CONGRUENZA COMUNICATIVA E MODALITÀ BARRIERA. Evitare l’inefficacia relazionale

Inviato da Nuccio Salis

ascolto nella relazione

Il potenziamento delle risorse e dell’efficienza adattiva di ciascuno, viene favorita in un contesto di counseling che regola propriamente il settingallo scopo suddetto. La finalità rincorsa coincide con lo sviluppo e il raggiungimento di un percorso di empowerment, diretto a catalizzare le proprietà intrinseche di ciascun soggetto dentro un itinerario di scoperta di sé ed uso dei propri talenti ed attitudini.

il facilitatore esperto ed efficace utilizza il repertorio delle sue migliori competenze professionali per poter aiutare il suo cliente a riconoscere ed esperire le sue abilità, migliorando la sua congruenza comunicativa. il professionista che lo guida in questo compito ha l’obbligo di offrire un modello funzionale che costituisca un esempio su cui aderire, e quindi cerca di utilizzare in modalità sicura anche quegli strumenti di colloquio non direttivi atti a restituire in maniera neutrale i contenuti dei racconti dei clienti.

 

Va però espressamente ricordato che nessuna riflessione narrativa può rappresentare una tipologia completamente neutrale, per lo meno nel momento in cui raggiunge il destinatario che ri-accoglie la sintesi accurata da parte del suo interlocutore. Riflettersi nella sinossi riepilogativa di chi ci ha dedicato con attenzione il suo ascolto, difatti, può assumere un valore di rivisitazione/riaggiustamento dei contenuti con cui noi ricostruiamo le nostre trame esperienziali e di conseguenza della visione mediante cui ne organizziamo la percezione emotiva sulle stesse. Soltanto questo passaggio può presentarsi come una sollecitazione a quelle procedure di reframing attraverso le quali rielaboriamo il nostro vissuto dentro un possibile nuovo orizzonte di significati e quindi di re-impostazione delle nostre azioni.

Talvolta, tale modalità di rispecchiamento si eleva già con un proposito di focalizzazione, ovvero assolvendo ad una funzione selettiva a favore dell’identificazione di un elemento preponderante e centrale nell’intreccio narrativo riportato dal cliente.

Per operare in modalità sufficientemente sicura attraverso questo tipo di strategia, è necessario tenere conto di due aspetti decisamente contigui e congiunti: da una parte la consapevolezza intenzionale circa l’utilizzo costruttivo dei criteri della comunicazione efficace, e d’altro lato la gestione e la riduzione degli aspetti che connotano gli elementi di una comunicazione disturbata e disturbante, inappropriata per gli scopi preposti e prefigurati da un percorso di crescita e autonomia.

Si tratta cioè del bisogno di conoscere chiaramente tutte quelle forme della relazione interpersonale declinata su un piano di disfunzionalità, ovvero caratterizzata in modo da sfavorire la promozione di un’alleanza pienamente collaborativa e soddisfacente fra le parti.

Fra i più noti allievi dell’indirizzo rogersiano, il nome di Thomas Gordon (1918 – 2002) è noto per aver trattato il tema dell’efficacia comunicativa, riconoscendole in particolare i contesti della formazione scolastica e della genitorialità; aree di cui lo studioso si è occupato in maniera precisa ed approfondita. Sono altresì note formule e schemi che rendono conto dell’inefficacia di alcuni processi comunicativi, tendenti a generare blocchi ed ostacoli al clima di una sana relazione interpersonale, sia formale che informale. Ricavando da queste lo spunto principale, in unione alle “modalità barriera” individuate da Gordon, si può sintetizzare che fra gli errori che più possono compromettere l’equilibrio di una dinamica interpersonale, si possono annoverare i seguenti:

 

_ Intimidire: è una grossa tentazione provare a controllare l’altro soprattutto dall’alto della propria autorità di ruolo. Prospettare conseguenze nefaste per il cliente, nel caso in cui questo non si allinei ai nostri auspici e precetti, genera un pericoloso effetto boomerang, in quanto la mancanza di comprensione, analisi storiografica ed empatia rivolta sulla persona, si ritorce contro chi non provvede ad un’accoglienza gentile e rispettosa del prossimo. Invece di ottenere la collaborazione e il comportamento attivo, ne subiremo invece quello reattivo, innescando il probabile circolo vizioso secondo cui ciascuno si difende e si arrocca ad oltranza sulle proprie posizioni, rifiutando i bisogni e le aspettative della controparte. Una volta avviato questo processo, il clima che contamina il settingdecreta la fine di un percorso fondato sulla fiducia reciproca. La conseguenza è l’uscita (volontaria o involontaria) del cliente dalla ricezione di un servizio alla persona.

