Vedere con gli occhi e con la mente


Vedere con gli occhi e con la mente

           Nell’antichità, il saggio dotato di poteri di divinazione era cieco; cieco, ci tramanda la tradizione, era Omero, il grande poeta e musico e nella rappresentazione di lui (sempre che sia …esistito) quel volto privo della luce che gli occhi donano all'espressività di ognuno, quel volto a cui la percezione della luce è negata, è per noi emblema di solennità, visione della nascita e rivelazione della Poesia.

Da quel volto marmoreo, raffigurato immancabilmente nei nostri testi di studenti, abbiamo intuito, percepito, forse compreso il significato profondo del vedere  e la limitatezza di considerarlo solo come il poter cogliere la realtà fuori di noi, attraverso la percezione dei colori, dei toni di luce, del contrasto tra chiaro e scuro e, così poter percepire la prospettiva e la distanza tra noi e il fuori da noi.

 

Vedere  è molto di più. Non solo ciò che vediamo influenza, condiziona e modifica  il nostro pensiero, il nostro volere, il nostro comportamento, per quelle  caratteristiche complesse e raffinatissime che compongono il “meraviglioso sistema visivo, forse il più straordinario esempio di integrazione tra un apparato sensoriale e il sistema nervoso centrale” (Giovanna Flamini, in Prometeo, n.143, settembre 2018, pag. 129).

Vedere è anche vedere dentro di noi, alla ricerca di chi siamo, cosa desideriamo, è sondare il nostro animo, il nostro sapere, è ricercare il senso di ogni nostra scelta, è ri-trovare la nostra creatività, è ri-conoscere i nostri limiti e accettarli perché in quell’accettazione si possa manifestare il segno del nostro cambiamento. Un’affermazione di Carl Rogers, illuminante come tante che ne ha lasciate, è così vicina alla nostra esperienza di vita che quasi sembra possibile ad ognuno di noi, leggendola, di poterne essere l’autore: The curious paradox is that when i accept myself just as i am then i can change.

Il fulcro è, ancora una volta diremmo, il sapersi accettare. Accettare il fatto di non poter godere del senso della vista fa sì che “ogni individuo risponda con modalità proprie e forse per chi è vedente straordinarie e misteriose alla sfida della cecità. L’uomo cieco è stato spesso considerato una creatura eccezionale e, del resto,  ben sappiamo cha la perdita della vista corrisponde a un incremento sopraffino dei sensi residui: il profumo di un singolo fiore, il fruscio di una singola foglia non sono infatti accessibili a chi è immerso in un mare di immagini. Essere ciechi vuol dire essere al buio completo? Dipende. Dipende da ciò che vogliamo intendere per buio.” (Giovanna Flamini, ibidem, pag. 136).

E chi può godere del senso della vista non finisce forse per trovarsi nel buio, nell’oscurità proprio quando è immerso in un mare di immagini? Come definiremmo diversamente da “buio” l’assenza di sé, di progettualità, di dialogo, di comunicazione con sé, il sentirsi offuscato e stordito, escluso e in perenne ansiosa brama di inclusione con gli altri, in un mondo che cambia intorno a noi con una velocità sempre più rapida di quanto noi abbiamo valutato e pre-sentito, nel mondo che si nutre dell’obsolescenza programmata?

La luce che possiamo accendere per dare consapevolezza alla nostra vita torna ad essere la riflessione su di sé, per conoscersi e superare le resistenze  al cambiamento che è sempre in atto per ciascuno di noi come lo è per il contesto che ci attornia. Alla domanda: “Dove trovare il tempo per se stessi?” sembra si debba  dare univoca e immediata risposta che quel tempo purtroppo non ci è concesso, divorato da mille e più impegni, da pre-occupazioni, da ansietà che prendono il sopravvento sulla nostra vita interiore, per correre, per fare, in gara con tutti o forse con noi stessi, ma per ciò che è esigenza quasi sempre dagli altri indotta.

Per qualche minuto, fermando questa corsa, potremmo provare ad ascoltarci. Non sarà facile: pur disposti all’ascolto, nei primi nostri tentativi non sentiremo alcuna voce dentro di noi, solo silenzio e facile sarà la distrazione che ci farà quasi subito riemergere e ci riporterà alla routine, ma poi, a poco a poco ci ritroveremo, conosceremo il dialogo con noi stessi e quella voce che ci parlerà non sarà soltanto la voce dell’io genitoriale che detta norme e pone limiti, ma quella del nostro io bambino che torna a prendersi lo spazio che merita per colorare di sensazioni e meraviglia ogni momento della vita, mitigato dall’io adulto che, nel contempo, siamo riusciti a rendere meno gigantesco e non più prepotente gestore di ogni nostra scelta.

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi                                                                     

 

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