ASPETTI CONTROVERSI DELLE TECNICHE DIRETTIVE. Rischi ed opportunità degli interventi “avanzati”

Inviato da Nuccio Salis

counseling direttivo

Nell’ambito della ricerca e della pratica del counseling, ci si imbatte molto spesso su questioni che sono affrontate mediante approcci e modelli differenziati a seconda dei vari indirizzi che caratterizzano o rimarcano il profilo della loro scuola di appartenenza. Si può per esempio notare come alcuni approcci sollevino numerosi questioni critiche sulle modalità di intervento direttivo ( o anche in alcuni casi semi-direttivo), puntando a ricentrare tutto sul dialogo e su aspetti legati alla gestione discorsiva dei contenuti, non trascurando le valenze empatiche nell’esperienza della conduzione del setting. Altre scuole preferiscono invece accentuare anche gli aspetti di valore associati alle tecniche direttive, forse minimizzandone a volte i rischi, dei quali, invece, vale la pena discutere e rilanciare in un tavolo di confronto. Ecco alcune fra le più probabili e discusse strategie direttive a cui si può fare riferimento nel prosieguo della conduzione di un percorso di counseling:

 

.) Modello direttivo

Una evidente situazione di rischio si presenta quando il counselor si trova a dover mettere a confronto il suo personale sistema interno di rappresentazioni, convinzioni e certezze acquisite durante il suo percorso esperienziale, in rapporto all’attuale circostanza in cui tali costrutti incontrano i modelli affettivo-cognitivi e gli schemi comportamentali agiti dal cliente o da una più complessa costellazione di rapporti con la quale si entra in interazione. Durante il cammino esplorativo e di mobilitazione delle risorse della persona, è previsto e pienamente contemplato che il counselor possa appellarsi anche alla possibilità di ricorrere a un livello di guida più avanzato, specialmente laddove il cliente sta facendo ancora fatica a potenziarsi ed accomodare nuovi spunti per autosospingersi al progresso di sé. Certo, se la resistenza opposta al cambiamento è tale che gli strumenti del counseling si rivelino inadatti o insufficienti, sarà preciso dovere deontologico dell’operatore procedere all’invio. Qualora emerga invece la necessità di un maggiore incoraggiamento verso un compito di autoriflessività e di progettazione di azioni nuove e più efficaci, spetta al counselor determinare la misura della solidità nell’alleanza con il cliente, così da potersi permettere di porsi in una modalità maggiormente direttiva e interventista. La delicatezza di tale scelta è legata alla tempistica e alla gestione di un rapporto che aspetta in ciascun caso di essere trasformato verso lo sviluppo di una maggiore assertività a carattere decisionale, da parte del cliente, in previsione di facilitare lo svincolo proprio da quei rapporti fondati da un circolo vizioso che conserva la caratteristica di simbiosi/dipendenza tipica delle relazioni disfunzionali. Il counselor si assume la responsabilità di accentrare un focus di lavoro che ritiene il più adatto e pertinente all’area dei bisogni e degli obiettivi emersi durante il colloquio. In merito all’individuazione dell’area di lavoro, il professionista è tenuto a questo punto di consegnare delle vere e proprie prescrizioni, quali per esempio i famosi homework, che consistono in azioni che il cliente ha il compito di tradurre nella sua quotidianità sottoforma di comportamenti molto precisi e diretti a scopi molto chiari e comunque condivisi. A quel punto è fondamentale interessarsi all’esperienza che ne è scaturita in termini di effetto, ed accogliere la restituzione feedback del cliente, dal momento che costituirà il materiale esperienziale sul quale egli stesso viene orientato per accrescere la sua capacità di scegliere ed agire col massimo grado di responsabilità e autonomia.

