Le variabili che condizionano la comunicazione interpersonale sono molteplici e di varia natura.
Emozioni, convinzioni, pregiudizi, idee, sensazioni, motivazioni ed aspettative orientano le nostre relazioni in modo consapevole o inconsapevole, volontario oppure involontario. Gli effetti di questo evento possono favorire i rapporti o, al contrario, indebolirli.
Tra i fattori che ci avvicinano o allontanano ai nostri obiettivi relazionali alcuni, però, sono di natura prevalentemente linguistica. Modi di dire, semplici parole e segni non verbali, frutto di abitudini o disinformazione che a volte producono nella relazione un risultato del tutto inaspettato e, spesso, non voluto.
Tra queste modalità improduttive spicca il porre domande cominciando con “ Perché … ? “. Ci riferiamo in particolar modo a quelle situazioni in cui siamo impegnati ad ascoltare l’amico o il partner oppure il familiare che ci confidano un loro disagio e chiedono consigli. O, ancora, il collega che ci espone una sua difficoltà nel lavoro. Si tratta, insomma, di situazioni che fanno parte della vita quotidiana in cui qualcuno ci chiede, direttamente o indirettamente, aiuto e conforto.
In tali circostanze il nostro interlocutore vive, quale origine o effetto del disagio, una profonda confusione. In quel momento, proprio per la sua condizione emotiva, non è in grado di osservare i fatti – di origine interiore o esteriore – da una prospettiva nuova che lo conduca alla consapevolezza ed al superamento dell’impasse.
A questo punto, perciò, proprio per la delicatezza del momento, si pone per chi ascolta l’obbligo non solo di una accurata gestione dei propri vissuti interiori, affinché non siano da ostacolo alla comunicazione, ma anche di adottare modalità linguistiche che non facciano parte del linguaggio quotidiano. Per tale non si intende un tipo di linguaggio inferiore bensì un complesso di segni e significati che non prenda necessariamente in considerazione ciò che è oltre le apparenze del normale vivere quotidiano.
L’uso o meno del “ Perché … ? “ ben evidenzia questa distanza tra il dire e l’approfondire/ interpretare / comprendere.
Quando viviamo situazioni di normalità, anche all’interno di relazioni significative ( lavoro, affetti, ecc. ), tale scelta non necessariamente si pone.
Se tale normalità però, è messa in discussione da un mutamento ( sia di ordine materiale che interiore anche se, in genere, fatti e vissuti sono intrecciati ) che richiede a sua volta un cambiamento cognitivo e comportamentale, tale trasformazione ha bisogno, per essere favorita, di un diverso uso del linguaggio.
Evitare di porre interrogativi che inizino con un “ Perché … ? “ è un’espressione di tale diversità.
Alcuni motivi che conducono a cercare opzioni a questa modalità standard del domandare sono facilmente intuibili. Il “ Perché … ? “, ad esempio, può risultare per coloro a cui è diretto un giudizio o una critica e ciò senza che ci sia alcuna intenzione in merito da parte di chi lo pronuncia. Inevitabilmente tale percezione è favorita, in un senso o nell’altro, dall’atteggiamento che accompagna la domanda. Ma in alcune circostanze, in cui chi domanda consiglio e sostegno vive un particolare stato emotivo, anche un non verbale adeguato può non essere sufficiente ad evitare la sensazione di essere giudicati.
Il “ Perché … ? “, inoltre, contiene una possibilità che, quando si realizza, produce nell’interlocutore un vissuto ancora più negativo del percepirsi indagati.
Tale circostanza può verificarsi particolarmente quando la persona esprime un disagio derivante da una sua incapacità ( che sia reale o presunta poco importa dal momento che è reale per chi la percepisce ).
“ Non riesco mai a dire ciò che penso. Sono proprio uno stupido!”, si sfoga con noi un amico o un collega oppure il partner, ad esempio.
