DESTABILIZZAZIONE: ESIGENZA O PASSAGGIO OBBLIGATO? IL cliente come cocchiere platonico

Inviato da Nuccio Salis

cocchiere cavallo

Il counseling indirizza prevalentemente il uso campo di interesse verso le dinamiche del cambiamento. Precipuo oggetto di studio di tale disciplina è il processo trasformativo che avviene in seno al singolo ed all’ambiente nel quale egli è integrato.

Questo è ciò che principalmente il counseling propone all’interno del dibattito scientifico ed anche esistenziale in merito al percorso di vita di ciascun individuo e della società, riguarda proprio la capacità di confrontarsi con tutto ciò che è soggetto alla legge del divenire, che è una legge che si attua da sé, dotata di autonomia intrinseca e di una forza propulsiva interna che la conduce a dare luogo a tutto quell’assetto culturale e identitario del singolo, diffuso nei caratteri storici e comunitari di una collettività, e quindi declinato nei termini anche macrosociali e non solo circoscritto ai meccanismi delle relazioni interpersonali faccia a faccia.

Dentro questo complesso attraversamento di fattori, che da luogo sostanzialmente alla narrazione del procedere storico di una civiltà ed alle pagine biografiche di ciascun individuo, viene a connaturarsi un procedimento sottoposto a fasi progressive che si susseguono in maniera alternata e in una modalità sequenziale che dopotutto resta perfino prevedibile. Se non lo è nei dettagli, ovvero se non possiamo giungere a conoscere con estrema puntualità e precisione i passaggi sottili che ciascuno percorre nella propria storia, siamo però certamente in grado di dimostrare che esistono percorsi soggetti a giunture stadiali che si succedono in una modalità piuttosto ridondante.

Allo stesso modo, per analogia ontogenetica, possiamo riscontrare nell’avvicendarsi delle tappe di crescita di un bambino, naturalmente dentro un itinerario tipico di sviluppo, un incedere di stadi e sottostadi che obbediscono alle leggi della crescente maturità. Così anche nella società e nella storia del singolo si possono ravvisare, pur senza poter prevedere nel dettaglio la particolarità delle rispettive vicende, la direzione che si sta delineando nei termini della costruzione di senso storico, anche in funzione di una combinazione parallela e congiunta fra le risorse, le opportunità, i limiti, le difficoltà, in seno sia al contesto che ospita l’individuo ed il soggetto stesso che vi si attiva e che vi risponde in virtù delle sue qualità e caratteristiche personali.

Esiste quindi una ciclicità secondo la quale, come noi tutti abbiamo imparato a capire, che qualunque fase che riguarda l’evento vita, potrebbe soltanto essere in apparenza percepita come un periodo di stagnazione o come finestra temporale di inattività e immobilismo.

Chi si avvicina al contesto del counseling per usufruirne degli strumenti in aiuto alla persona, reca generalmente una domanda di soccorso insita nel suo momento esistenziale di stallo, dal quale di solito non intravede una via di uscita. Un soffocante senso di scoramento, di passività, annichilimento e rinuncia alla vita possono manifestarsi in chi si sente deprivato delle sue energie vitali e duramente colpito da eventi infelici e destabilizzanti. Anche colui che già conosce tutto quello che è necessario per avere una lettura il più possibile obiettiva in merito ai propri fatti ed accadimenti, il riverbero emotivo che si evince porta numerosi elementi di sconforto e di avvilimento davvero duri da gestire e con i quali convivere. Non è affatto semplice accettare gli effetti della ciclicità dei meccanismi concatenati a certe leggi dell’esistenza. L’attitudine alla conservazione di ciò che è stabile e che ci decora di successo è naturalmente l’atteggiamento dominante che ci rappresenta. Vi sono evidentemente profondi bisogni inespressi o inascoltati che premono per demolire le strutture di un Io che ha finito per fondersi e confondersi con le illusioni di ciò che lo intrattiene e lo drammatizza in uno scenario che lo distrae dal raggiungimento della conoscenza di sé.