 

.) Parafrasi antinomica

Diventa inoltre necessario talvolta proporre, con estrema prudenza e tatto, una possibile rilettura degli eventi e delle circostanze vissute e narrate nel contesto del colloquio. Se da una parte è ben nota la modalità di rispecchiamento attivo parafrastica, eseguita allo scopo di restituire significati convalidando l’attenzione e l’ascolto dedicati al cliente, l’efficacia della stessa può essere messa alla prova anche a seconda di come lo specialista ritiene che debba essere ri-accolto e ri-disegnato il quadro della situazione che il cliente riporta all’interno del setting. In pratica, con una restituzione che riflette i medesimi contenuti senza alterarli, ma di fatto re-inquadrandoli dentro nuove strutture lessicali, il cliente potrebbe avvertire la ‘provocazione’ nell’essere sollecitato ad una revisione e riconsiderazione dei fatti esperiti. Seppur ogni rielaborazione per mezzo di parafrasi è classificato all’interno delle tecniche non direttive di ascolto comprensivo, non si può trascurare, nell’ordine della eterogeneità della sensibilità umana, che possano esservi clienti più e meno suscettibili e reattivi rispetto alla riorganizzazione linguistica prodotta dal professionista di fronte a cui si trovano. Un esempio chiarificatore potrebbe essere il seguente: il cliente che afferma “Ultimamente mi sento continuamente triste”, potrebbe essere trasformato in “In questo periodo non riesce ad essere sereno”, con il rischio che la riformulazione per contrasto, benché speculare ai contenuti riportati dal cliente, non risuoni esattamente come il cliente la intende, sentendola estranea e perciò optando per il rifiuto, che può trasferirsi su un piano di percezione di inefficacia dell’operatore, che viene visto poco adatto e propenso ad erogare in modalità efficace l’aiuto richiesto. Se inoltre, l’operatore non ha del tutto svolto e completato un lavoro su di sé atto a rimuovere o metabolizzare tutto quel ciarpame di una cultura che indottrina continuamente il giudizio e il confronto atti a conformare e annullare l’individualità, è possibile che senza rendersi conto egli invii messaggi impliciti di natura svalutante, che assolvono la funzione latente di disquisire sul livello morale del cliente, e quindi di collocarlo in una situazione “down” da cui l’unica via di uscita è l’approvazione del modello esistenziale del counselor. Si tratterebbe di un abuso sulla persona e sugli stessi principi fondanti del counseling. Il grado di consapevolezza e di accorgimento con cui si adottano tali strategie deve essere elevato, e monitorato da un atteggiamento di serio rigore scientifico che punta all’aggiornamento, al potenziamento della propria attrezzatura di lavoro e soprattutto dalla rivisitazione di sé in termini esistenziali e valoriali.

 

.) Rispecchiamento emotivo aggiuntivo

Medesimo discorso che si riconnette al precedente, deve svilupparsi quando la ricollocazione dei contenuti all’interno del sistema interpretativo del cliente, possiede connotazioni a chiare coloriture emotive, e quindi il racconto viene rimesso all’attenzione dell’operatore arricchito dalle espressioni soggettivo-affettive del cliente. Anche in questo caso, una restituzione estesa da elementi descrittivi supplementari non presenti nell’esposizione del cliente, potrebbe costituire un azzardo non proprio trascurabile dentro un’ipotesi di trattamento centrato sulla persona. Anche in riguardo a questa opzione operativa,che risulta di fatto inclusa fra le tattiche disponibili nell’equipaggiamento del counselor, sono necessarie tutte quelle valutazioni e considerazioni che devono indurre il professionista della relazione di aiuto a ricorrere a princìpi di prudenza e di accoglienza incondizionata verso il mondo esperienziale così come è sentito dall’altro. Di fronte a un cliente che tende ad esempio a nascondere la sua paura, ostentando coraggio, intraprendenza e temerarietà, è possibile proporre provocatoriamente di concentrarsi e riferire su questo aspetto così sottaciuto, accantonato e messo da parte magari per una sorta di auto-identificazione surrettizia ad un’immagine di sé legata al mito maschile della forza e dell’accettazione della lotta senza mostrare ritrosie e tentennamenti. “Immagino quanto abbia avuto paura”, potrebbe avanzare il counselor, con l’intento di motivare l’altro a misurarsi con un territorio che fino a quel momento può aver reso inaccessibile a se stesso, in obbedienza a leggende interiori che non gli permettono di maturare una più lucida e matura visione di sé in termini personologici e di complessità/integrità del Sé.

