Crescere nella divergenza. Il valore emancipativo del conflitto

Inviato da Nuccio Salis

conflitto di_coppiaL’espressione “conflitto” può indurre molto facilmente ad evocare significati avvertiti come spiacevoli. Esso suggerisce quasi sempre immagini di guerre e battaglie, richiama alla contrapposizione, all’inimicizia e al disaccordo fra le parti. D’altronde, le ragioni di tali suggestioni semantiche disdicevoli, sembrano dipendere molto dal modo con cui percepiamo e viviamo socialmente il conflitto, sia nelle sue cause che nelle sue conseguenze. Ammettiamolo, la nostra è una società competitiva che basa proprio sul conflitto l’ordine stesso della sua organizzazione economica e socio-politica. Le divergenze di valore, interessi, ideali, modelli di vita, fra individui o nuclei sociali, sono spesso e volentieri occasione di scontro e disprezzo reciproco fra le parti in gioco. La ragione principale potrebbe essere addotta a come è concepita la struttura piramidale dell’organizzazione sociale: ci sono dominati e dominatori e, pertanto, qualunque tentativo, seppur di mediazione, diretto a ridimensionare la bilancia di potere decisionale fra le parti in gioco, scuote l’intero ingranaggio, per cui le parti forti cercano con ogni mezzo di far passare come irrilevanti e sediziose le istanze dei più deboli.

 

Il tema del conflitto, come è evidente, assume inevitabilmente connotazioni di natura politica e sociologica. Esso non può essere esulato, infatti, da un discorso sul potere e sui rapporti di subordinazione e di dipendenza del più debole nei confronti del più forte.

L’abitudine che ci è stata indotta, fin da molto piccoli, è quella di vedere l’approssimarsi di un conflitto sempre come una minaccia incombente da rimuovere e da evitare, e la sua soluzione come la sconfitta di un nemico intimidatorio da distruggere. Nella cultura occidentale, in pratica, l’accezione di conflitto sembra avere soltanto a che fare con pensieri di morte e di catastrofe. C’è sempre un avversario da abbattere, da sconfiggere, una lotta da superare senza concertazioni o vie di mezzo, poiché ne va di mezzo la sopravvivenza, la conservazione del proprio status socio-econonomico, la difesa del proprio posto di potere, l’arrampicata alla mobilitazione sociale e tutto ciò che nel macrosistema produce separazione.

Nella nostra società, il conflitto è funzionale alla conservazione, è strumento sopraffino di divisione della collettività, secondo il vecchio ma intramontabile motto “dividi et impera”; machiavellica strategia mediante la quale i signori del mondo tengono al laccio miliardi di individui, al giogo dei loro affari ed intrighi. Se la via di uscita attraverso cui sciogliere il conflitto, continua a consistere nella soluzione unilaterale secondo la quale il conflitto medesimo si conclude dal momento in cui emerge un vincitore e, com’è ovvio, un perdente, allora l’accezione negativa del vocabolo in questione continuerà a permanere dentro una tradizione di concetti che non ci aiuterà a compiere dei passi verso una vera evoluzione interiore e in merito alla qualità della gestione delle relazioni interpersonali.

Eppure, da tempo, le scienze umanistiche ci sono venute incontro nel tentativo di esporci una visione del conflitto diversa rispetto a come è comunemente inteso. Esso, infatti, viene considerato da più parti come un potenziale di crescita personale e di conseguenza come straordinario capitale da investire nell’ambito delle relazioni umane. Il conflitto sarebbe perciò un evento naturale, addirittura auspicabile, che costituirebbe una fase obbligata nel percorso di strutturazione e consolidamento di un gruppo e dei rapporti che i vari membri costruiscono reciprocamente. Il conflitto sarebbe dunque portatore di istanze, bisogni e motivazioni che, al di la delle forme espressive mediante cui possono essere espressi, rappresenta una risorsa comunicativa in grado di allacciare e concatenare le diversità in un rapporto dialettico, costringendole a confrontarsi. Il conflitto è dunque potenzialmente conduttore di esperienze di cambiamento significativo ed arricchente fra le varie parti coinvolte, poiché dallo stesso emergono visioni di mondo, vissuti, direzioni di senso e sistemi valoriali che possono vicendevolmente influenzarsi, contaminarsi, aprirsi verso nuove prospettive etiche ed esistenziali. In pratica, il conflitto è un fenomeno sociale che genera il caos per rigerenerare un ordine. Il conflitto è un’esperienza dinamica, che rende conto della trasmutabilità dei processi relazionali della vita. Il vero antidoto contro l’abitudine, la simbiosi e la monotonia.

Ecco che allora, il conflitto, assunto secondo questa linea prospettica di significazione, non costituisce più il pericolo da evitare, il mostro assassino da cui rifuggire, la peste da ricacciare indietro con la massima sollecitudine. Ora, il conflitto può essere rinquadrato dentro una possibile cassetta di strumenti a disposizione per capire meglio la realtà, gestirla, discernerla, ricavarne qualità di vita.