Ci troviamo dentro un procedere di avvenimenti dinamici di cui siamo co-autori, e che in apparenza sono diretti in modo lineare e controllabile, e che risultano comunque incastonati dentro un orizzonte di tempo che li tiene incatenati e delimitati fino a che il senso e il significato prodotto dalla stessa narrazione in atto comincia a metterne in discussione il carattere di veridicità.

Il counseling è attento nell’orientare la sua attenzione verso i cambiamenti, e più che sollecitare il naturale e spontaneo percorso del mutuo divenire, dovrebbe casomai educare la persona ad essere protagonista attiva , responsabile e consapevole dei cambiamenti in atto nella propria esistenza, affinchè sia l’individuo stesso a condurli, a ricavarne il meglio per sé e per la società in cui vive, aggiungendo cioè la cura verso un processo di indispensabile rafforzamento circa l’elemento etico e del legame sociale, per produrre e favorire anche una buona interazione all’interno di un’allargata rete comunitaria dentro cui si appartiene anche come membri partecipi e solidali.

Sono state spese sempre tante parole, prodotte numerose pubblicazioni e avanzate frequenti discettazioni sul tema del cambiamento. Questa ciclicità così interattiva e fortemente caratterizzata dall’interdipendenza dinamica di tutti gli elementi che la connotano e la strutturano, può essere una straordinaria risorsa di risveglio e di consapevolezza qualora l’individuo ne pervenga alla coscienza e venga al tempo stesso dotato di validi strumenti interpretativi e formato su buone prassi di condotte sufficientemente sicure ed efficaci per poter esprimersi come soggetto artefice del proprio destino e del proprio cammino esistenziale. Per cui molto spesso la rinascita avviene proprio grazie ad una caduta; intendendo con questa espressione un evento legato a un elemento significativo che ha ridimensionato l’orizzonte di stabilità e sicurezza su cui il singolo poteva contare, obbligandolo a revisionare certi parametri comportamentali in vista di lidi migliori sui quali approdare. In altre parole, si disegna una apparente improvvisa situazione di scollamento fra ciò che da una parte si presenta come abitudinario, ripetitivo e prevedibile, e d’altra parte ciò che è testimonia la presenza di istanze più ignote e recondite, dentro una zona oscura percepita come irraggiungibile, adimensionale, del tutto immaginaria; la quale, per giunta, può anche occasionalmente venire ignorata poiché non se ne prospetta nemmeno l’esistenza o la sua utilità pratica.

Spesso, però, come è facilmente constatabile dall’esperienza professionale, le persone che vengono accolte dentro un setting di counseling, sono già entrati in una fase straordinaria di decisiva spinta al cambiamento.  Il disagio che avvertono in funzione di questa pressione che non sanno ancora decodificare, dipende proprio dal fatto che non sanno come coglierne occasioni ed opportunità di miglioramento e scoperta di sé, nonché anche del rilancio della loro progettualità, in termini più realizzabili ed avvincenti. Ciò è connesso soprattutto al fatto che tale forza che sospinge alla modifica radicale delle proprie coordinate identitarie ed esistenziali, agisce da sé con tutta l’urgenza del richiamo ad un nuovo e compiuto livello di consapevolezza. Il fatto di non poter aver preso l’iniziativa volontaria ed autonoma sugli eventi percepiti come incontrollabili, diventa la causa principale del disorientamento e delle profonde frustrazioni sperimentate dal soggetto destinatario dell’intervento di aiuto. Ed anche nel caso in cui abbiano maturato la convinzione circa le necessità del nuovo scenario problemico, non sentono comunque di possedere del tutto la forza, gli strumenti e la capacità di fronteggiare il prosieguo dell’esperienza dovuta al dissestamento interiore ed a tutto ciò che ha ferito il loro equilibrio ed ha scombussolato l’ordine a cui erano abituati.

Quindi, un bel primo ed importante passo avanti nell’ambito del trattamento nella relazione di aiuto alla persona, consiste nel far prendere atto che qualunque tipo di avvenimento, sia esso anche luttuoso, traumatico o comunque increscioso, serve a mettere di fronte ad un indispensabile sopraggiunto cambiamento di rotta. Spesso, anche a seconda della significatività dell’evento, ciò implica un elevato impegno di ricognizione di sé e di tutte le variabili che lo descrivono e lo costituiscono.

