EDUCARE NELL’IMPREVEDIBILE. La gestione del non controllabile nell’agire educativo

Inviato da Nuccio Salis

 imprevisto

Quanto sappiamo accogliere la possibilità che si manifesti l’imprevedibile, nella gestione dei processi educativi? Come dobbiamo considerare ciò che non può essere completamente soggetto al controllo? I fattori e le variabili che esulano dai limiti e dalle aspettative che abbiamo pianificato, sono da considerare un ostacolo o addirittura esiste la possibilità che possano invece essere colte come risorse?

Quando si struttura e si da corpo ad un progetto, si tende naturalmente ad organizzare l’insieme degli elementi connotanti il programma, seguendo criteri di ordine, sequenzialità e logica. Di certo esiste già a monte la consapevolezza di confrontarsi con un indeterminato margine di incertezza. L’agire educativo, benché sostanziato da  processi e fasi che fanno riferimento a metodi  e cornici teoriche già validate da esperienze precedenti, non offre totali garanzie della ripetibilità dell’evento e del fenomeno che intende affrontare.

 

L’azione educativa rimane cioè caratterizzata dall’imponderabile, e non può che manifestarsi attraverso ipotesi, dubbi, tentativi ed errori, e continuare così ad avere una connotazione vincolata all’idea di imperfezione e di aleatorietà. Ovvero, ciascuna pratica educativa, anche se condotta in funzione di medesime o molto simili ispirazioni metodologico-operative, non potrà che sostare su dati e conclusioni incerte, mai completamente esaustive, il cui valore epistemologico non potrà essere totalmente trasferibile presso altri ambienti e spazi dell’educare. L’eterogeneità delle variabili soggettive assume quindi una struttura piuttosto articolata, tale da rappresentare una complessità , sia a carico del contesto dentro cui si situa l’opera educativa, sia ai numerosi elementi che delineano le caratteristiche personali di tutti i soggetti coinvolti nell’esperienza, e dunque di come essi modellano le tipologie dei loro processi interpersonali. E non solo, perché basti pensare all’estensione di tali funzioni all’interno di una mappa che illustri anche le relazioni micro e macro-sociali con le restanti parti, per rendersi conto di quanto l’elemento soggettivo prevalga sull’oggettivo, e di quanto il non generalizzabile domini sulla ripetibilità dell’evento.

In pratica, non rimane che prendere atto di suddetta irreparabile condizione, che forse attualmente genera un vissuto frustrante e destabilizzante, specie in chi procede seguendo percorsi e piani prestabiliti, con ragione e calcolo. È necessario tuttavia ammettere l’esistenza di una zona non misurabile di incertezza, e che caratterizza le procedure educative nello spazio-tempo. Includere questo fenomeno, inevitabile quando si ha a che fare con la dinamica della vita stessa, può significare sottrarsi alla spinta obbligante della politica del controllo, e ciò equivale anche ad invalidare l’illusione di poter assoggettare il processo educativo, affidandoci a strumenti e modelli da cui ci attendiamo una spesso sopravvalutata affidabilità.

Questo può accadere dal momento in cui, non accettando la possibilità ed il manifestarsi dell’imprevedibile, si valuta l’esito delle nostre azioni secondo l’ottica dell’errore.

Come si è potuti giungere ad una tale modalità così quasi ossessionata dal modus del controllo? Si tratta forse di un sofisticato valore aggiunto, che ricava soddisfazione dal fare appello alle strategie scientifiche più aggiornate? Oppure si tratterebbe piuttosto di un diffuso vizio che prevede una modalità evitante nei confronti di ciò che è considerato errore? E perche no entrambe le ipotesi, dal momento che sembrano alleate su un piano di credenze culturali e forme dell’esistere.

In pratica, sembra plausibile che questa forma di prevenzione dell’errore sia il risultato di un dominio scientista nei confronti del luogo dialettico offerto dal sapere umanistico. La domanda è: queste modalità sequenziali, strutturate rigidamente per algoritmi, organizzate secondo set temporali predefiniti, sono garanzia di successo circa il raggiungimento degli obiettivi identificati nei luoghi dell’agire educativo? Ovvero, sarebbe curioso domandarsi e soprattutto ricavare dati, su quanto i criteri della programmazione (applicati in genere in quegli ambiti le cui procedure sottostanno alla legge del controllo), siano paragonabili e proponibili e in quale misura e modo, anche nell’ambito della pianificazione educativa. Non si tratta di disquisire sulla validità e la necessità di costruire e modellare la struttura di un progetto, piuttosto, ciò che si intende mettere in discussione sono i confronti, cioè le analogie ma anche le marcate differenze che intercorrono fra le modalità di attuazione in campo scientifico cosiddetto “puro” ed ambito umanistico. La particolarità e la giustificazione stessa di quest’ultimo, per esempio, si fonda interamente sulla sua prospettiva dialettica. Essa può partire perfino dall’illogico e dal paradosso. Non dovrebbero cioè farci paura le cosiddette “variabili pirata”, cioè quelle espressioni interferenti che possono portarci ad un cambio di programma, ad una revisione e re-indirizzamento delle prospettive e degli auspici iniziali.

La ricchezza di un percorso umanistico consiste proprio nella sua imprevedibilità, e che non è un procedere senza orientamento, come fossimo privi di una mappa o di un significato, ma è anzi un procedere che costruisce il significato, poiché questo non è già dato, se non dai principi fondanti che lo sostengono. Questo punto è di sostanziale importanza, perché altrimenti non si distingue una procedura che guida l’agire sulla base dell’adesione al protocollo, da un cammino in cui la stessa imprevedibilità e non completa controllabilità dell’evento fonda il senso medesimo del divenire. Ragion per cui non possiamo appiattirci ad uno sterile managerialismo da cattedra, incapace magari di cogliere l’opportunità nell’elemento non previsto. La scienza umanistica è tale proprio perché intravede nel fattore “fuori posto” una risorsa, un oggetto di possibile arricchimento esperienziale ed epistemologico. È mia convinzione personale che il senso stesso della modalità di agire, particolare ed originale che appartiene alle discipline umanistiche, sia sempre più minacciato da una cultura del controllo e della prevedibilità matematica del dato, che tanto assilla il modello basato sulla massimizzazione del profitto e dell’ottimizzazione del rendimento. Una forma mentis umanistica che si lascia passivamente ed acriticamente contaminare da una siffatta modalità operativa, squisitamente concentrata sul calcolo fra costi e benefici , sarà destinata a snaturarsi ed a soccombere.

Personalmente mi ritengo convinto della necessità della programmazione, anche avvalendosi di metodi e strumenti che l’odierna meccanicità scientifica ed informatica ci mette a disposizione, a patto che il principio e la modalità che ci muova continuino ad appartenere a ciò che professionalmente ci distingue e ci caratterizza fin dall’origine. La nostra ricerca dovrà porsi al di la di obiettivi legati al raggiungimento di parametri standard, poiché noi abbiamo a che fare con persone, non con merci, e le loro prestazioni non hanno a che vedere con l’omologazione seriale di un prodotto. Questo punto è troppo importante perché possa essere lasciato in sospeso e trascurato. L’augurio conclusivo è che pur ricorrendo all’utilità dei mezzi di misurazione, il ricercatore umanista mantenga sempre aperto e largo il suo sguardo, e salvaguardi il suo profilo caratteristico, senza dimenticare l’indissolubile alleanza fra scienza e coscienza, punto fermo nel suo orizzonte dell’agire.

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