Le origini della violenza giovanile

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delinquenza giovanileChiunque abbia avuto l’occasione di riflettere sulla storia e sulla politica, non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani”. Tale affermazione appartiene ad Hannah Arendt, filosofa tedesca autrice del famoso libro “La banalità del male”. A prescindere dalle idee della Arendt, condivisibili o meno, effettivamente la storia dell’umanità è costellata di violenze, delitti e misfatti di vario genere. Delitti compiuti con i più disparati moventi e spesso senza un’apparente motivazione. Si è ucciso ora in nome di Dio, ora in funzione di un potere politico, altre volte per soddisfare il narcisismo patologico di qualche dittatore. Uno dei primi episodi biblici (Genesi 4,1-16) narra dell’omicidio di Abele da parte del fratello Caino. Indipendentemente dal fatto di credere o meno, questo episodio è interessante perché simbolicamente può dirci alcune cose. Caino ed Abele rappresentano due modi di vivere: più egoista il primo, generoso il secondo. Dio apprezza le offerte di Abele ma non quelle di Caino. Quest’ultimo non tollera la frustrazione imposta dal rimprovero e in un impeto di rabbia o accecato dalla gelosia uccide il fratello. Se lo collochiamo nell’attualità, pervasa dal relativismo etico e da una sorta di edonismo collettivo, tale episodio mantiene il suo valore simbolico. Certo le teorie sull’attaccamento in questo caso avrebbero poco senso visto che i genitori di Caino, Adamo ed Eva, non erano nati ma creati già adulti. La trasmissione transgenerazionale dei modelli di attaccamento non era quindi possibile. Ne sarebbe possibile attribuire la genesi violenta alla società in cui vivevano dato che non ve ne era alcuna. Quindi è gioco forza collocare l’origine della violenza nella singola persona. Da questo punto di vista avrebbe ragione la Arendt.  Allora viene da chiedersi cosa avvenga dentro una persona orientandola a scelte di violenza. Un criminale adulto è quasi sempre stato un criminale o un deviante in età giovanile.

 

I dati elaborati nel giugno 2009 dal Dipartimento della Giustizia Minorile riportano che, dal 2000 al 2007, la media annua di minori denunciati alle procure della Repubblica c/o i Tribunali dei Minori è pari a 33.261. Di questi  il 17% sono minori < a 14 anni, il 30% hanno tra i 14-15 anni e il 53% sono tra 16-17 anni. L’83% dei reati è compiuto da minori maschi. Per quanto attiene alla tipologia dei reati nel 2007, il 53,5 % ha riguardato reati contro il patrimonio (rapine,estorsioni,furti,ricettazione...); il 26,2 % contro la persona (omicidi, percosse, lesioni personali, risse, violenze sessuali, prostituzione); il 12,8 % contro l’incolumità, l’economia, la fede pubblica (violazione legge sugli stupefacenti, falso in atti e persone); il 4,8% contro lo Stato, le istituzioni e l’ordine pubblico, lo 0,5 % contro la famiglia, la moralità e il buon costume e il 2,2% altri reati. Spesso si opera confusione tra devianza e criminalità. Sono due aspetti distinti, anche se il primo può indubbiamente esitare nel secondo. Col termine devianza, si considera un comportamento che ha violato le aspettative di una data norma sociale che abbraccia tutto ciò che viene genericamente definito “normalità”. E’ chiaro che tale concettualizzazione non può che dipendere dall’ambiente sociale e culturale che adotta una norma sociale. C’è un aspetto che non va sottovalutato: la norma sociale è costruita ed imposta dal mondo adulto e, facendo riferimento allo sviluppo psicologico del minore che tende in qualche modo a prendere le distanze dagli adulti, spesso la devianza è usata strumentalmente ai fini della definizione di una propria identità. Questo ci serve, non per giustificare comportamenti discutibili, ma in qualche modo per comprendere e tentare di coinvolgere i giovani nella costruzione di una norma sociale e per introdurre progettualità ed interventi a valenza preventiva.Il termine criminalità o delinquenza fa invece riferimento alla norma giuridica e conseguentemente implica i concetti di imputabilità e responsabilità giudiziale.