Sono quelli i momenti in cui ciascuno è richiamato ad accettare temporaneamente la prospettiva di un affiancamento in cui si assecondano la volontà ed i bisogni dell’appellante, nel tentativo di coglierne ed interpretarne correttamente i linguaggi e la direzione di significato. Il tutto conservando e cercando di potenziare l’autonomia del pensiero e dell’azione, per svincolare in ragionevoli tempi la persona in stato di bisogno da chi offre il proprio sostegno. La finalità rimane la tutela e lo sviluppo ulteriore della propria capacità di autodeterminarsi. La guida che esplicita e finalizza tale compito sarà abile ad affrancarsi dalla tentazione di assoggettare la persona ad una condizione di dipendenza e di rispondenza simbiotica che soddisfa esclusivamente colui che assume il ruolo dominante. La mission salvifica può gratificare se stessi fino al punto da non riuscire a gestire l’appagamento della propria maschera sociale, a scapito dell’autenticità dei rapporti e della corretta pratica deontologica e professionale.

Questo aspetto va a mio avviso rimarcato perché chi cerca un supporto costruttivo in merito al proprio status emotivo ha diritto a ricevere un caring adeguato ed affidabile. L’operatore che fosse ancora agganciato al ruolo copionale del Salvatore è quanto di più maldestro e nocivo si possa prospettare nell’area della relazione di aiuto.

Come primo accorgimento, perciò, avanzerei la necessità di essere anzitutto consapevoli delle fasi che ciascuno può attraversare.

Il primo step che ognuno si vede affrontare è la fase della rottura/destrutturazione del già noto e sperimentato. È quella fase che costringe ad una riorganizzazione degli elementi del Sé (descritto secondo il linguaggio della psicologia contemporanea), che pone di fronte ai propri conflitti interiori ed alle implicite discrasie. È la fase che sospinge a prendere visione dei propri fantasmi, delle proprie zone d’ombra, dei propri nodi irrisolti e lasciati in sospeso. Ed è per questa ragione che questo punto critico rappresenta anche al tempo stesso uno svincolo da ciò che è noto e routinario, per approdare ad una dimensione in cui i bisogni più autentici e profondi, rimasti sullo sfondo, disconosciuti o repressi, possono essere finalmente accolti e soddisfatti.

In pratica, se tutto ciò ci accade è anche perché molto spesso noi ignoriamo le nostre vere e profonde priorità, e ne misconosciamo la portata della domanda. Ciò, peraltro, avrebbe una deriva dalla zona di comfort, ed implicherebbe lo sviluppo di nuovi apprendimenti, conoscenze, responsabilità e un rinnovato repertorio di atteggiamenti che non tutti sono pronti a collocare dentro una nuova piattaforma identitaria.

Ecco perché chi porta la richiesta di aiuto, anche su un piano maggiormente lucido e abbastanza consapevole, può optare sul rifiuto e sulla resistenza ostinata nel non voler intercettare o vivere appieno la riconfigurazione necessaria per un cambiamento.

La domanda formulata intimamente dal soggetto comune è: “perché dovrei cambiare se così sto bene?” È spesso l’interrogativo di chi non si rende completamente conto di quanto la sua posizione esistenziale sia una mera illusione, troppo spesso distante da quelle forme di espressione che attendono di rivelarsi nella verità.

Riguardo a queste ultime considerazioni mi riferisco a quei repertori comportamentali che ci aiutano a sostare dentro una prospettiva avvincente di ricerca e dell’esplorazione di sé, sottraendoci all’indolenza di quegli atteggiamenti rinunciatari che ci blindano nell’inattività e nell’ignavia. In questo modo ciascuno può accedere ad usare a suo favore modelli di efficienza maggiore nella scoperta e nel riconoscimento di sé, con l’esito di potenziare risorse ed attitudini che nobilitano e qualificano l’essenza di ciascuno di noi, che in tal caso privilegia modalità di vita più complete ed appaganti.