“ Vado in ansia per un nonnulla. Finirò con l’ammalarmi! “, può dirci qualcun altro, invece, cercando aiuto e conforto.
In tali circostanze, ed in altre simili sotto l’aspetto emotivo e cognitivo, esordire con
“ Perché … ? “ ( es. “ Perché non riesci a dire ciò che pensi? “, “ Perché credi di essere uno stupido per il fatto che non dici ciò che pensi? “, “ Perché vai in ansia per un nonnulla? “ ) possono dare come risultato la conferma, in chi vive il disagio, della sua incapacità.
Il messaggio che passa, o potrebbe passare, attraverso questa semplice parola è del tipo:
“ E’ vero quello che affermi e che pensi di te ( “ sono uno stupido “, “ incapace a gestire l’ansia “, ecc ) . Dimmi semplicemente quali sono i motivi per cui sei ciò che affermi di essere e che pensi di essere “ .
Il “ Perché … ? “, dunque, rischia di esprimere, da parte di chi lo pronuncia, una visione svalutativa delle cose che è sulla stessa lunghezza d’onda di quella dell’interlocutore. In sostanza, a quel punto, si è in due a pensare che quella persona è stupida, incapace, esageratamente ed inutilmente ansiosa, ecc. Almeno è questa la percezione di chi vive il disagio.
Così stando le cose il “ Perché … ? “ , invece che recare sostegno, rischia di alimentare ulteriormente confusione, demotivazione, frustrazione. Chi ha chiesto aiuto finisce con il sentirsi non ascoltato e comunque non capito.
Sono i casi in cui la relazione può avere un esito inaspettato e non voluto. Si litiga o si resta in silenzio, ad esempio, e da un lato ci sarà chi si dirà probabilmente “ E’ proprio inutile sperare negli altri per avere conforto “ e dall’altra chi si dirà “ Non vale la pena impegnarsi per gli altri. Vogliono solo lamentarsi e basta ! “ .
Dunque è opportuno trovare opzioni al “ Perché … ? “ .
Le alternative, in genere, si traducono in modalità espressive del tipo:
“ Cosa accade, di preciso, per cui … ? “ ( es. “ Cosa accade di preciso per cui non riesci a dire ciò che pensi ? “ ) oppure
“ Che genere di … ? “ ( es. “ Che genere di nonnulla ti fa andare subito in ansia ? ) o ancora
“ Cosa accade quando … ? “ ( es. “ Cosa accade quando non esprimi ciò che pensi? “ oppure “ Cosa accade quando un nonnulla ti fa andare in ansia ? ).
I vantaggi più evidenti, rispetto al “ Perché … ? “, sono:
si evitano generalizzazioni e dunque si circoscrive l’incapacità eventuale al singolo comportamento e non alla persona nella sua globalità ;
di conseguenza si propone alla persona un salto logico rispetto alla percezione del problema. Chi vive il disagio, infatti, generalmente si sente incapace in toto e bloccato definitivamente nella sua condizione deficitaria;
si definisce a tal punto un argomento circoscritto su cui riflettere e discutere evitando,così, fughe in avanti ( o indietro ) che possono pure condurre ad un momentaneo sollievo emotivo ma a ben poco valgono sotto l’aspetto pratico.
L’uso inopportuno del “ Perché … ? “ è solo un esempio della complessità della comunicazione interpersonale ovvero dell’azione di variabili emotive/ cognitive e linguistiche.
Comunicare consapevolmente, dunque, significa appunto avere piena coscienza di tali fattori, compito che è, o dovrebbe essere, non solo di chi comunica per professione ed in particolari contesti socio – professionali ma che è, o dovrebbe, di tutti ed in ogni momento della vita quotidiana.
Certo, la costante attenzione a cosa si dice e si fa e a come lo si dice lo si fa può essere stancante. Ma è altrettanto stancante, e con altri esiti, lasciare che gli effetti della comunicazione siano affidati al caso ed alla buona volontà dei parlanti.
< Prec. | Succ. > |
---|