La religiosità di una persona è spesso ritenuta una questione personale, da escludere in qualsiasi forma di aiuto terapeutico e non. Questa idea "laica" non è condivisibile: non si tratta di discutere di tematiche teologiche all'interno della relazione d'aiuto ma di essere maieuti di una potenziale risorsa. I contenuti teologici non sono certo pertinenza di un counselor. Non condivido quanto sosteneva Freud che riteneva che chi si poneva il problema del significato fosse da ritenersi malato. La religiosità non solo ha la stessa dignità di qualsiasi altra risorsa ma ci può orientare nell'esperienza di significato di una persona.
Diverso sarebbe se il sentimento religioso fosse vissuto in modo dogmatico ed acritico perché oltre a chiudere lo spazio ad altre possibili risorse rappresenterebbe di per sé un problema. In questo caso la religiosità non è riflessione, non è meditazione ma adeguamento a schemi e precetti vissuti come dovere assoluto. E' una religiosità priva di gioia, fanatica e che può aprire la strada a comportamenti distruttivi.
Al contrario preghiera e meditazione, come dimostrano diverse review, rappresentano un fattore protettivo nei confronti della malattia mentale. La meditazione gioca un ruolo fondamentale nel ridurre la risposta dell'asse HPA nello stress e predispone ad un incremento dell'attività delle cellule Natural Killer (NK) implicate nella risposta antitumorale. Non avrebbe dunque alcun senso privare una persona di tale risorsa. Un invito a meditare o pregare può essere anche un'arma a disposizione del counselor. Come ogni altra "arma" va utilizzata con criterio, collocandola all'interno della storia di una persona, del suo orizzonte di significato.
Non si deve imporre ma nemmeno dimenticare.
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