I problemi sorgono dal momento in cui si deve constatare come la maggior parte di noi tende a scegliere percorsi e posizioni esistenziali  ritenute più facili da affrontare. Si tratta per lo più di zone di comfort dove imperversano la mediocrità e l’inazione, da intendere soprattutto come povertà immaginativa e creativa. Questa scelta è dovuta spesso e volentieri al tentativo di rifuggire da compiti impegnativi, responsabilità e scoperta di sé, condizioni percepite e considerare come portatrici di problemi e interrogativi sui quali non si vogliono investire le proprie energie. È esattamente questo il punto su cui caschiamo facilmente. Si tratta del tranello di tutti i tranelli. Pensare che per non avere drammi e problemi da affrontare si debba smettere di sottrarsi alle domande e alle richieste di quella parte profonda di noi che tenta di ribellarsi allo strangolamento delle convenzioni, significa essere caduti nella trappola di questa assurda mistificazione. Tale condizione di fuga, al contrario, attiva esattamente proprio quelle parti di noi più autentiche che vanno alla ricerca della gratificazione dei nostri bisogni inespressi e inascoltati, e quindi contribuiscono grandemente nel generare ostacoli e impervie vicissitudini proprio per ricondurci dentro il solo e unico percorso che restituisce il supremo senso della nostra presenza: la conoscenza di sé. Un tema che la maggior parte trova disturbante ed eccessivamente perturbativo. La risposta di fuga produce contingenze che restituiscono la dimensione e l’urgenza della domanda da cui puntualmente si scappa. In pratica si scelgono stili di vita coi quali riempire quegli spazi di silenzio e intimità personale che si presentano come possibili strategie di rientramento di sé, e ci si tuffa nell’immondezzaio mondano dove le forme della ritualità sociale sono soltanto primitive spinte all’aggregazione dalle quali non maturano affatto soluzioni pratiche per realizzare rapporti di solidarietà e vera amicizia.

La conseguenza, specie per chi equipaggiato per il programma del risveglio, è che i meccanismi della vita tenderanno a buttarlo fuori dalla cornice di finzione che lo ingabbiano, prima che sia troppo tardi. Cioè prima che venga avulso e soffocato da quel ricettacolo di drammi e di scenari mortificanti e inservibili che spesso assumono le cerimonie del vivere (cosiddetto) sociale.

Chi pensa di rifuggire da tali meccanismi salvifici, che ci privano di ciò che abbiamo considerato da sempre prezioso e irrinunciabile, mostra di essere ancorato ad un inconsapevole personaggio che risponde alle logiche di un copione che lo interfaccia e lo rispecchia nell’allestimento sociale, collocandolo e distraendolo sopra il carrozzone di maschere nel cui baccanale vi si trova coinvolto. Si palesa un forte invito a riflettere sul perché più si scappa da certi problemi e più loro sembrano rincorrerti. Un po’ come può fare il cane che non ti conosce e che ti osserva per conformarsi alle tue reazioni: se non scappi può limitarsi ad abbaiare, se corri ti insegue per raggiungerti.

Compito del counselor, a fronte di tutte queste impegnative considerazioni, consiste nell’aiutare il cliente a comprendere che spesso il problema che si è configurato contiene preziose risposte ed elementi significativi con elevato valore di crescita interiore. Esso è l’occasione per poter cogliere quegli aspetti di noi dai quali per troppo tempo si è rifuggiti.

La mia personale esperienza come consulente operatore dell’aiuto mi porta a capire che il tema principale da cui fondamentalmente rifuggono tutti è l’emancipazione di sé. I sensi di colpa generati dalla discrasia fra il principio del dovere e ciò che invece si ritiene di fare al di sotto degli standard richiesti (da terzi ma soprattutto da se stessi come giudici interiori), rappresenta la ferita sanguinante più grave attraverso cui si entra dentro una relazione come richiedenti aiuto. La maggior parte di questa categoria di clienti ritiene di dover meritare le frustate che il problema infligge loro. Quindi gran parte del lavoro consiste soprattutto nel far acquisire alla persona un’idea di sé che proceda nella direzione della valorizzazione e della lettura obiettiva dei propri meriti e delle proprie oggettive qualità.

Il recupero della propria autenticità è attualmente la sola e unica forma di terapia essenzialmente efficace che io conosca.

