Educazione è...un aquilone ovvero l’educazione ...in vacanza


aquiloneEducazione è...un aquilone

ovvero l’educazione ...in vacanza   

 

Caldissima giornata di un afoso fine agosto 2011 su una spiaggia assolata a sud del promontorio del Conero,  popolata da famiglie con bimbi di tutte le età schierati sul bagnasciuga alla ricerca di un po’ di refrigerio in acqua.

Sono già quasi le undici, pochi genitori hanno ripreso la strada di casa con i bimbi più piccoli “straniti” o semiaddormentati nel minuscolo e però maneggevolissimo passeggino, i più hanno scelto per il riposino di metà mattina del loro piccolo il fresco dell’ombrellone.

Da qualche minuto, come ogni tarda mattinata, quasi risposta ad un silenzioso ed efficace tam tam, è un via vai, un flusso quasi ininterrotto di venditori di asciugamani, borse, bijotteria, pareo, ombrelli, tovaglie e insomma oggetti tra i più disparati, da quelli utili a chi sta gustando la stagione balneare nella sua casa al mare a quelli, come giubbotti antivento, che anticipando il clima autunnale risultano invitanti già solo per la sensazione che comunicano di recuperata frescura.

 

Qualche anno fa erano i “vu cumpra’”, oggi semplicemente sono gli “africani”, “indiani”, i “cinesi” a seconda del luogo di origine che leggiamo o crediamo di leggere nelle loro sembianze. Passano tra gli ombrelloni con la loro merce per lo più silenziosi, raramente accennando un invito e solo qualche volta chiedendo almeno un’elemosina per poter mangiare. Se fosse questo il nostro obiettivo, potremmo stilare la tipologia dei diversi atteggiamenti, riuscendo ad anticipare con gesti e parole appropriate le loro avances, ma questa mia breve riflessione è rivolta ad alcuni di loro in particolare, a quelli che propongono l’acquisto di aquiloni.

 

Passando sul bagnasciuga più di un venditore, talvolta tre -uno dietro l’altro-, espongono in bella vista la loro merce che vola e mulinella nell’aria: due - tre serie di sei, otto aquiloni coloratissimi che si agitano in volo più per l’abilità del manovratore che non per le folate di venticello (...che non ci sono, in verità) appesi ad un unico filo, a distanza di una decina di metri l’uno dall’altro. I bimbi sospendono un attimo i loro giochi per osservare, i più piccoli ne sembrano rapiti e li indicano con la mano all’adulto vicino a loro.

Non è lo spettacolo fascinoso di un tempo, quando l’aquilone era il risultato di una lunga trattativa (che richiedeva promesse e qualche altra piccola rinuncia) con i genitori, per l’acquisto della carta, per la ricerca della canna di sostegno, per la colla con cui chiudere e intrecciare gli anelli della lunga coda e  le ali laterali, la fune per legarlo (mai lunga abbastanza per permettere al nostro “rombo” di decollare) ed era una scommessa vera e propria con il gruppo di amici quella di...riuscire a farlo volare.

 

Oggi ho di fronte a me coloratissimi aquiloni in plastica in grado di veleggiare, gonfiarsi, magari impennarsi, senza strapparsi (i nostri avevano in poco tempo più toppe che parti integre) hanno forme diverse e diverse misure, li passo in rassegna uno ad uno: c’è lo smile, l’arcobaleno della pace, due tre diverse coloratissime quanto improbabili farfalle, l’aquila, il pesce tropicale dalle lunghissime pinne sfrangiate, e un aereo certamente militare, lo si riconosce dai simboli che compaiono sulle ali e poi un altro aereo ancora militare che svolazza ad una distanza maggiore rispetto agli altri, un caccia, in veste mimetica.

