I rischi dell'aiuto


Il rischio dell'aiuto“L’ho aiutato, e non me l’ha mai perdonato”, Oscar Wilde
 
Oggi si ricorre sempre più frequentemente all’espressione “relazione d’aiuto”. Il riferimento, più o meno esplicito, è all’attività di un professionista che interviene su un soggetto in difficoltà per favorire il superamento del disagio e l’emancipazione dai condizionamenti esterni. Di regola, ogni comportamento di richiesta d’aiuto è associato alla necessità di risolvere un problema specifico, tuttavia solo in condizioni particolari la persona ricorre ad un intervento di tipo professionale; ne deriva che solo pochi individui formulano una richiesta d’aiuto e che tutti gli altri non ne hanno esperienza. In realtà, ciascuno di noi, nel corso della vita, ha vissuto questo genere di legame, talvolta come destinatario dell’aiuto, talvolta come helper.
Infatti, la relazione d’aiuto si configura come una forma di interazione sociale in cui un soggetto – che può essere uno psicoterapeuta, un counselor, ma anche, semplicemente, un buon amico – favorisce la crescita dell’altro incoraggiandolo a trovare le risorse necessarie al superamento del disagio che manifesta.
È, dunque, la relazione che si stabilisce tra terapeuta e cliente, tra insegnante e studente, tra medico e paziente, tra genitore e figlio. L'espressione "relazione d'aiuto" indica un intervento di supporto allo sviluppo ed alla prevenzione del sé, nella direzione di un’autodeterminazione individuale consapevole. Tutti noi siamo stati bambini, figli, studenti, pazienti – alla ricerca di orizzonti stabili di riferimento e sostegno – ma siamo stati e saremo anche colleghi, amici e, più in generale, figure in grado di offrire aiuto a qualcuno.
Se, dunque, ciascuno di noi ha sperimentato una relazione d’aiuto, si pensi alle molteplici forme, e alla pluralità di aspetti con cui si è manifestato tale fenomeno.
Le qualità dell’aiuto dipendono, in gran parte, dalle caratteristiche della richiesta, ma anche da quelle del soggetto che offre il proprio sostegno. Questa analisi – a prima vista banale – nasconde una serie di implicazioni, e la letteratura scientifica sul tema è piuttosto scarsa. Si parla tanto di relazione d’aiuto, ma non dei rischi, delle conseguenze. Tentiamo, adesso, un approfondimento.
Ci sono persone che, davanti ad un evento problematico, privilegiano un atteggiamento di delega e passività, che li pone in una condizione di attesa – de-resposabilizzata e de-responsabilizzante – di qualcuno che accorra per occuparsi di loro e per porre rimedio alla situazione oggetto di disagio. Quando qualcuno risponde alla richiesta di aiuto – e, in questo caso, parliamo di richiesta di aiuto dipendente – di regola, tali soggetti avanzano la pretesa che l’helper si sostituisca completamente a loro nella risoluzione delle difficoltà: tale strategia relazionale comporta un sovra-utilizzo dell’aiuto e la realizzazione di un aiuto esecutivo.
Sul versante opposto si collocano gli individui che vivono il rivolgersi agli altri per un sostegno come una minaccia per l’integrità del proprio sé; infatti, specifici tratti di personalità influenzano in maniera consistente la disponibilità di un soggetto ad affidarsi agli altri per affrontare e risolvere una condizione di difficoltà. Ricerche sperimentali dimostrano che la tipologia di individui in esame è, generalmente, incline a sotto-utilizzare le offerte di aiuto. I risultati delle sperimentazioni confermano la netta riduzione delle probabilità che tali soggetti si rivolgano ad altri per fronteggiare la loro condizione di disagio, e segnalano come siano eventualmente portati ad affidarsi a helper anonimi e lontani dal vissuto quotidiano.
Quando la richiesta di aiuto si configura come una richiesta autonoma, l’individuo concorre attivamente al superamento della propria situazione di bisogno, mettendo in atto strategie di coping efficaci anche a lungo termine; in questo caso si parla di aiuto strumentale (Nadler, 1997).
Tuttavia, la realizzazione di un aiuto di tipo esecutivo o strumentale – come, in parte, abbiamo visto – dipende anche dalle caratteristiche dell’helper. Quante volte, nella nostra esperienza quotidiana, ci siamo imbattuti in persone che ci hanno offerto aiuto, addirittura anticipando la nostra eventuale richiesta? Magari si trattava di soggetti ansiosi, preoccupati della riuscita di una nostra prestazione, che, nell’offrire sostegno, finivano per imporci il loro modo di arrivare alla loro soluzione; e capita, così, che proprio chi vuole prestarci aiuto, finisca poi per compromettere le nostre reali capacità. Si pensi ad una mamma che, vedendo il proprio bambino in difficoltà, interviene in modo significativo sulla sua prestazione, magari per alleviare l’ansia rispetto alla condizione del figlio. In questi casi parliamo di sovra-aiuto, ovvero di una strategia di comportamento messa in atto dall’ helper, in cui il sovra-aiutante realizza la prestazione di assistenza sovrapponendosi, quasi sostituendosi, al suo interlocutore. Un simile intervento rischia di risolversi in una manipolazione del soggetto-aiutato, che è costretto ad accettare dall’esterno una soluzione preconfezionata e, spesso, vissuta in modo dogmatico.
E. J. Langer, una ricercatrice che si è occupata della psicologia dell’insegnamento e dell’apprendimento, racconta che una grande quantità di ricerche, svolte in una ampia varietà di ambientazioni, hanno dimostrato che quanto più i soggetti sono incoraggiati e sentono di avere il controllo sulle proprie decisioni, tanti più benefici ne traggono:
 