Sono istanze verso le quali ciascuno tende, ma che vengono anche disattese in modo ricorrente. Si tratta di una discrepanza fin troppo diffusa , tanto è che l’umano medio viaggia su questi due binari in estrema opposizione fra di loro: ovvero, da una parte le frequenti e fin troppo note espressioni di difesa di sé , autoprotezione egocentrica e narcisismo individualista che denotano una profonda insicurezza e instabilità,  in quanto rivelatori di una inesatta idea di sé. Si è spesso feriti e danneggiati dalla ricezione di input e considerazioni che travisano l’immagine che noi abbiamo di noi stessi. Se gli altri tentano di descriverci per come noi non ci cogliamo, insomma, ci sentiamo sensibilmente urtati e reagiamo a ciò che percepiamo come una insolente intrusione e inaccettabile violazione alla nostra personale idea su noi stessi, maturata e giustificata da un percorso esperienziale da cui abbiamo faticosamente costruito la nostra identità, e che quindi tendiamo a misurare anche in forza di un percorso vissuto come difficile e travagliato in certi precisi passaggi.

Esiste anche l’incapacità di disidentificarsi dai rimandi altrui verso la nostra identità, e concerne precisamente quella condizione in cui si assorbe passivamente una falsa idea di sé e ce la si appiccica addosso e la si usa come un vestito che altri hanno scelto al nostro posto. Questi elementi di debolezza e fragilità annullano la volontà assertiva dell’individuo e lo espongono in modo vulnerabile a condizionamenti che ne bloccano poi l’iniziativa efficace, poiché si modella su un‘idea di sé deplorevole, danneggiata e sfigurata da contaminazioni esterne che potrebbero anche avere avuto origine da contesti relazionali e socio-affettivi primari, quindi aver marcato con una certa pregnanza il concetto che ciascuno costruisce circa se stesso.

Non risulta pertanto semplice accogliere come risorsa e come occasione di crescita la vicenda che ci coinvolge e ci addolora, che ci restituisce la dimensione della difficoltà e della fatica del vivere. Questo non ci facilita nel consegnare a noi stessi un’immagine positiva dell’essere. C’è però un passaggio obbligato, il quale più che dalle parole o dall’intervento del counselor, si attiva in funzione anche di quell’istinto di conservazione, di sopravvivenza e di salvataggio rispetto a quegli elementi residuali del sé che sono funzionali e a cui ciascuno in genere fa ricorso in seguito proprio alla profonda rottura/destrutturazione circa la perseverante linearità dello scorrere dell’esistenza.

Si tratta spesso di una serie di risposte più o meno complesse, adeguate o sofisticate, che costituiscono fondamentalmente quella spontanea ricerca atta alla ricomposizione dell’equilibrio di sé. Ragion per cui si attivano tecniche e strategie volte a compensare il vuoto, il dolore, l’impatto che l’evento traumatico ha fatto conseguire. Si mobilitano le risorse di cui ciascuno può realisticamente disporre. Ed è già in questa fase che si possono scoprire elementi portanti del sé che si erano trascurati ed accantonati. Mentre chi ne è sprovvisto o chi è meno resiliente anche per natura costituzionale, fa più fatica a realizzare un congruente piano d’azione in risposta al contesto problemico, scivolando così più facilmente nell’area dei comportamenti di dipendenza (addictive behaviors). Tale condizione contiene una più marcata ed implicita domanda di aiuto, soprattutto nell’attraversamento della fase di riassestamento dopo il grande scossone ricevuto che ha sconvolto e rivoluzionato il sistema dei concetti, delle aspettative e delle percezioni interne. Questa è anche la fase più lunga ed impegnativa, in cui ciascuno ha anche bisogno di un affiancamento ragionevolmente presente e mantenuto nel tempo, per poter così spostarsi dalla fase dell’adattamento/riorganizzazione ed accedere a quella del ridimensionamento/integrazione. Ovvero quel tempo in cui si guadagna una nuova posizione dell’essere e ci si può considerare rinnovati. Il passato viene accomodato, risistemato all’interno di se stessi in una composizione alchemica con tutto ciò che rappresenta la nuova situazione presente. Si è pronti a ripartire. È come se si avesse una nuova identità, la quale è anche la risultante delle esperienze passate, un dinamico profilo assemblamento composito di variabili esistenziali passate e presenti. La sensazione sperimentata si riferisce all’impressione di aver attraversato delle violente rapide per poi ritrovare le acque placide. È anche la metafora della rinascita dalle proprie ceneri. 

