Chiunque decida di impegnarsi come specialista della relazione di aiuto, conoscerà quei momenti in cui le proprie convinzioni circa il proprio ruolo, e la motivazione che ci induce a condurlo, viene messo tutto a dura prova da circostanze che ci obbligano a riflettere sulle decisioni che abbiamo assunto per arrivare a svolgere una professione che, almeno secondo le nostre aspettative, ci avrebbe soltanto gratificati fino a farci sentire finalmente realizzati. Ciascuno di noi conosce il senso e la fatica del proprio percorso, i princìpi che lo hanno condotto ad abbracciare una tale scelta, gli obiettivi e i desideri che ricorriamo per poterci sentire gratificati e appagati in un percorso di cui ne sposiamo i valori e ne accettiamo e assecondiamo la rotta, spesso ricoprendo i sentimenti di incertezza con i sogni che abbiamo il diritto di prospettarci.
Sappiamo che dovremo fare i conti con una realtà a volte molto più dura e ostica rispetto a come la avevamo immaginata, e che ci toccherà sperimentare come ciò che ci circonda non si presenta affatto pronto alle modalità che noi proponiamo nel contesto in cui siamo attivi.
Si tratta di verificare molto spesso quell’esperienza mortificante in cui l’ambiente sembra risponderci in modo ingrato e superficiale. Investiamo nei nostri progetti, ricercando e curando ogni dettaglio, prodigandoci con l’intento di accogliere ed analizzare la domanda e i bisogni più frequenti e ricorrenti, accettando di prepararci ulteriormente, espandendo e potenziando le nostre abilità, eppure la risposta che spesso ci ritorna ha l’aspetto del dissenso, del rifiuto e della indisponibilità nel ricercare una comune zona di dialogo e di confronto.
Può capitare a fronte di un lavoro già impostato apparentemente secondo i parametri della collaborazione in rete, dal quale invece capita spesso di prendere atto che i buoni princìpi si rivelano soltanto lettera morta, di fronte a una sostanziale diffusa incapacità organizzativa, disinteresse e generale disimpegno e pressapochismo. Sono passaggi significativi che rendono conto dello stato generale circa la serietà e il rigore con cui vengono condotti certi percorsi pianificati e finanziati con finalità sociali o didattiche. E’ triste avvertire lo spreco della nostra professione, così ricca di caring skills e attitudini proattive, e anche così sottostimata e non sfruttata nel pieno del suo vigore strumentale e scientifico.
Altra esperienza in grado di rivoluzionare le nostre idee circa la tenuta e la perseveranza circa il prosieguo della nostra attività professionale, si verifica quando abbiamo a che fare con un cliente particolarmente rigido e riottoso. Va tenuto presente che scegliere questo mestiere significa tenere debitamente conto di poter incontrare anche quella parte di umanità diffidente e apertamente ostile verso chi è preposto a fornire aiuto, per varie ragioni che possono essere associate a un complesso intreccio di ingiunzioni culturali ed esperienziali.
Il cliente non può del tutto essere scelto, ed inoltre dal momento in cui si è deciso di prendersi cura di soggetti dalle valenze esistenziali connotate di un qualche livello di problematicità e disfunzionalità, seppur relativamente lieve, sarebbe saggio anche aspettarsi di dover recuperare tutta la propria pazienza, per attraversare quei momenti più difficoltosi legati all’incontro con persone che si rivelano con tutta la loro carica di contrarietà preconcetta che rivolgono al nostro indirizzo.
E’ più che probabile che la maggior parte di noi si ritrovi ogni volta spiazzato, pur se in possesso di artifici strategici e tecniche di conduzione efficace della relazione umana, quando un cliente si salda su alcune sue convinzioni che non lo aiutano a mettersi in discussione e ad astrarsi dall’impasse, e puntando i piedi reagisce con modalità accusatorie, autoassolvendosi mediante formule e riverberi verbali che prendono le distanze dalle nostre sollecitazioni e inviti a pensare, soffermarsi e riorganizzare idee e risonanze emozionali.
