Disporre di un attrezzatura del mestiere, affidabile, di sicura e certa efficienza, costituisce da sempre il legittimo desiderio di un qualunque professionista dell’aiuto, il quale vorrebbe spesso contare su un inappuntabile corredo di strumenti di intervento, di agevole applicazione e di prevedibile esito, soprattutto, confessiamolo, di fronte ad evenienze di difficile gestione. Il dibattito e la ricerca hanno giustamente approdato alla problematizzazione del metodo, arricchendo di preziosi contributi scientifici il profilo teorico-operativo del processo di aiuto alla persona. Discipline maggiormente orientate al riconoscimento accademico hanno diretto, anzitempo, molti dei loro sforzi proprio nel tentativo di validare procedure di carattere universale, attestate da risultati generalizzabili e da una congiuntura comune sulle modalità di uso e somministrazione, fra i vari ordini di professionisti abilitati. Col tempo, l’atteggiamento marcatamente positivista, se dapprima ha goduto di una autorevolezza ricercata, ha cominciato successivamente a mostrare i propri limiti, soprattutto nel delegare sul piano operativo, ciascun eventuale successo o fallimento alla tecnica utilizzata, piuttosto che analizzare sistemicamente l’incrocio interdipendente e dinamico nella complessità delle variabili in gioco.
Di fronte a questo eccesso di apprezzamento fideistico nei confronti della strategia procedurale, ciò che poteva essere sostegno alla persona si era invece trasformato, per un aspetto, in una mera indagine per “sezioni” del fenomeno persona, d’altra parte in un approccio che rasentava l’ingenuità e il pressapochismo nella ricerca, occludendo ipotesi e canali investigativi alternativi.
A questo fenomeno di totemismo verso il modello standard, pare sia riuscito a sottrarsi il counseling, la cui matrice umanistica sembra averlo protetto da un rischioso ottundimento dei suoi paradigmi dell’agire. Al tempo stesso, per non incappare nelle solite trappole dualistiche, tale corrente progettuale, relativamente giovane, ha dovuto comunque consolidare una struttura credibile in grado di congiungere il senso della tradizione da cui proviene, con la freschezza di inedite proposte concettuali e nuove ipotesi di ricerca. Quanto, col trascorrere degli anni, sia riuscito a fare questo, è una risposta affidata agli osservatori più acuti nonché a coloro che ne esperiscono le pratiche. Per quel che mi riguarda potrei appuntare, nel mio piccolo, che l’approccio scientifico scelto dal counseling riesce a collocarlo in una posizione autonoma, credibile, mai subordinata, dentro il cui orizzonte euristico, fra l’altro, i teoremi diventano spunti per un vero e maturo sviluppo della conoscenza, condotti senza alcun estremismo dualistico; varrebbe a dire che il counseling sceglie la certezza insieme al dubbio, il metodo collaudato insieme alla sperimentazione, il noto insieme alla novità, i percorsi standard insieme alla flessibilità, il controllo insieme all’improvvisazione. E tutto ciò senza risultare mai grottesco, caricaturale o superficiale, ma anzi mantenendo insieme rigore scientifico e contestualizzazione dei fattori coinvolti nel campo di azione, permettendo,come aspetto non certamente trascurabile, l’interdisciplinarità fra una pluralità di modelli di studio.
Operando mediante questa direzione, si evita da una parte quel tecnicismo di sapore “psicometrico”, tanto caro a chi prospetta l’illusione di poter misurare il soggetto umano come fosse un qualunque fenomeno fisico-matematico, d’altra parte ci si affranca anche dal rischio di un agire sprovvisto di parametri metodologici.
La questione, dunque, è centrata sulla capacità di abbracciare con uno sguardo totale, olistico, l’esperienza dinamica di ciascun individuo, cogliendo spesso quegli aspetti non altrimenti esplicitati che nessun strumento è in grado di rilevare o catturare con precisione. La domanda è posta anche sulla competenza legata al riconoscere a cosa attribuire la complessiva globalità di un percorso supportivo.
