzi postali. Sapevo chi aveva lasciato il suo primo vero appartamento per tornare nella cameretta dell'infanzia, chi viveva il confinamento in montagna o sulla spiaggia, e chi aveva un retroterra socio-economico che non gli lasciava altra scelta che restare in città. Quello che pochi sembravano aver capito all'inizio è stato quanto a lungo sarebbe durato, e quanto sarebbe diventato normale. Anche i miei amici sapevano dove mi trovavo io. Sapevano che quando mio papà, un infettivologo all'Elmhurst Hospital del Queens, a New York, aveva capito che cosa stava per succedere, avevamo deciso che sarebbe stato più prudente separarci per un po'. Che avevo lasciato New York con i miei fratelli, mia madre e la mia nonna malata e avevamo trovato rifugio in North Carolina.

Nelle lettere che ci scambiavamo, io e i miei amici condividevamo pensieri ed emozioni: sentimenti che non venivano espressi nei messaggi o nelle videochiamate di gruppo con zoom (che comunque usavamo, ovviamente). Nello scrivere una lettera c'era qualcosa che sembrava tirare fuori le emozioni e le vulnerabilità in un modo che molti di noi non avevano mai sperimentato prima. E all'improvviso c'era così tanto da sentire. A seconda delle nostre circostanze, il tono delle lettere andava dall'ansioso al riflessivo, dallo spaventato al calmo, dal frustrato all'irrequieto. Gli amici scrivevano dei loro maggiori motivi di orgoglio, come un fratello che si diplomava prima dalla scuola di medicina per unirsi alle linee del fronte negli ospedali, e di gioie inaspettate, come riscoprire la passione per i libri, che si era persa tra gli impegni egli schermi […]

Dunque, anche se alcuni possono divertirsi a chiamarci generation screwed - e a volte la sensazione può essere esattamente questa - penso che sia un atteggiamento troppo pessimista.

Siamo stati sballottati e malmenati, ma non andremo facilmente a tappeto. "Non è così che ci immaginavamo la nostra vita"[…]

"C'è una complicata mescolanza di paura e speranza, molti di noi ridono negli stessi giorni in cui piangono"[…] Come potremmo non volere il cambiamento? Sospetto che l’umanità sia pronta per un risveglio altrettanto urgente riguardo alle conseguenze del maltrattamento a cui è sottoposto il nostro pianeta. Come adesso il virus, l’emergenza climatica globale allarma da tempo la nostra generazione. Forse un’etichetta calzante è quella di “generazione cambiamento climatico”.

Ripetiamocelo e facciamo in modo di aiutare l’altro a vivere la convinzione che siamo stati - e siamo - sballottati e malmenati, ma non andremo facilmente a tappeto.

Un modo di essere che ben esprime una peculiarità del counseling.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi


[1] National Geographic, Jordan Salama, Saremo la generazione clima, novembre 2020, pp. 29-31

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