Le motivazioni all’origine di una condotta criminale sono state oggetto di numerosi  studi e di teorie psicosociologiche. Le teorie lombrosiane sui fenotipi delinquenziali oggi fanno un po’ sorridere ma certamente un aspetto biologico non è da escludersi a priori. Le radici biologiche di un comportamento violento fanno riferimento alla genetica, all’assetto ormonale,  all’esposizione prenatale a sostanze, alla presenza di lesioni neurologiche. La serotonina inibisce il comportamento alimentare e l’aggressività. La diminuzione dell’attività serotoninergica disinibisce tali  comportamenti risultando in un aumento di aggressività e facilitazione del passaggio all’atto. Alcune ricerce hanno messo in evidenza che nei suicidi violenti e nelle persone con comportamento aggressivo i livelli di acido 5-idrossindolacetico, metabolita della serotonina nel liquor, sono più bassi rispetto ai controlli.

La dopamina, trasmettitore  fondamentale dei circuiti  del sistema limbico, implicato nei processi di apprendimento e memoria nonchè delle emozioni, sembra possedere un effetto induttivo dell’aggressività. E’ da tener presente tuttavia il ruolo della dopamina nel circuito motivazionale. In definitiva  riveste un ruolo fondamentale nell’integrazione tra motivazioni, emozioni e comportamento aggressivo. Il sistema adrenergico ha un effetto stimolante l’aggressività. Chi fa uso di sostanze come la cocaina o le amfetamine ha generalmente un atteggiamento più aggressivo. L’amigdala, localizzata nel lobo temporale ed appartenente al circuito limbico, ha un ruolo strategico nella modulazione dell’aggressività. L’asportazione dell’amigdala riduce il comportamento aggressivo. Il lobo orbito-frontale, strettamente connesso ai nuclei amigdaloidei, regola la pianificazione del comportamento. Persone con lesioni orbito-frontali o con esiti chirurgici su tali aree manifestano una maggiore impulsività ed aggressività. Il testosterone è notoriamente associato ad una maggiore tendenza all’aggressività. Quando la corteccia prefrontale subisce un danneggiamento in età infantile, il cervello non è in grado di dominare gli impulsi. Ciò sarebbe all’origine di quella che è definita personalità antisociale, caratterizzata da impulsività, aggressività, irritabilità e mancanza di empatia, carenza di giudizio. Il tutto ci riporta ovviamente ai modelli di attaccamento che plasmano, sulla base dell’esperienza, le interconnessioni neuronali. Il che significa che non si nasce asociali ma lo si diventa. Pur in presenza di tali determinanti biologiche i fattori ambientali giocano infatti un ruolo chiave nell’amplificarle o, al contrario, nel contenerle. I fattori che possono prevedere una evoluzione antisociale fanno riferimento essenzialmente alla famiglia, all’ambiente socioeconomico, al gruppo dei pari. I tre aspetti sono ovviamente embricati e spesso hanno un effetto moltiplicatore del rischio. Non è la stessa cosa vivere nella periferia degradata di una grande metropoli piuttosto che nel centro urbano. Pensiamo ad esempio a quanto accaduto nelle banlieues parigine tempo addietro. Analizziamo la problematica relativa alla famiglia. Concettualmente la famiglia è un fattore protettivo, quando coesa ed accuditiva nonchè capace di consentire e rispettare l’impegnativo lavoro d’identità dei figli. Ma può tradursi in fattore di rischio nel momento in cui fa ricorso al maltrattamento, è conflittuale, è orientata alla tolleranza all’uso di sostanze, non esercita un adeguato controllo sui figli e sulle loro amicizie, non da importanza allo studio ed all’arricchimento culturale. L’adeguato controllo sui figli non è un aspetto di poco conto, malgrado molti tendano a banalizzarlo. A maggior ragione considerando quanto il gruppo dei pari sia fondamentale per lo sviluppo psicosociale di un adolescente: è il luogo di confronto, di differenziazione e di sostegno narcisistico. Il gruppo contribuisce a costruire l’identità del singolo proprio nel momento in cui c’è la tendenza alla disentificazione dai genitori. Un binomio fisiologicamente necessario ma potenzialmente  pericoloso. Pericoloso se il gruppoè orientato su ideali distruttivi o violenti. Il conformismo di gruppo fa il resto. L’esempio recente delle violenze tra i gruppi Emo e Truzzi a Roma è significativo. I genitori dovrebbero interessarsi  maggiormente delle compagnie frequentate dai propri figli. Ancor più se gli amici dei figli sono dediti all’uso di sostanze oppure hanno un comportamento antisociale (fughe da scuola, piccoli furti, nessuna propensione allo studio,aggressività, atti di bullismo). Controllo che a costo di apparire poco democratici, dovrebbe arrivare anche al divieto. Se un margine di rischio esiste in una famiglia “sana”, figuriamoci in una famiglia dove si è cresciuti convivendo quotidianamente con la violenza.  Leggendo le biografie dei più spietati serial killer troviamo costantemente dei genitori maltrattanti. Alice Miller, psicoanalista svizzera, affermò che “Dietro ogni bambino maltrattato si nasconde un potenziale futuro sterminatore”. Se analizziamo le biografia di Adolf Hitler e di Stalin ne abbiamo conferma. Il tessuto sociale a cui appartengono le famiglie rappresenta un altro fattore determinante. Un ambiente degradato, ove si vive ai limiti della legalità e dove spesso vige la legge del più forte e della sopraffazione, indirizza i giovani alla devianza, soprattutto laddove la società è orientata al consumismo materiale. A quel punto rubare per apparire può sembrare “normale” se cede o non si è strutturato un sistema valoriale.