Vorremmo tutti avere in quel momento la formula dell’incantesimo infallibile che stoppa l’iniziativa recalcitrante del cliente e lo conduce verso un territorio riflessivo e cosciente. C’è però da considerare che questa istanza va ricondotta dentro le proiezioni idealizzate che anche il counselor possiede come individuo connotato da imperfezioni, limiti e vulnerabilità. L’importante è che egli conservi questa consapevolezza e proceda secondo i canoni della sua disciplina, da cui cerca di ricavare l’azione più idonea e pregevole per aiutare sempre chi ha bisogno, anche se l’espressione dello stesso equivale ad osservare e subire comportamenti avversivi e notevolmente impattanti.
Dunque, senza poter purtroppo fornire indicazioni scevre di fallacità, un primo e doveroso punto interrogativo dovrà pur affacciarsi nella mente del counselor: ovvero egli dovrà chiedersi se quel tipo di atteggiamento disturbante che gli tocca ricevere non lo avrebbe seppur inconsapevolmente sollecitato, anche fornendo informazioni eventualmente incomplete sulla natura del proprio ruolo, tralasciando o non curando a sufficienza tutti gli aspetti legati alla chiarezza e congruenza comunicativa, lasciando facilmente alla libera interpretazione del cliente la configurazione e le finalità di un percorso di counseling.
Questo esercizio è fondamentale affinchè lo specialista non smarrisca il senso e la collocazione deontologica del proprio ruolo, pur contattando con la massima trasparenza i suoi sentimenti di disagio e di disorientamento, che potrebbe decidere eventualmente anche di dichiarare, laddove lo ritenesse necessario e funzionale per una comunicazione basata sull’importanza del messaggio-Io e della sua precisa e specifica referenzialità oggettuale. II counselor è tenuto a conservare il carattere protettivo e contenitivo del setting, dal momento che una breccia nello stesso potrebbe far sentire il cliente legittimato ad esprimersi con modalità decisamente improprie, mettendo a rischio l’incolumità dell’ambiente, di se stesso e/o del professionista con cui si confronta.
Dopo queste premesse, che già costituiscono di fatto una modalità dell’agire efficace di fronte a difficoltà estenuanti, va anche ricordato che il counselor, eventualmente raggiunto da comportamenti di un cliente diretti a ferire sul piano della dignità professionale (o addirittura personale), dovrà inviare un feedback ben diverso rispetto a quello con cui si connota il suo partner relazionale. Alla modalità reattiva del cliente, il professionista dell’ascolto dovrà infatti replicare mediante una modalità proattiva, allo scopo di non invischiarsi nei contenuti disturbati del cliente, salvaguardando il settingin modo da non concedere al soggetto l’opportunità di impadronirsi delle condotte e delle dinamiche interpersonali, conducendole arbitrariamente, scavalcando il ruolo del professionista e rovesciando di fatto la necessaria complementarietà insita nel rapporto fra le parti.
Si tratta di realizzare quel che uno psichiatra durante una supervisione di gruppo di cui prendevo parte chiamò “restituzione bonificata”. Concetto ineccepibile e seducente quanto complesso da costruire sul piano concreto e operativo. Questo è però il mestiere del counselor, e la sua cassetta degli attrezzi è provvista anche di arnesi per interventi considerati più emergenziali. Inoltre, se a prevalere nel portatore di aiuto è l’atteggiamento esplorativo e di curiosità, la sua sorpresa verrà accolta dallo stesso con interesse, e dunque come occasione imperdibile per scoprire l’altro con maggiore ricchezza di dettagli, raccogliendo la sfida di aiutare seppur nelle condizioni meno favorevoli; senza sentirsi i missionari salvatori che non hanno bisogno di aiuto, ma con sobrietà, confidando anche sul supporto eventuale di altri “link” professionali a cui indirizzare un possibile invio.
Nello specifico della sua professione, peraltro, il counselor dovrà rammentare che le coordinate epistemologiche della sua disciplina lo vincolano a riportare la presenza del cliente nel ‘qui e ora’, pertanto eviterà di ricercare ragioni troppo ataviche che spieghino il comportamento del cliente, e provvederà ad aiutare lo stesso a concentrarsi sul focusattuale e contemporaneo che determina la sua frustrazione. In genere, quest’ultima è sempre originata da una discrepanza fra area dei bisogni/aspettative e deficit di risorse e contingenze adeguate per soddisfare i propri auspici.