Naturalmente, tutto questo a patto che si dispongano di opportune attrezzature e di un deciso approccio alternativo, in merito al valore del conflitto. Dunque, assodata la possibilità di guardare al conflitto come al luogo esplorativo di se e del rapporto con gli altri, disponiamo di un modello esistenziale da proporre all’interno di un eventuale percorso di training sulla gestione dei conflitti. Possiamo insegnare, per esempio, che esiste l’opzione di osservare il fenomeno del conflitto come una pratica da cui ricavare importanti coordinate per la gestione efficace dei rapporti, siano essi riconducibili all’interessante piano formale della produttività e del rendimento per obiettivi condivisi, oppure alle relazioni interpersonali informali caratterizzate da scambio affettivo, coinvolgimento emozionale e intimità. Questo è il primo passo da compiere, a mio irrilevante avviso, in quanto in tal modo ciascun individuo si può avvicinare ad ogni meta che egli si propone, in quanto curerà la rete delle sue relazioni secondo un approccio che gli consentirà di uscire da una limitante visione del conflitto come fenomeno che determina per forza la premiazione di un vincitore e l’esclusione di un perdente. In breve, il modello che sostituirà una concezione del conflitto come rapporti di forza sarà quello di considerare vincenti entrambe le parti in gioco. Tale atteggiamento, decisamente costruttivo, maturo e preparato a farsi carico di responsabilità concrete e partecipative e di abilità per la guida di processi di concertazione, costituisce un viatico imprescindibile per raggiungere l’accordo, l’intesa e la sintonia fra le parti. Tale abito mentale, propositivo di soluzioni produttive, è foriero di nuovi scenari di pace e di concordia fra coloro che sono coinvolti nel rapporto di confronto. Esso si propone, dunque, in alternativa ai modelli nei quali si conferma sempre un perdente. Li passerò in rassegna:

a). Modello “I win YOU lose” (Dominio): Il conflitto si conclude quando una delle parti cede al potere schiacciante e pervasivo della controparte, che con forza soverchiante prevarica sull’alterità, messa di fatto in condizioni di subordinazione e privata della forza di reagire. È il corrispettivo della posizione esistenziale Io sono OK Tu non sei OK, definito dallo schema dell’Ok Corral di Frank Ernst, in analisi transazionale.

b). Modello “I lose YOU win” (Sottomissione): È il corrispettivo speculare del precedente. Si determina quando il soggetto in prima persona, invece di sostare nella parte del Persecutore, passa o si propone già inizialmente nel ruolo della Vittima. Concede potere ed accetta la dipendenza, per ragioni che ben si possono ricondurre alla psicologia della Vittima. È il corrispettivo della posizione esistenziale Io non sono OK Tu sei OK.

Se questi modelli si incontrano, potrebbero facilmente entrare in una danza sincronica a carattere complementare, suffragando il loro ruolo sociale ed agendolo all’interno di un rapporto patologico a possibile valenza simbiotica.

c). Modello “I lose YOU lose” (Evitamento): È la posizione assunta da chi preferisce non colludere mai e in alcun modo con l’altro, di chi aggira l’ostacolo per evitare l’impatto, all’insano prezzo di recidere dalla propria esperienza la maturazione di competenze di confronto ed ipotesi di crescita. È l’incontro di due Bambini Adattati che svalutano o negano eventuali divergenze da chiarire ed affrontare. È il correlativo della posizione esistenziale Io non sono OK Tu non sei OK.

d). Modello “I win YOU win” (Negoziazione): È l’ipotesi vincente di avere due vincitori, dotati di volontà e strumenti di concertazione ed avvicinamento, che cercano di sviluppare processi creativi di problem-solving, valorizzando le loro differenze, sotto qualunque aspetto. È il correlativo della posizione esistenziale Io sono OK Tu sei OK.

È soltanto questo modello che può darci la possibilità, una volta esportato nelle relazioni a carattere macrosociale, di espletare prototipi di relazioni umane ed istituzionali di vicendevole miglioramento fra le parti, con ciascuna propensa ad ascoltare ed accogliere le ragioni della controparte, vivendo il conflitto come risorsa naturale e produttiva dell’esperienza dell’incontro. Tradotto su un piano di rapporti vissuti fra gruppi, allargati a contesti di confronto fra culture e comunità diverse, l’abilità della negoziazione diventa un micidiale e validissimo strumento di pace, operoso ed auspicabile per la sua potenzialità. Curare questi aspetti diventa sempre più di straordinaria ed eccezionale importanza, ed avvalersi di condotte e capacità per poterlo finanche insegnare ed immettere nella società come valore altamente significativo, è il compito di ogni counselor, che in quest’ottica si fa portatore di pace, con parole ed opere che lo qualificano come una professione da legittimare con sempre maggiore rilievo.

Potrebbero interessarti ...