 

.) Reframing

Decisamente in linea con i due punti precedenti, si tratta di un intervento che letteralmente indirizza il re-incorniciamento della situazione evinta dalla narrazione articolata del cliente. Ciò viene praticato allo scopo di ridefinire orizzonti di senso e di significato che però, in qualche caso (e in questo consiste il tema dominante dell’azzardo nell’uso di ogni tecnica), il cliente potrebbe non trovarsi ancora pronto a ricevere e ristrutturare alla luce di nuove idee emergenti e di un inedito scenario contestuale allestito dapprima al livello dell’immaginazione. Ancora una volta, l’efficacia della tecnica non dipende in modo esclusivo dalla valenza intrinseca della stessa, in termini di collaudo e affidabilità dello strumento, ma necessita di essere contestualizzata nel vissuto del cliente, di cui durante l’intero processo di counseling si testa la propensione collaborativa a generare autocritica e autentica volontà di cambiamento. Sono infatti i feedback dello stesso, inviati nel complesso delle dinamiche comunicative verbali e non verbali, a darci modo di osservare come accoglie e gestisce l’impatto delle affermazioni ri-orientative da parte dello specialista. Se non si mostra sufficientemente pronto, si ritorna ad un rispecchiamento lineare e per omonimia.

 

.) Compresenza intensiva (joining)

L’apertura e l’accoglienza da parte del counselor debordano verso un’intimità che produce un’alleanza avvertita e vissuta come profonda e indissolubile, nel rapporto professionista/cliente. L’aiuto offerto da parte dell’operatore esprime forme avanzate di empatia e di partecipazione ai vissuti dell’altro, attraverso le quali si manifesta un forte sentimento di vicinanza , costruendo un clima di calore e di reciprocità decisamente intenso. Contenendo per ovvie ragioni aspetti discutibili e controversi, tale tecnica non è stata adottata ed approvata da tutti gli indirizzi e le scuole di counseling, anche se coloro che la sostengono ne rimarcano la plausibile eventualità, soprattutto in quelle situazioni in cui vi sono richieste (più o meno consapevoli) legate ad esigenze di ricevere una guida maggiormente sicura e direttiva che vicari inizialmente le proprie zone di debolezza e incapacità a reagire. L’origine di una tale impostazione circa le teorie e le pratiche operative che vi sono congiunte, è da ricercarsi in quelle esperienze pionieristiche di aiuto in vivo nei contesti di avvilente disadattamento di certi modelli famigliari, ai quali si rivolgeva il lavoro sociale nell’ambiente spazio-temporale della famiglia destinata a ricevere l’intervento.

 

.) Autorivelazione

Il rischio di dichiarare se stessi esordendo con “è capitato anche a me”, “ma sa che anch’io, una volta…”, è stato già oggetto di dibattiti e discussioni ampiamente note dentro un’ottica di osservazione, pratica e perfezionamento delle tecniche di counseling. È comunemente condiviso il rischio di testimoniare se stessi sovrapponendosi ai contenuti (e quindi all’area dei bisogni) espressi dal cliente, dal momento che ciò decentra il focus di lavoro dal cliente al counselor, sbilanciando l’importanza tematica sulla storia del professionista, ascrivendo allo stesso una posizione privilegiata e spostando l’attenzione sul soggetto sbagliato. Ciò costituisce a tutti gli effetti un abuso della complementarietà nel rapporto counselor/cliente, dal momento che di fatto il primo potrebbe sentirsi tentato di usare il secondo per rovesciare esattamente il motivo dell’incontro, ed invalidare come conseguenza l’efficacia del trattamento e l’intero impianto epistemologico su cui si fonda l’approccio promosso dallo stesso. Tuttavia, dal momento che nessun intervento viene radicalmente squalificato in letteratura e nella pratica operativa, si pone ancora una volta la questione del ‘come’ usare la tecnica, del ‘quando’, del ‘dove’ e ‘con chi’. Si tratta cioè di saper contestualizzare e scegliere opportunamente le modalità, i tempi, il setting e soprattutto la tipologia della persona con cui si è impegnati a collaborare e costruire un percorso valido di crescita e di ri-affermazione di sé. Il rischio principale dell’uso indiscriminato e sconsiderato della tecnica, può in questo caso coincidere con una configurazione del professionista percepita come eccessivamente invadente e svalutante, dal momento che egli si presenta in termini di un modello esemplare da imitare, e su cui l’altro ha quasi l’obbligo di innestarsi come garanzia di efficacia e di funzionale adattamento. Ne vengono meno i confini con l’altro, dentro un contenitore che invece richiede sufficiente distacco e monitoraggio della situazione in divenire. L’autorivelazione da parte del professionista può essere un’arma a doppio taglio: da una parte può esporsi come esempio di apertura e congruenza, offrendo chiare direzioni e trasmettendo sicurezza, d’altra parte può svalutare l’idea dell’autodeterminazione della persona, perché ne sminuisce il valore propositivo e decisionale, mortificandone la tendenza attualizzante. Ma ciò d’altra parte può accadere specialmente laddove il professionista non abbia completato una rigorosa esplorazione di sé, e non sia in fin dei conti del tutto preparato ad accogliere la diversità senza doverla confrontare alla luce delle proprie coordinate etiche e sistemi personali di significazione.