Considerando ciò, è necessario rimarcare come il counselingsi distingua da altri interventi a orientamento maggiormente “clinico”, proprio per la sua specificità di ricercare la prospettiva positiva e l’azione costruttiva da ricercare, piuttosto che l’identificazione retrodatata che causa il loop del fallimento e dell’insuccesso. In breve sostanza, il counselornon chiede a un cliente “Cosa fai perché ti vada sempre così male?”, ma domanderà piuttosto “Cosa puoi fare perché da ora in poi vada meglio?”. In questo modo, sarà possibile intravedere la possibilità di reperire risorse a carico del cliente e fargli individuare obiettivi realistici e raggiungibili in linea con il suo stile di coping e fronteggiamento problemico.
Il counselor dovrà gestire le circostanze più impegnative, chiamando a raccolta tutta le sue competenze metacomunicative, rispecchiando sull’altro un importante e modellante esempio di flemma, riflessione e autocontrollo, dimensioni effettivamente mancanti o in difetto su chi riversa sul professionista tutto il suo carico di rabbia e di disagio.
Questa possibile circostanza può essere colta da alcuni come minaccia irreparabile che riorganizza tutti i concetti sulla propria professione, e vi sono invece altre personalità che potrebbero considerarla ed accoglierla come una sorta di scommessa. D’altra parte sarebbe più che saggio affrancarsi dalla percezione magica di avere sempre una risposta a tutto, o addirittura di poterci rivolgere al nostro intuito come risorsa per gestire l’imprevisto. Ciò. oltre ad essere rischioso su un piano meramente tattico, significherebbe anche cedere all’illusione del controllo, e peggio degenerare in una conduzione ingenua di cui si fa fatica a cogliere come si allontani dai valori promossi dal counseling, avvicinandosi invece alla pura manipolazione del comportamento e delle scelte altrui.
Una curiosa combinazione di elementi strategici, in associazione con tale tipo di difficoltà in oggetto, consiste in una felice congiunzione fra immaginazione e rigore, discussa e divulgata dall’antropologo e psicologo Gregory Bateson (1904 – 1980), che ne suggerisce e ne propende l’applicazione. Da questa importante formula si può peraltro evincere come sia necessaria la compresenza di entrambe le variabili, dal momento che, se le stesse fossero isolate, avremmo due condizioni opposte e radicali di tecnicismo (rigore) e improvvisazione (immaginazione).
L’attenzione dello specialista verte invece contemporaneamente su entrambi i fronti, con l’opportunità di far emergere domande ad ogni aspetto disfunzionale manifestato dal cliente, che diventa l’occasione di indagare insieme a lui sulla gamma delle sue reazioni emotive, evitando di inquadrarlo dentro il lemmario di una clinica patologizzante, superando e vincendo il pregiudizio di connotarlo dentro spiegazioni poco professionali e scarsamente empatiche (es: “Costui mi aggredisce e ce l’ha con me. Deve essere senz’altro un pazzo!”). Peraltro, se il counselordovesse cadere nella trappola reattiva tesagli dal cliente (seppur attraverso meccanismi quasi sempre inconsapevoli), non farà che confermare i dubbi iniziali dello stesso, il quale giustificherà a quel punto se stesso, inficiando l’atmosfera relazionale ed impedendo la naturalezza di un percorso in cui mancherebbe la serenità adatta da ambo le parti per potersi impegnare con il massimo del rigore e dell’efficienza.
E’ sufficiente che ciascuno di noi tenga a mente il principio secondo cui la persona non è il suo comportamento, e quindi l’aiuto erogato solleva il cliente da questo pesante processo di identificazione/etichettamento, sostenendolo in un percorso più attivo di scoperta genuina ed autentica di sé.
Teniamo presente anche che non siamo poi così sprovvisti di strumenti e risorse ai quali poterci appellare per ricevere a nostra volta il sostegno da parte di servizi di consulenza e supervisione condotti da colleghi o personalità scientifiche abilitate e vicine alla nostra. L’importante è rompere l’isolamento prima ancora che questo possa degenerare nella percezione di essere falliti e di essere stati irrimediabilmente vinti dalle circostanze.
Poter contare su servizi e contatti autorevoli e di valore, è un importante punto di forza che può avvalorarci, rinfrancarci e rafforzarci, visto che anche noi non possiamo essere esenti dall’averne bisogno.
dott. Nuccio Salis
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