Esiste un motto piuttosto diffuso che fa parte delle considerazioni che vengono rivolte alle discipline che si propongono di comprendere e gestire il complesso mondo delle relazioni interpersonali: questo detto sostiene che “Bisogna stare lontani dai pessimisti. Essi hanno un problema per ogni soluzione”. Tale ironica e sprezzante descrizione, all’indirizzo di un certo atteggiamento disfattista nei confronti degli eventi che includono ostacoli e difficoltà, contiene anche un po’ di verità, soprattutto se si fa riferimento a quanto la complessità delle strutture problemiche sia dovuta ad un processo di attribuzioni di significato, costrutti personali, vissuti e credenze dirette all’interpretazione dei fatti. Oramai da tempo si sottolinea come lo spessore e le dinamiche di un contesto problemico siano a carico di chi ne attribuisce soggettivamente valore e interesse, attivando di conseguenza il necessario livello di investimento volto alla risoluzione dello stesso.
In pratica, le ricerche e le teorie vengono principalmente orientate al fenomeno del ‘reframing’, procedura secondo cui ciascuno ascrive senso al suo mondo di esperienze e vicende, in funzione del suo personale processo di configurazione attraverso cui è abitualmente portato a rappresentare lo scenario della propria esistenza. Ciò rende ancora più pregnante il principio secondo cui, nella relazione di aiuto, è necessario addentrarsi con rispetto e distacco dalla visione di mondo dell’altro, per favorire processi decisionali realmente basati sull’autonomia e sulla libera scelta, nella consapevolezza di quanto gli obiettivi siano adeguati e pertinenti in merito al proprio ordine di valori e significati.
Vi sono personalità che spesso sembrano porsi su due estremi di un unico segmento: da una parte, come si è già citato, coloro che addirittura si manifestano come generatori di problemi e di drammi portati all’attenzione sociale. All’altro estremo, quelli che potremmo definire “svalutatori seriali”, cioè coloro che pur essendo interessati da una cornice di elementi problemici che ne caratterizzano le vicissitudini, non sembrano rendersi nemmeno conto di azionare meccanismi e fattori che invischiano la loro vita su scenari avvilenti e poco edificanti. Si tratta cioè di coloro che ignorano con assoluta disinvoltura la presenza di problemi della cui natura sarebbe invece necessario occuparsi.
Esistono diversi livelli di evitamento da un problema, e tali meccanismi reattivi sono peraltro osservabili come comportamenti i cui effetti consistono nella permanenza o esasperazione del problema medesimo.
Gli studi e le ricerche condotte e sviluppate nell’ambito analitico-transazionale, hanno dedicato un’accurata attenzione a tale oggetto di interesse, e precisamente, nella letteratura scientifica prodotta dalla psicologa Jacqui Lee Schiff, emerge come sia possibile inviare il proprio interesse a tali percorsi per gran parte di natura inconsapevole, di cui ciascuno ne può fare strumento per evitare abilmente nuove ipotesi di significato di sé e del mondo, e quindi fondamentalmente per astenersi dall’assumere nuove prospettive di azione costruttiva e responsabile, e quindi in buona sostanza per conservare e difendere la dissonanza cognitiva.
La studiosa americana ci indica i 4 livelli di intensità di svalutazione di un problema, incrociandoli con gli aspetti e gli elementi che lo strutturano. I primi sono identificati nel modo seguente: a) Esistenza; b) Significato; c) Cambiabilità; d) Capacità proprie; che equivale a dire che nel primo gradiente di intensità squalificante del problema, nemmeno si riesce (o si vuole) percepire la presenza obiettiva di un problema, mentre nel secondo grado la si vede ma non se ne attribuisce una valenza di tipo problematico. Nel terzo livello, pur comprendendo l’esistenza del problema e l’associazione incresciosa con le sue conseguenze, ci si limita nel sollazzarsi facendo appello alla impossibilità del cambiare il problema, e nell’ultimo punto, la deresponsabilizzazione viene protetta e giustificata mentendo a se stessi, sollevandosi cioè dalla possibilità di mobilitarsi attivamente nella soluzione del problema, facendo ricorso ad una comoda posizione di mancanza di autoefficacia. Quindi, in questo ultimo caso, pur prendendo interamente atto della presenza di una struttura problemica da affrontare e superare, il soggetto si ripara dietro una distorta percezione di sé, minimizzando le sue competenze per evitare di mettersi in gioco e di provvedere a pianificare in modo efficiente e ragionevole.