 

.) Domande

Il dibattito sulle domande è uno dei più nutriti oggetti di discussione quando si parla di tecniche e modalità di intervento secondo la tipologia del counseling. Nell’approccio rogersiano più marcato, e in linea con le aspettative e i paradigmi ideali di tale approccio, si conduce il trattamento secondo uno stile il più possibile aderente ai principi nucleari che sostanziano l’ascolto comprensivo. La priorità attribuita ad elementi quali l’accettazione incondizionata della diversità, l’empatia, la congruenza e l’autenticità nella manifestazione di sé, rimandano alla questione su come procedere nel tentativo di poter evitare o fare ricorso il meno possibile alle domande. Si sono sviluppati anche alcuni approcci che oltre alla riduzione o alla scomparsa delle domande prevedono anche una significativa limitazione di ogni intervento verbale, soprattutto se troppo esteso o sottraente tempo alla genuina espressione del cliente. In realtà, nonostante i fondati e corretti elementi di criticità nei confronti dell’uso delle domande, si può constatare nuovamente che la bontà di tale opzione dipende sempre da come la si maneggia. Insomma, è la dose che fa il veleno, per citare un noto alchimista. È chiaro che l’uso smodato di tale strumento potrebbe trasformarsi e degenerare in una sorta di interrogatorio a una via. Le domande possono costituire da una parte anche una necessità per poter chiarire o approfondire aspetti considerati confusi, mancanti o poco trasparenti e lineari, nella narrazione del cliente. Devono inoltre essere categorizzate e riconosciute in almeno due tipologie: quelle aperte (o circolari), particolarmente adatte a sollecitare dubbi, riflessioni, percorsi ed ipotesi esplorative, dal momento che cominciano con la formula ‘Quale possibile…?’, ‘Come si può…?’, ‘Secondo lei…’, e quelle chiuse (o lineari) che invece possono rivelarsi utili quando occorrono informazioni concise o dati certi, e si aprono con ‘Chi lo ha stabilito?’, ‘È sicuro?’, ‘Quando è successo?’ Ed in questo caso vi è una sola risposta corretta e che serve allo scopo. Le prime, inoltre, possono ulteriormente suddividersi in due sottocategorie quali: le domande aperte informative le domande aperte riflessive. La prima sottotipologia cerca di rimarcare e riordinare gli aspetti connettivi di una narrazione e di un accadimento, scoprendo le relazioni fra gli elementi coinvolti. La seconda sottotipologia si concentra maggiormente su come invece gli elementi interconnessi e reciprocati nella dinamica interdipendente sono colti, significati e vissuti dal soggetto, chiamato perciò ad indagare su aspetti che si pongono oltre i contenuti per abbracciare una visione più impegnata e consapevole di se stessi come agenti artefici e ri-costruttori della propria realtà contestuale di riferimento.

Diventa a questo punto abbastanza innegabile il valore e l’investimento con cui ogni tecnica può essere fruita, purchè adottando contromisure ed accorgimenti denotati da saggezza, preparazione, competenza e da un’autentica propensione verso l’attività di aiuto all’altro da sé, consolidata da un sentito e profondo legame con il mondo scientifico ed esperienziale del counseling, indirizzando verso lo stesso una continua ed interminabile curiosità, sostenuta da un robusto e maturo atteggiamento di sana e feconda criticità.

 

Nuccio Salis

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