LA RECIPROCITA’ FORMATIVA NELLA RELAZIONE DI AIUTO. Il cliente come “co-terapeuta” inconsapevole

Inviato da Nuccio Salis

umanita

"Non abbiate paura delle vostre ferite, dei vostri limiti, della vostra impotenza. Perché è con quel bagaglio che siete al servizio dei malati e non con le vostre presunte forze, con il vostro presunto sapere."

Frank Ostaseski

 

Certo che dai tempi di Freud fino ai nostri giorni, la relazione di aiuto diretta alla persona ha fatto davvero dei notevoli passi da gigante. Molto rimane ancora da esplorare e da realizzare, e al tempo stesso da verificare nella pratica clinica, con assiduo impegno, apertura e desiderio di scoperta.

Uno dei principali cambiamenti ha riguardato il rapporto terapeuta/paziente, tradizionalmente ricondotto all’immagine suggestiva del lettino dello psicoanalista su cui è sdraiato un soggetto che parla e racconta i suoi sogni, mentre in un angoletto in penombra, il dottore prende degli appunti nel suo taccuino, formulando successivamente idee e materiali che il paziente è chiamato ad utilizzare per ricondurre se stesso verso un recupero o una riabilitazione a un’identità considerata socialmente accettabile.

IL paradigma “normalizzante” ha recintato la relazione di aiuto dentro una funzione di restituzione di un soggetto non in equilibrio, ad una società che nutre ed investe sullo stesso aspettative legate al suo ruolo produttivo ed alla sua efficienza allo stesso associata. Questo tipo di impostazione decentra l’individuo dalla conoscenza del suo vero Sé, orientandolo a recuperare se stesso soltanto all’interno di una chiara adesione alle aspettative della collettività.

 

Si tratta in fondo di una regola implicita che afferma una formula di accettazione condizionata, secondo la quale ciascun soggetto si sente finalmente accolto e valorizzato a patto che si integri in modo efficace secondo i canoni più comuni che definiscono i criteri ed i requisiti di un umano considerato sano ed accettabile.

Da Carl Rogers in poi, e da tutti gli esponenti di quelle correnti umaniste sviluppatesi dentro l’ambito della psichiatria e della psicologia clinica, questo approccio è andato modificandosi, riportando al centro le istanze di autonomia e di autenticità della persona, conferendo alla stessa sia il diritto che il potere di riconquistarsi e ridefinirsi dentro una nuova cornice di auto-accettazione e sana espressione di sé.

In ciascun caso, la consapevolezza del terapeuta fonda nello stesso la titolarità ad occuparsi della persona in situazione di aiuto. Egli infatti deve anzitutto essere consapevole del fatto che è più che probabile che la tendenza ad occuparsi del sostegno altrui, con l’intento di sanarne ferite e dolori, abbia come origine le stesse fragilità e vulnerabilità del terapeuta stesso come soggetto storicizzato e detentore della propria identità in divenire, con pregi, virtù ed anche limiti ed aspetti poco integrati. Questo tema ha sempre reso essenziale la formazione del terapeuta e la necessaria introspezione per rilevare e scoprire questi elementi fondanti della sua professione, al fine di poter rendere un servizio supportivo di maggiore qualità possibile.

Il passaggio epocale che si sta sempre più configurando nei nostri giorni, riguarda il fatto che tutto l’immenso capitale di ferite, dolori, vissuti difficili, residui emotivi arcaici, virali cascami di false convinzioni, incongruenze, rigidità, punti deboli, che sono presenti nel bagaglio del terapeuta, possono costituire il vero e prezioso strumento di accesso e contatto profondo dentro il mondo esperienziale dell’alterità.