 

Mi sorprendo a riflettere su quale mente geniale abbia suggerito una simile idea, e chi mai abbia potuto realizzarla, mi auguro che le preferenze dei bambini ...e genitori vadano ai primi della fila, ma non faccio neppure in tempo a formulare il pensiero che l’aquilone più bellicoso del gruppo è già venduto: gli altri continuano il loro volo rasente sulla spiaggia verso Nord e quello da guerra è qui davanti a me manovrato da un papà. Il bimbo di sette-otto anni osserva e non sembra entusiasta quanto il papà (potrebbe anche darsi, dal momento che non vedo il suo volto, che sia imbronciato perché ancora non lo ha nelle sue mani). È il papà che gli parla e mima i gesti che lui il ragazzino dovrà compiere: forti strattonate verso destra e verso sinistra per far scendere in picchiata il bombardiere. Qualche minuto di istruzioni e ora è il papà ad osservare: il ragazzino mantiene un atteggiamento incerto, poco convinto al punto che l’aquilone si sta pericolosamente abbassando, poi comincia a strattonare e ogni volta con rinnovata forza. Il suo volto non è sorridente, direi piuttosto che è accigliato e dopo dieci minuti...annoiato (fortuna!). L’aquilone non vola più. È poggiato a terra, vicino ad altri residui di giochi e giocattoli, ignorato già.

 

E così  un’opportunità educativa importante come l’aquilone è andata irrimediabilmente persa: il volo, quell’eterno fascinoso sogno dell’uomo di poter volare, è stato vissuto dal ragazzino come una strategia di attacco, di aggressione in un contesto bellico e il rapporto con il papà non è stato quel gioco a immaginare a creare situazioni fantastiche che poteva essere, bensì un “ti insegno io come devi fare per...” .

 

Quasi mi sembra di sentire una immediata obiezione: ma, in fondo, si è in vacanza! Tutti sono in vacanza, i bimbi e i loro genitori se sono qui al mare e non è domenica. Appunto, dico io, proprio perché si è in vacanza, proviamo a semplificare, non solo comprando il già bell’è pronto, o dormendo di più al mattino, ...il punto è, credo, che da tempo l’idea stessa di educare  sia andata in vacanza e i genitori non impegnati in un progetto educativo si ritrovano succubi dei loro figli, si sfiniscono dietro le volubili richieste – e non potrebbe che essere così – dei loro rampolli, nella convinzione che mai, dico mai, si possa dire un NO! fermo e risoluto, beninteso ripettoso di norme, poche e chiare.

 

Sono gli adulti spesso che avvertono l’educazione come sinonimo di costrizione e dunque, come desiderano per loro stessi la libertà, così la credono essenziale per i loro figli, omettendo di chiedersi quale sia il significato di libertà, quando, dove, in quali condizioni è possibile sentirsi liberi –adulti o piccini-. Libertà da chi, da cosa? Forse si è succubi di quell’alone di totale assenza di vincoli e limiti che la parola libertà trasmette; è una parola potente ma se vogliamo viverla non c’è altro modo che concretizzarla in comportamenti, situazioni, obiettivi...ben precisi e circostanziati proprio perché non restino  pura utopia.

 

A parlare di progetti educativi ci si sente, come dire, un po’ fuori posto, come se si chiedesse di limitare le proprie aspirazioni, i propri desideri più intimi e non è facile leggere negli occhi degli altri, se osiamo parlarne, un chiaro cenno di dissenso come dire: <ma perché mi vuoi privare della possibilità di fare ciò che voglio?>

Eh già! “fare ciò che voglio”... e magari non ci siamo dati neppure la preoccupazione di chiarircelo ciò che vogliamo. Sarà per questo che si finisce per volere TUTTO?

Ma quanti percorsi strategico-magici ci si dovrà inventare come educatori perché possa essere interiorizzato correttamente, indelebilmente dal giovane il sentimento di una pacifica disposizione alla conciliazione, all’ascolto, alla condivisione, alla cooperazione se già da ragazzino si è abituato, nella distrazione degli adulti che lo circondano, ad una soglia della violenza assai più alta di quanto si possa immaginare?

 

Il saggio di Popper Cattiva maestra televisione sembra quasi la fiaba di un mondo lontano in cui, volendolo – e già pochi lo volevano – si poteva realmente proteggere i bambini dall’over dose di violenza che la TV diffondeva. Scarsa attenzione allora (i primi anni Novanta...del secolo scorso) e assenza convinta di attenzione oggi per princìpi educativi, fondati sulla responsabilità dell’educatore (genitore, insegnante che sia) come il “tenere e contenere il bambino”. Quanta fatica! Meglio assecondare!, ma è condizione solo apparentemente meno faticosa.