 

_ Moralizzare e pontificare: ciascuno possiede una propria costellazione di valori mediante cui ci si orienta e si interpreta il mondo. Il cliente possiede già la sua. Il counselor anche. La differenza è che il secondo non ha del tutto la libertà di manifestarla, o peggio riportarla su un piano di distinzione allo scopo di mostrare che l’altro sia inferiore, immaturo, deviante o corrotto. Eppure è questo l’effetto che avrebbe se ci si sbilanciasse a sovrapporre al racconto del cliente i nostri precetti coi quali suddividiamo schematicamente il mondo in giusto/sbagliato, corretto/non corretto e altre dicotomie che non ammettono sfumature concettuali, riflessioni alternative o soluzioni negoziate fra le antinomie opposte e contrarie. Il cliente non si è recato da un counselorper farsi confessare ed assolvere dai peccati, e fatta eccezione per comportamenti illeciti, il professionista non è tenuto a sciorinare la propria paternale, pena la distruzione di quell’atmosfera di ascolto e raccoglimento dentro una cornice sicura e protetta, che dovrebbe garantire l’assenza dal giudizio di tipo etico.

_ Dare consigli: si tratta di uno degli equivoci più imbarazzanti a cui potrebbe andare incontro la figura professionale del counselor, il cui nome lo associa a tale proprietà e funzione, anche se impropriamente, vista la connotazione con cui invece si delinea l’operato dello specialista. Una delle forme più sottili (e apparentemente indolore) di manipolazione, si può osservare proprio nella modalità del dispensare indicazioni e suggerimenti che pressoché certamente non potranno che risultare aspecifici e inadeguati rispetto ai bisogni, alle capacità, alla storia e alle richieste di cui è portatore il cliente, individuo dalla formazione identitaria peculiare ed irripetibile.

Nelle forme della comunicazione quotidiana si sente spesso utilizzare l’espressione “se fossi in te…”, dando per scontato che l’altro senta e viva a modo nostro un passaggio magari altamente significativo della sua storia, e che noi non potremmo nemmeno comprendere dal momento che spesso non si prova neanche ad effettuare almeno una sufficiente lettura empatica del vissuto altrui.

Il counselor ha invece il dovere di far emergere la soggettività altrui, e di valorizzarla dentro un percorso in cui ciascuno può misurarsi con le proprie capacità, scoprendo, maturando e verificando nuove ipotesi di realtà e modalità dell’agire. Una tale sovrapposizione deve essere gestita e limitata a poche occasioni di oggettiva necessità (ad esempio quando nella modalità semi-direttiva è indispensabile fornire orientamenti e indicazioni), e spesso è una tentazione soprattutto quando è il cliente a richiederla, perchè magari desidera ridurre al minimo i suoi sforzi ed avere pacchetti già pronti di soluzioni pronti all’uso. Tale esigenza potrebbe galvanizzare l’helper, investito nel suo compito abituale di dispensatore di supporto e affiancamento temporaneo, il quale potrebbe sentirsi come indispensabile e parte forte del processo, quindi tendente ad abusare del suo ruolo e del suo potere. In questa specifica circostanza, il counselor oltre che la tecnica deve possedere e conservare anche un atteggiamento di umiltà e di autentico spirito di servizio, che lo conduce a padroneggiare nella giusta misura la posizione complementare del suo ruolo di guida e di aiuto.

 

_ Razionalizzare: altra frase piuttosto diffusa e inflazionata risuona nelle parole “non pensarci”, “passerà”, “domani è un altro giorno”, “impegnati a fare altro, distraiti”, e così via. La sequela dei luoghi comuni è abbondante e nutrita, specie quando si tratta di distaccarsi dal toccare e sperimentare gli stati d’animo altrui, le cui risonanze incutono sempre un gran timore, ancora di più dentro un vivere sociale sempre più caratterizzato dalla messa in disparte dei contenuti affettivi ed emozionali delle persone. La fuga verso una fredda razionalizzazione è spesso l’illusione che ci piace tanto raccontarci quando le ferite sono troppo dolorose per poterle misurare in tutta la loro carica. Ne sono un esempio quelle persone che dopo aver interrotto una storia d’amore, cominciano a ripetere a pappardella alcuni slogan quali “soli si sta molto meglio”, “viva la solitudine”, “ora penso a me stessa” ecc. Tutte frasi fatte per evitare il confronto diretto con un vissuto lacerante e ferale, che avvolge come un lutto che si cerca di ignorare e di seppellire sotto una cappa di credenze astruse e poco convincenti.

Il counselor conosce la differenza fra razionalità e razionalizzazione (e non solo perché ha studiato Morin), e certamente favorisce la prima quando emerge la necessità di pianificare e strutturare il proprio percorso in termini logico-causali, e cerca di non far degenerare la seconda come una modalità inefficace di evitamento e di scappatoia da se stessi e dalla propria storia. Tenendo conto di quanto sia difficile e impegnativo, aiuterà in un percorso protetto di auto-ricentratura, riallacciando il contatto con quella parte parte inascoltata di sé che conserva invece le voci e i dialoghi più rappresentativi della persona.