Tali livelli di svalutazione sono diretti agli aspetti che riguardano le tre dimensioni così annoverate: a) Stimoli; b) Problemi; c) Opzioni. Pertanto all’interno di una matrice ad incastro fra tutte le variabili, emergono le seguenti dodici posizioni:
.1) Coloro che negano l’esistenza degli stimoli elementari che sollecitano la costruzione di un problema
.2) Coloro che negano l’esistenza del problema
.3) Coloro che negano l’esistenza di opzioni adeguate alla soluzione del problema
.4) Coloro che non attribuiscono il giusto valore agli stimoli generatori del problema
.5) Coloro che non attribuiscono significato al problema. Lo minimizzano.
.6) Coloro che non attribuiscono significato alle opzioni del problema. Credono cioè che le soluzioni intravviste non possono aiutarli.
.7) Coloro che non credono che i fattori che sollecitano la realizzazione di un problema possano cambiare
.8) Coloro che non credono alla risolvibilità del problema
.9) Coloro che non credono che le opzioni solutorie possano essere modificate
.10) Coloro che non si riconoscono la capacità di cambiare gli eventi che conducono alca comparsa del problema
.11) Coloro che sostengono di non possedere le capacità di risolvere i problemi
.12) Coloro che, pur sapendo di possedere abilità solutorie, non si riconoscono la capacità di applicare le opzioni presunte
Ciascuna di queste posizioni genera al tempo stesso tipologie distinte di personalità che contiene ed esprime richieste e bisogni diversi.
Alcuni suggerimenti aggiornati e presenti in letteratura, indicano la possibilità di realizzare interventi efficaci per mezzo di domande atte a guidare processi di auto-riflessione e di confronto con i problemi.
In merito al tema della identificazione degli stimoli, si può domandare al cliente: “Cosa è successo? Di cosa hai bisogno? Cosa senti (pensi, fai, vuoi)?”
Si tratta di domande aperte esplorative, formulate e rivolte con l’implicita intenzione di aiutare il cliente a chiarire con precisione ed accuratezza lo svolgimento dei fatti, ed a interpretarli sulla base dei propri bisogni, riflessioni, vissuti ed intenzioni.
Riguardo alla identificazione del problema , si può utilizzare quanto emerso dai contenuti domandati in precedenza, sondando se l’importanza attribuita al problema è per il cliente associata a se stesso o agli altri.
Per quanto concerne l’identificazione delle soluzioni, è possibile dirigere l’attenzione del cliente sempre a misurare quanto l’eventuale reperimento delle strategie solutorie sia importante per gli altri o per se stesso. In pratica è necessario sincerarsi se il cliente agisce mosso da motivazioni intrinseche o per compiacenza altrui.
Nel livello di identificazione dell’obiettivo possiamo disporre di domande spesso presentate in maniera chiusa, quali “Hai la capacità di reagire in modo diverso? IL problema è risolvibile? Le opzioni appena menzionate sono pertinenti alla risoluzione dei problemi?” Domande che possono essere riformulate secondo una struttura aperta, invitando l’altro a ricercare modi alternativi secondo cui agire in modo diverso da quello fino ad ora eventualmente sperimentato, ed anche a farlo riflettere sul grado aderenza fra le ipotesi e la prevedibilità degli effetti.
La necessità di verificare la generalizzazione e il mantenimento dei cambiamenti, introduce domande volte a far emergere variabili legate a barriere ed ostacoli non dapprima contemplati. Di conseguenza, questo conduce a sollecitare nel cliente la valutazione di sé in termini di capacità di permanenza in merito all’adozione di comportamenti proattivi attraverso i quali risolvere problemi in maniera duratura, gestendone e prevenendone anche le ricadute, specie se in riferimento a quelle aree di criticità problemica che toccano esperienze legate a comportamenti di dipendenza (alcol, droghe, cibo, affetti).
Questo approccio si pone come finalità la stipulazione di un accordo reciproco sui compiti, da raggiungere fra professionista e cliente, con il proposito di attuare e monitorare comportamenti adeguati e costruttivi, coi quali raggiungere mete ed obiettivi a favore del cliente. La spalla ausiliaria da parte del consulente, offre quel necessario supporto mediante cui arrivare a prendere da soli in considerazione la possibilità di cambiare, di affrontare anche le più complesse vicissitudini col proposito di potenziare la propria capacità di analisi e riflessione, di regolare i propri vissuti da cui farne preziosa e pregevole risorsa, e di sviluppare ed applicare in vivo l‘autoefficacia, vincendo i propri limiti e rilanciando anche un’immagine più vera e valorizzante di sé.
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