Per la verità ciò avviene anche negli ambienti definiti borghesi. E’ notizia recente di adolescenti che esibivano il loro corpo in cambio di denaro per poter ricaricare il cellulare. Se osserviamo attentamente questi episodi probabilmente dovremmo trarre la conclusione che un adolescente violento o deviante è più vittima che carnefice. Vittima di un sistema sociale centrato sul consumo. Il consumismo sfrenato, il desiderio di possedere un oggetto feticcio diventa un’arma quando posti di fronte a coloro che non possiedono strumenti adeguati per affrontarlo. Si veicola l’identificazione all’oggetto. I gruppi sono sempre esistiti ma, diversamente dal passato, dove l’identificazione nel gruppo (espressa concretamente nei vari tipi di look: paninari, metallari, punk, raver, punkabbestia ecc...) era simbolo di rottura col mondo adulto, oggi pare che più che una rottura si tratti di espressione di rabbia ed aggressività nei confronti di un sistema che non concede spazi alla spiritualità, alla possibilità di autorealizzazione. Aggressività anche diretta su di sé e che in alcuni casi può esitare in uno sfogo che paradossalmente tutela dalla violenza. Piercing, tagli sul corpo sono ampiamente diffusi tra gli adolescenti, quasi a voler ricevere su di sé il dolore del mondo, ad esorcizzare in qualche modo la violenza della società in modo da rendersi salvatori del mondo stesso. Al di là del gusto estetico, a mio parere, non vanno dunque  visti in modo negativo. E’ la caccia al diverso per il colore della pelle, al nemico della squadra avversaria, al membro di un altro gruppo, che sono preoccupanti. E’ indice che l’identità si sta strutturando sulla prevaricazione, sulla legge del più forte. L’idea di suscitare la paura negli altri rende onnipotenti e incrementa il narcisismo adolescenziale. Sembrano mancare  strumenti contentivi della violenza e non mi riferisco alla legislazione o all’attività di vigilanza sul territorio. La violenza si combatte con i valori non con i corsi a scuola contro il bullismo o con i tornelli allo stadio. I valori nascono in primo luogo in famiglia ma purtroppo, come ripetuto in altre occasioni, non riceve un’adeguata valorizzazione nella società odierna. Eppure è sempre stato l’asse portante di qualunque struttura sociale. La protezione della famiglia da parte dello stato è la prima operazione preventiva nei confronti della violenza. Protezione di natura sociale ed economica. Va trasmessa la cultura della vita e non quella della morte. Cultura che pervade anche il gioco. I videogiochi più diffusi hanno contenuti violenti. Alcune ricerche farebbero pensare ad un incremento dell’aggressività nei forti consumatori di videogames. Questo sarebbe forse l’aspetto meno importante, ma ciò che al contrario può divenire devastante è la confusione tra realtà e virtualità. I forti consumatori tendono ad interpretare la realtà allo stesso modo con cui giocano con la play station. Alcuni Stati hanno già vietato la vendita ai minori dei games più violenti. Certo, ci sono le copie pirata ma si traccia almeno una demarcazione. Molti delitti di adolescenti paiono senza movente. Che movente avevano i due ragazzi di Novi Ligure per uccidere in modo spietato madre e figlio? E le ragazze di Chiavenna? Viene quasi naturale pensare alla follia ma è una risposta che ha il solo scopo di sentirci più rassicurati. In realtà dovremmo prendere atto che tra i moventi plausibili vi sia la mancanza di valori veri, in primo luogo il valore della sacralità della vita, il valore del rispetto e della solidarietà. Nel modello sociale attuale è difficile trovare riferimenti valoriali certi, mentre è facile imbattersi quotidianamente nel relativismo etico di stampo utilitarista. La violenza di oggi è figlia anche di tale relativismo che porta i giovani, non a discernere tra verità e pseudorealtà, ma tra mille vuote pseudorealtà spesso autoreferenziali. In tale modello si perdono spesso intere famiglie, gruppi sociali, le scuole. Un modello sociale fondato su valori veri è protettivo. I delitti son sempre esistiti ma non c’è soluzione nell’anniettamento dei “cattivi”. I fattori protettivi ci sono eccome. Bisogna saperli coltivare. Il difficile sta proprio qui: indurre gli adolescenti a porsi domande di senso in una comunità che viaggia al contrario..