 

_ Svalutare l’essere: questa condizione può essere ottenuta con un assortimento piuttosto vario di interventi. anche non prestare un ascolto del tutto preciso, interessato ed accurato potrebbe far inviare questo tipo di messaggio. Mostrarsi increduli o sfiduciati, avere fretta di concludere e dare segni di non accettazione, sono tutte espressioni che riportano ad una svalutazione dell’altro. La squalifica sul piano personale rappresenta l’effetto più deleterio nel progetto di alleanza e costruzione della partnership fra counselore cliente. Lo specialista ne deve debitamente tenerne conto.

 

_ Diagnosticare: a parte la violazione deontologica a danno di altre professioni deputate a questa funzione, il counselor dovrà stare attento anche a non esprimersi verbalmente secondo un linguaggio strettamente e irrevocabilmente clinico. Il servizio che svolge è propriamente caratterizzato da un’attività che è connaturata scientificamente dal suo lemmario depatologizzante, che non coincide con la negazione di un’eventuale manifestazione non equilibrata del cliente, quanto invece è indirizzato a promuovere un percorso il cui primo obiettivo consiste nel mobilitare il cliente ad un eventuale nuovo ordine di idee e di rivalutazione circa le proprie strategie di fronteggiamento e problem-solving, in relazione agli eventi che egli sostiene di vivere. Un’asserzione diagnostica si presenta sempre con una valenza di rigidità e di irrimediabilità, configurando il cliente dentro un’etichetta, trasformandolo in un paziente, in un malato, e quindi collocandolo per giunta al di fuori di un intervento condotto secondo lo stile e i princìpi del counseling.

Il rischio elevato dell’identificazione adesiva del cliente con la sua declinazione patologica, compromette il lavoro di counseling, svolto secondo coordinate che immettono il cliente su un piano di speranza e di attiva responsabilità.

 

_ Investigare: se il cliente lascia lo studio del counselor con la sensazione spiacevole di essere stato interrogato da un inquisitore, allora qualcosa si è sicuramente svolto nella maniera meno appropriata. Più volte in diversi testi e manuali di counseling viene ampiamente discusso sulla utilità e sulla abilità circa l’uso delle domande, che rappresenta uno dei temi più difficili e controversi nel panorama dialettico di tale disciplina. La scelta accurata in termini di tempo e di modalità, la prudenza con la quale si ricorre al loro utilizzo, delineano la qualità dell’intervento.

D’altra parte, la difficoltà di saper usare le domande con efficacia e discrezione è legata alla diffusione del modello più comune adottato nelle relazioni, che prevede di rivolgere a raffica domande al solo scopo di soddisfare la curiosità futile alla ricerca del dettaglio fuorviante o del pettegolezzo. Non è ovviamente questa la mappa che guida il professionista in questo territorio. Pertanto, la capacità di condurre un colloquio anche (e appunto non solo) con l’ausilio di domande, fa parte a pieno titolo di un’abilità che si è obbligati a formare come professionisti, col fine di garantire prestazioni rigorose e qualificate.

 

_ Irridere e minimizzare: avendo già affrontato il tema della svalutazione diretta della persona, si tratta certamente di una modalità che colpisce il valore e la stima che ciascuno può avere di sé, col rischio di confermare una percezione di sé squalificante o di ridisegnare un’identità fondata sulla sensazione errata di non valere. Il counselor dovrà apertamente contattare se stesso e guardarsi dentro, nel caso in cui stia procedendo nel ricorrere ad atteggiamenti atti a colpire e minare l’altro nella sua dignità di persona.

 

Tutte queste modalità, ampiamente trattate e riconosciute nell’ambito dello studio orientato all’accrescimento della professionalità del counselor, rimette in gioco una delle competenze più richieste e necessarie del professionista dell’ascolto: la congruenza comunicativa, di cui lo specialista deve considerare soprattutto perché egli, nell’esplicitare tale modello, offre (o dovrebbe offrire) una testimonianza edificante su come si possa comunicare per promuovere contesti di reale attenzione e sintonizzazione sull’altro. Al di là della tecnica scelta, dunque, resta ancora una volta l’esempio che il professionista offre, la strategia più efficace nel favorire lo sviluppo di un setting connotato da elementi di autentica alleanza e condivisione empatica. E’ quest’ultima, d’altra parte, a rappresentare la piattaforma di base su cui innescare un processo di aiuto alla persona il più possibile efficace e ben riuscito.

 

dott. Nuccio Salis

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