“Nelle ambientazioni accademiche, gli psicologi trovarono, per esempio, che gli studenti a cui veniva data la possibilità di scegliere il metodo per imparare la lettura rapida, alla fine leggevano più velocemente degli studenti a cui a cui veniva assegnato un metodo o l’altro” (Langer, 2003; p. 22).
 
Langer ha condotto una ricerca in cui variava la quantità di aiuto offerta a tre gruppi di individui in vista del completamento di un puzzle. Il primo gruppo non riceveva alcun aiuto dal momento che era impiegato come gruppo di controllo; il secondo gruppo era attivamente aiutato; il terzo gruppo era semplicemente incoraggiato. I risultati della sperimentazione mostrarono che la migliore prestazione era da attribuirsi al terzo gruppo. L’importanza del controllo percepito da parte dei soggetti sulle attività da svolgere è, dunque, secondo la ricercatrice, la variabile che condiziona la riuscita o il fallimento di una prestazione. Certamente è sbagliato credere che ogni forma di aiuto comporti come condizione necessaria il fallimento della prestazione degli individui aiutati, tuttavia ci sono delle circostanze in cui ciò si verifica, ed è interessante indagare quali sono i contesti situazionali che favoriscono tale fenomeno. Secondo la ricercatrice, il comportamento di sovra-aiuto viene adottato dalle persone in maniera del tutto inconsapevole, ed è finalizzato al piacere stesso che i soggetti provano offrendo agli altri il proprio sostegno. Anzi, paradossalmente, proprio nel momento in cui prestare soccorso agli altri ci fa sentire meglio, rischiamo, in realtà, di preparare la strada per l’insuccesso del nostro assistito (Langer, 2003).
 
Riferimenti bibliografici
Langer E. J. (2003), How Students Learn, The National Teaching & Learning Forum, Volume 12 Number 12.
Nadler A. (1997), Personalità e richiesta di aiuto, in: Pierce G. , Lakey B. , Sarason I. G. & Sarason B. R. (a cura di), Sourcebook of Social Support and Personality, Plenum Press, New York.
 
Serena CapparellaSerena Capparella
 

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