Un cenno a parte merita il bullismo, tema attualmente molto dibattuto. Il bullismo non è esclusivo dell’ambiente scolastico e generalmente tende ad attenuarsi con il crescere dell’età. Ciò non toglie che sia meritevole di un’attenzione particolare in quanto si è constatato che i ragazzi che hanno atteggiamenti di prepotenza in età scolare, hanno una probabilità 3-4 volte superiore di manifestare comportamenti antisociali e devianti in età adulta. Le famiglie che “allevano” i bulli sono generalmente famiglie nelle quali non c’è un sistema educativo adeguato: troppo permissivo o al contrario autoritario. Le famiglie delle vittime al contrario hanno un atteggiamento iperprotettivo che certamente non facilita le capacità reattive di opposizione ai soprusi. Effettivamente le vittime dei bulli hanno generalmente atteggiamenti di sottomissione, passività e sono tendenzialmente ansiose. Esiste pure una categoria di vittime provocatrici dall’atteggiamento iperreattivo che possono a loro volta divenire carnefici di altri. Non andiamo oltre. Sinteticamente dobbiamo pensare alla persona adolescente nella sua unicità e globalità. Dividere in scomparti chi, diviso non è, rappresenta  un non senso. La persona è un’unicità che va studiata con uno spirito interazionista e tutelata  sin dalla nascita, anzi ancor prima di nascere. La violenza comincia ancor prima di nascere....

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