Se tale consapevolezza, in un dato momento storico, dovesse essere motivo di gestione accurata ed attenta del controtransfert, al fine di evitare processi identificativi e invischiamenti col cliente, provocando peraltro l’interruzione del processo di aiuto, attualmente si cerca di rivalutare il ruolo degli aspetti di maggiore vulnerabilità e punti irrisolti dello stesso professionista. Con questo, non significa svalutare la relazione di aiuto a tal punto di depennarne l’asimmetria necessaria a confinare il rapporto di aiuto in un ambito professionale e scientificamente valido. Non si cada subito nell’equivoco di collocare questo discorso all’altro estremo della questione: nessuno propone di snaturare i requisiti cardine che fondano la relazione di aiuto all’interno di un setting orientato da questa o quell’altra corrente o disciplina. Si cerca, piuttosto, come si confà a ciascun libero pensatore con spiccato spirito di ricerca, di porsi nuove domande ed interrogativi su quanto sia indispensabile eventualmente interagire con la persona che rappresenta colui che porta la domanda di aiuto, mediante anche il peso e le risorse delle proprie vicissitudini, chiedendosi come le stesse possano essere valorizzate all’interno di un simile percorso orientato a sostenere l’altro e dunque come ancora possono contribuire ad emancipare coloro che riteniamo di voler guidare verso traguardi di autonomia e riscoperta di sé.

Di certo, la nostra esperienza accumulata rappresenta un influente potenziale di contaminazione nel complesso processo della relazione. IL modo con cui accogliamo ed inviamo messaggi deve essere sottoposto ad un oculato monitoraggio, al fine di non agire mediante le trappole dei nostri copioni e dei nostri personaggi attaccati ai nostri drammi interiori. Se questa posizione non venisse gestita con una certa competenza, sarebbe elevato il rischio di attivare una rappresentazione scenica piena di incongruenze, incomprensioni e sentimenti spiacevoli nella relazione con il cliente. Fatte presenti queste necessarie premesse, deve rimanere aperta l’attitudine del consulente specializzato nella relazione di aiuto, a cogliere il quadro vivificante dell’incontro e dello scambio fra egli e la persona che si trova di fronte. L’ipotesi di partenza assume come punto di riferimento essenziale la co-costruzione di significato fra professionista e cliente, che si reciprocano anche attraverso le parti più profonde e rappresentative dei rispettivi Sé. Un incontro terapeutico è dunque anche, ma forse soprattutto, un intenso e vicendevole scambio di significati, di aspettative e di orizzonti di senso che assumono una valenza formativa per entrambe le parti coinvolte. il terapeuta forse non può del tutto sottrarsi a questa lettura, e non soltanto sotto l’aspetto teorico. Non possono cioè essere di certo ignorate le teorie sulla costruzione condivisa e culturale dei significati, della partecipazione attiva e del sense-making, specie se immesse e collocate nella cornice olistica ed ecologica dentro cui avvengono le scelte ed i comportamenti umani pianificati. E in vero non riguarda soltanto un fattore legato alle conoscenze, in quanto la domanda più impegnativa e pertinente rimane nell’area delle pratiche dell’aiuto, ed obbliga ad un serrato confronto (soprattutto con se stessi) su quanto possa essere investita nella relazione la propria esperienza di vita che ci ha resi e che ci rende individui unici ed irripetibili.

E’un punto di grande valore discorsivo-dialettico ma soprattutto operativo e strumentale. IL professionista dell’ascolto dovrà stare attento a non trascurare questo aspetto così delicato ed eventualmente edificante del suo mestiere. Egli, peraltro, forse prima ancora che tale oggetto di studio fosse considerato e posto al centro di un importante dibattito, si era già accorto che la relazione col cliente è di fatto un rapporto apicale dal punto di vista educativo e della crescita totale di entrambe le parti. E che questo rapporto, lungi dall’essere una semplice sommatoria di Io e Tu, realizza a tutti gli effetti un Noi, che rende il cliente una sorta di co-terapeuta dell’intero processo, e spesso un co-terapeuta addirittura eccezionale, in quanto trae la sua efficienza dalla sua spontaneità e dalla sua non intenzionalità.

Ne giunge un insegnamento prezioso anche per chi si avvale di strumenti esclusivamente professionali, arricchendo a questo modo la sua valigia degli attrezzi anche delle sue parti più intime e rivelabili di sé.

Tutto ciò può essere pienamente e profondamente colto qualora si riuscisse a guardare alla relazione consulente/cliente come quel luogo speciale avvenuto per sincronicità, per una legge che ha messo al servizio quell’esperienza per realizzare la crescita e la maturazione di entrambe le parti coinvolte, che possono rispecchiarsi l’uno nell’altro, generando ponti e contatti interpersonali privilegiati, senza il cui incontro non si sarebbero potuti realizzare.

Potrebbero interessarti ...