il linguaggio "verticale"della poesia ci dona
emozioni incomparabili ...
Comunicare con noi stessi e con l'altro, comprendere la complessità della relazione cognitivo-emotiva del comunicare, individuare strategie efficaci perché la comunicazione sia reale e tale da non lasciare spazio a fraintendimenti, è oggi per ciascuno di noi essenziale nucleo problematico da affrontare, in ogni ambito della vita.
L'analisi transazionale, in particolare, è strumento utile a comprenderci e comprendere gli altri, acquisire consapevolezza delle nostre posizioni esistenziali, riconoscere se e quando ci sentiamo ok, a consapevolizzare come valutiamo l'altro, se e come riusciamo a dialogare con gli stati del nostro io, Bambino, Adulto, Genitore.
Dai maestri dell'analisi transazionale apprendiamo a disvelare nascosti "giochi" che sono attivi in noi e ci condizionano anche a nostra insaputa, impariamo che sentirsi adulti non equivale a mortificare ogni emozione, ogni desiderio, ogni sogno sacrificandolo sull'altare della concretezza, impariamo che le norme e le regole contro cui proviamo un moto di ribellione non sono semplicemente quelle imposte dai nostri genitori, bensì sono quelle che dai genitori certo, ed anche dall'ambiente in cui siamo vissuti, dal contesto in cui ci troviamo abbiamo in qualche modo introiettato, fatto nostre ed è per questo che non siamo in definitiva così liberi di ignorarle.
Molto ancora impariamo dai maestri non c'è dubbio, ma incomparabile è l'emozione che può darci il linguaggio profondo, "verticale" appunto (mentre "orizzontale" è quello della prosa), della poesia. Quando parla il poeta, persino come in questo caso completamente estraneo alla dinamica dell'IO transazionale, ci sentiamo presi davvero mente e cuore, pensiero ed emozioni.
Ed eccolo l'IO bambino che il poeta riconosce in ognuno di noi:
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. E anche, egli, l'invisibile fanciullo, si perita vicino al giovane più che accanto all'uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d'un passato ancor troppo recente. Ma l'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.[...]
I segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l'amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve) , accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.[...] Giovanni Pascoli, Il fanciullino, 1897
La voce del poeta ci sazia.
Una sola citazione mi piace sottolineare, Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare: come trovare una definizione più esplicita della meravigliosa unicità e individualità di ogni essere umano?
Cordialissimamente,
Giancarla Mandozzi
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