 

Essere educatori è una vera impresa, gli errori possibili sono, come sappiamo, infiniti arginabili da sensibilità non comune, disponibilità ad accogliere il mondo dell’altro, competenza, flessibilità...e non basterebbe un elenco di una intera pagina, ma almeno vogliamo usare il buon senso? Vogliamo mantenere ben chiaro il limite tra educatore ed educando? Dire un no al proprio figlio non significa usare su di lui autorità, non è sinonimo di prevaricazione delle sue inclinazioni: i “no!” significano soprattutto per COME vengono pronunciati, per il progetto educativo a cui rimandano, per il senso di responsabilità che l’educatore-genitore ad ogni istante avverte gravare sulle sue scelte.

 

Torniamo alla spiaggia: tutt’intorno è un modesto e piuttosto confortevole vociare di bimbi, ragazzi e morbide conversazioni tra adulti che si scambiano convenevoli piacevoli e poco impegnativi, evitando accortamente argomenti difficili e spinosi, a cui qualche anno fa  invece si appassionavano durante interminabili tornei di partite a carte. Ora nessuna partita a carte, nessuna lamentela per le innumerevoli tensioni tra generazioni, nessun riferimento alla situazione politica, meno che mai alla crisi, bensì resoconti di previsioni del tempo, racconti di gite nei dintorni, di cene luculliane divorate in spiaggia o in qualche nuovo locale che va proprio sperimentato...e naturalmente tante tante suonerie di cellulari (tutte così simili da allertare ad ogni squillo almeno gli astanti di tre ombrelloni, come da gag e vignette abusate) e telefonate sorridenti.

 

Si percepisce con molta chiarezza che la prima regola generale e inflessibile è la ricerca della pausa da tutto, in definitiva dalla realtà: ho come la sensazione che si stia in apnea e la cosa non mi appare positiva, piuttosto una fuga, un andare via da ogni azione gesto situazione sensazione che riporti alla realtà quotidiana.

MA...

la vacanza è assentarsi dalla realtà per gli adulti maturi-attempati e nonni.

 

Per le coppie giovani con bimbi la vacanza è ben altro: a riportarle alla concretezza ci pensano i più piccoli a cui i genitori si dedicano con cure amorevoli, dedizione apprensiva, ansiosa, così singolare da farsi schiavi ad ogni istante del frugoletto, anche senza  ragionevole motivazione: un segno di insofferenza, un accenno di pianto sono sufficienti a mettere in azione tutto il repertorio di pronto intervento, dal biberon con acqua al succhio salva-situazioni (ma non sempre), al bagno nella vaschetta vicino a mamma e papà, alla passeggiatina in braccio prima a mamma poi a papà , poi alla nonna, ma tant’è il piccolo involontario tiranno accusa semplicemente –come ogni altro essere umano qui e ora- un senso di stanchezza per il caldo e l’afa che nel profondo della carrozzina dovrebbe proprio essere insopportabile. La soluzione più ovvia è lì a portata di mano, ma non la si vede o forse la si considera una costrizione: andare a casa prima che il solleone infierisca o dirottare dalla spiaggia verso i giardini.

 

Ossimoro/paradosso: in assenza di progettualità, in costante e ansiosa rincorsa della libertà è ormai costume diffuso dei genitori dedicare innumerevoli cure ai bambini, persino oltre il limite delle sue reali necessità, e (per?) mantenere inalterate le proprie abitudini di adulti, perché è così che ci si sente liberi anche se ci sono ora i bimbi. Liberi di...andare al mare, di restare in spiaggia per il pranzo e fino a pomeriggio inoltrato, a sera in pizzeria, al ristorante, o sul lungomare in tarda serata con gli amici, come PRIMA, tanto il piccolo o la piccola può tranquillamente dormire sul passeggino.

 

E  se ci sono fratellini più grandi di sei, otto, dieci anni? Loro sono la evidente riprova che uscire al seguito degli adulti li diverte, certo un po’ si stancano a volte, ma le risorse ai genitori non mancano: se hai pazienza se fai il buono se stai zitto e mi lasci parlare con il mio amico, poi papà (o mamma: par condicio) ti compra il gelato, ti fa fare un giro sulla giostra, ti compra...ti concede...ti permette...e via di seguito.

 

Un ben tornati se siete stati in vacanza o un ben ritrovati a tutti da

Giancarla Mandozzi

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