La fiducia incondizionata sulla validità interna di una metodologia strutturata, con molta probabilità conduce ad ignorare quegli eventi, a volte sottili e sfuggenti, che sottintendono all’influenza del processo interpersonale basato sul sostegno. Chi perora per la propria scuola di appartenenza, si pone di solito secondo un’ottica mirata a promuovere e valorizzare le fondamenta teorico-operative di un modello di parte, adducendo a questo tutti i successi, e riparando la metodologia standard da una ridiscussione del suo impianto concettuale e tecnico di fondo. In genere, la protezione corazzata del proprio modello teorico viene ottenuta ascrivendo un eventuale insuccesso a fattori disturbanti non controllabili che si interpolano durante il trattamento, interferendo negativamente coll’itinerario programmato e concordato fra consulente e portatore della domanda del bisogno. Ciò, oltre a generare imprecisione scientifica e conclamata resistenza al possibile rimodellamento e miglioramento del proprio bagaglio strumentale, impedisce una visione allargata e completa dei fenomeni comunicativi. Spesso, è un tipo di errore che non ci si può permettere.
Il merito del successo di un intervento terapeutico o supportivo sui generis, necessita invece di una inclusione multi-opzionale di riflessioni e ragionamenti. Lo strumento attraverso cui si agisce è il medium (mezzo, per l’appunto) fra operatore e consultante. Esso, di per se, non è in grado di ottenere niente, e come una sorta di macchina vuota rappresenta, per lo più, una proprietà potenziale, il cui movente principale rimane il professionista che lo adotta, declinandolo nella qualità pragmatica per la quale è stato concepito e sperimentato. L’efficacia del mezzo, dunque, è data prevalentemente dalla dimensione della reale praticità e livello di padroneggiamento da parte del professionista, e per giunta da come costui rappresenta se stesso anche, o soprattutto, agli occhi del suo interlocutore, il quale sceglie se affidarvisi o meno, testandone credibilità e competenza operativa, secondo canoni naturalmente assai personali, intuitivi, colorati da suggestioni percettive, preconcetti e rumori emozionali. Un consulente non può sottostimare tali aspetti, durante la sua pratica. Egli ha invece il dovere di prendersene cura, e monitorare di volta in volta la centratura del cliente nella relazione.
Un altro importante fattore interveniente, infatti, da prendere in considerazione durante la pratica della relazione di aiuto, è il livello di compliance del cliente, e dunque dell’abilità dello stesso a coinvolgersi attivamente dentro la struttura relazionale con l’interlocutore avente ruolo di guida. È tale senso di alleanza costruttiva col consulente, in fin dei conti, a costituire un criterio di fondamentale importanza per incoraggiare la buona riuscita del trattamento. Un coacervo di fattori intra ed extra-personali, sia nell’operatore che nel consultante, determinano la direzione e l’esito dell’intervento.
Eventi fortuiti, giocoforza improvvisi e occasionali, variabili estemporanee e cause all’apparenza accidentali, si innestano attivamente dentro le dinamiche del processo fra le parti in relazione, costruendo un contenitore spazio-temporale invisibile ma esistente e decisivo.
Ciò obbliga ciascun counselor a fare i conti con l’imponderabile e il non controllabile, con ciò che non sempre è soggetto a rassicuranti definizioni, e con ciò che proprio per il suo mutevole e cangiante sfuggire, richiama l’attenzione alle abilità di adattamento, di ascolto aperto e onnicomprensivo. Di conseguenza, anche la tecnica applicata trarrà la sua funzionalità da tutto questo ribollente calderone di elementi dinamici, che invoca il counselor a rimettere continuamente in gioco se stesso e quello che fino ad ora ha imparato e ritiene giusto. È il gusto verso questa sfida così ardua, a costituire insieme la difficoltà e l’avventura del crescere e dell’evolvere, sia sul piano professionale che personale.
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