Famiglia, immagine ed altre prigioni (terza parte)


famiglia felice“Non puoi essere una donna e non idratarti, è un tuo dovere,

e soprattutto c’è una sorta di obbligo verso i prodotti

che dovrebbero salvare dalla calamità cellulite:

“la cellulite è come la mafia,

se la sono inventata dal niente”.

(Pulsatilla, 2006)

 

La bambina della premessa sono io, sono esuberante, piena di vita, amo giocare, amo cantare e amo mangiare. Proprio per questo il momento del pasto è un momento terribile nei miei ricordi: io vorrei parlare a tavola e cantare e mangiare quello che mi piace, invece vengo continuamente zittita e fermata nel prendere il cibo. A 7 anni, considerata sovrappeso, vengo portata all’ospedale pediatrico Gaslini, dall’endocrinologo, e messa a dieta: la dieta diviene l’ennesima regola, quella a cui però faccio davvero fatica a sottostare, perché non riesco proprio a capire cosa c’è che non va in me, perché non vado bene così come sono e soprattutto perché io debba essere diversa dagli altri bambini che a scuola possono portare le barrette kinder invece della solita mela.

 

 

Nel mio caso il rapporto con il cibo racconta di una profonda fragilità in cui mi sento in balia del giudizio dell’altro, che spesso si esprime nei miei confronti con critiche, svalutazioni e disconferme e sicuramente senza le parole sufficienti per aiutarmi a capire. Crescendo imparo a sentirmi sotto una costante aspettativa che avverto priva di amore e di comprensione: contro questa pressione agisce un incontenibile e inconscio impulso a far saltare la rigida normativa che mi soffoca e nel contempo cresce un senso di impotenza e di disperazione e un progressivo allontanarmi da me.

 

“La più importante forma di consapevolezza per l’essere umano è costituita da quell’insieme di credenze che ogni individuo ha su se stesso e che nel loro insieme costituiscono il “concetto di sé”, strettamente dipendente dalle forme culturali” (Giusti, 2002). In particolare la nostra percezione del corpo è carica di significato sociale: l’idea di bello, di normale, di accettato, deriva da un gusto che è prodotto culturalmente... che cosa contengono e trasmettono le immagini che ci circondano, gli oggetti che usiamo ogni giorno? E se il corpo è il nostro territorio e la pelle il suo confine, cosa significa averne cura o maltrattarlo, amarlo o piuttosto odiare ciò che rappresenta e che non ci rappresenta? In uno scenario sociale dove non esiste più il senso del limite perché tutto diventa possibile, dove siamo continuamente assillati dalla paura di sbagliare, dalla preoccupazione di essere “normali”, dall’idea onnipotente di poter dare forma al nostro destino, ci ritroviamo a dire di non sentirci mai sufficientemente noi stessi, di essere incerti sulla nostra identità, di non fare abbastanza, di essere troppo insicuri, indecisi, ansiosi... oggi l’essere se stessi e la capacità di non rinunciare alla specificità della propria identità sono la deviazione della norma!

 

Le persone, troppo spesso erroneamente, si attribuiscono invece la capacità di agire, di autodeterminarsi, di dare forma alla propria identità... io stessa fino a qualche tempo fa ero convinta di sapere sempre decidere per me, di essere artefice del mio destino: adesso so che non è così, che ci sono modelli famigliari che condizionano la nostra esistenza, che gli individui reagiscono in modi diversi in base alla loro appartenenza a gruppi sociali, al loro accesso alle risorse materiali, alla fase del ciclo di vita in cui si trovano, all’ambiente culturale in cui crescono e, con la consapevolezza che oggi mi appartiene, quello che mi interessa maggiormente è riuscire a capire che cosa ha portato gli esseri umani, nel corso degli anni, a considerare il corpo come il terreno privilegiato della responsabilità individuale, quello che ti espone al pubblico giudizio e in base al quale vieni valutato, quello che può tradursi in assoggettamento a regole ma che è anche fonte inesauribile di soggettività! L’idea di un corpo perfetto è una maschera dietro la quale possiamo nascondere il nostro sentirci “difettati”, una forma perfetta dietro cui nascondere il nostro sentirci imperfetti, de-formati, un sentire che è proprio di chi non riesce a dare un senso, un nome o appunto una forma, a quell’insieme di sensazioni, emozioni e vissuti che gli si agitano dentro. In effetti ciò che si muove dentro al nostro corpo è talmente complesso che non può essere ridotto a qualcosa di concreto, di tangibile, non può essere ridotto all’idea di un’immagine!

 

Il problema della costruzione identitaria è un problema che riguarda l’individuo moderno: se tutti dobbiamo rispondere all’incertezza (che è tipica del nostro secolo) con strategie di cui abbiamo la responsabilità, come possiamo essere costantemente e oggettivamente indotti e abituati a dover considerare bella e naturale una certa forma corporea piuttosto che un’altra? Perché non siamo liberi di decidere con responsabilità? Prendere atto che il modo in cui guardo la realtà e la codifico è condizionato, quasi in tutto e per tutto, culturalmente mi crea disagio o, forse ancora di più, rabbia... eppure è così, ci casco anche io, e ci casco soprattutto nella visione che ho di me! Mi rendo conto che ci sono aspettative sociali legate al dover essere rispetto a certe forme corporee: “una così non dovrebbe permettersi di... indossare quel vestito... avere certi atteggiamenti... pensare di poter essere vista... ridere in questo modo (dopotutto “una così” cos’ha tanto da ridere?)... mi rendo conto del fastidio che provo rispetto ad un corpo, al mio corpo, che considero ed è considerato fuori norma, fuori taglia, “sbagliato”, non rispettoso dei codici e delle aspettative sociali. Ma da dove nasce tutto questo risentimento mi viene da chiedermi?

 

E poi ripenso che il senso del normale e del bello è indotto culturalmente, anche se noi abbiamo imparato a considerarlo naturale, e che i giochi e le immagini che ci accompagnano sin da piccoli ci trasmettono i codici con cui guardiamo il mondo, perché sono una rappresentazione di ciò che ci circonda in un momento di socializzazione importantissimo per un bambino, per una ragazzina: attraverso la socializzazione, in una fase della vita in cui siamo ancora immuni e incapaci di giudizio critico e personale, impariamo a guardare ciò che abbiamo attorno, non sempre osservando e ancor più raramente vedendo come in realtà sia... dopotutto chi di noi ha mai giocato con una bambola “grassa”? Ed è forse da qui che nasce la convinzione che per poter essere accettati socialmente, per poter essere voluti, cercati, amati, sia necessario corrispondere a tutti i costi ad un modello impossibile... ed è sempre qui che credo debba essere sottolineata l’importanza del ruolo genitoriale nell’accrescere la stima di sé nei bambini e nel ridurre l’influenza delle immagini imposte dal mondo in relazione alla determinazione di ciò che è desiderabile.

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