Questo nuovo panorama identitario, arricchito di parametri, prospettive e requisiti costruiti con impegno e fatica, e quindi compattate in modo da attribuirne valore, è in grado di rispondere a domande dapprima ignorate e che apposta hanno generato con provvida urgenza un problema, dal momento che le profonde istanze interiori richiedevano che la coscienza potesse essere in grado di rispondere a quesiti che vengono mediamente evitate dalla maggioranza delle persone. Vengono cioè glissate volontariamente domande quali “chi sono?”, “cosa faccio in questo piano di esistenza”, “qual è il mio ruolo”, “in cosa consiste la mia missione”, “perché abito temporaneamente dentro questo orizzonte di tempo”, “dove andrò” (tradotto  come ‘dove ritornerò’ nel linguaggio della coscienza, poiché essa conosce come il punto finale equivale al punto di ritorno, e che ciò che era alla fine lo era al principio, e viceversa).

Sulla base anche di domande e intuizioni interne, il cliente supportato da un efficace affiancamento può seguitare nel procedere il suo itinerario di crescita, facendo appello alle sue risorse ed al tempo stesso incedendo talvolta anche in modo insicuro, maldestro e claudicante, anche per la co-presenza di quelle aree deboli che dopotutto completano l’identità e l’espressione di sé. Una condizione, questa, che rievoca l’allegoria del cocchiere ideata da Platone, secondo cui è descritta il conducente della carrozza trainata da due cavalli: uno bianco e uno nero. I due animali rappresentano rispettivamente le virtù e dall’altra parte le tensioni e le propensioni più riprovevoli , istintuali e meno edificanti.

L’auriga ci insegna che per assicurarsi di procedere diritti, non bisogna affidarsi ad un solo cavallo, e difatti il solo governare le redini del cavallo bianco significherebbe uscire irrimediabilmente fuori strada. Il problema allora non risiede nella scelta estrema, quanto nella combinazione sobria ed equilibrata di tutto ciò che l’umano contiene dentro se stesso. Un’immagine molto potente e funzionale che ci obbliga ad accettare anche le nostre parti meno elevate e virtuose. Finchè però il cocchiere, che può rappresentare l’Io, la Coscienza (a seconda del linguaggio a cui si decide di fare riferimento), li tiene entrambi sotto controllo e li fa procedere gestendone le loro relativi tendenze, allora la guida può indirizzarsi in un modo lineare e sicuro.

Questo è ciò che bisogna riuscire a consegnare alla visione consapevole di chi abbiamo di fronte, nell’auspicio che il nostro interlocutore faccia propri questi insegnamenti ma che soprattutto li applichi, li traduca in programmi di azione efficaci e adattivi.

Da una parte, la persona che diventa il cocchiere è tenuta da una parte a guidare e manovrare il cavallo bianco, che rappresenta il patrimonio da difendere e tutelare di tutto ciò che l’individuo possiede già e che ha sviluppato e potenziato nella sua esperienza. Bisogna cioè da una parte tenere conto delle certezze conquistate, dei punti di forza, dei valori consolidati, le competenze acquisite, i sicuri e validi punti di riferimento nella propria rete relazionale. In aggiunta c’è il cavallo nero che incarna in questo caso non tanto l’assecondare i comportamenti che possono essere utilizzati per legittimare le dipendenze, ma più che altro per accettare i margini di rischio, l’incertezza, l’inconsistenza e il nonsense della vita, riuscendo così a prendere atto che l’esistenza affrontata consiste molto spesso nel pescare dai mazzi degli imprevisti e delle probabilità, almeno fino a quando non si matura il piano esperienziale di una coscienza risvegliata e consapevole del proprio cammino.

Questo carattere di imprevedibilità lega la vita a cambiamenti spesso repentini, sopraggiunti in modo inaspettato e che possono verificarsi come avvenimenti traumatici, luttuosi, come accadimenti che colpiscono le nostre zone di naturali di vulnerabilità che ci espongono al dolore e alla sofferenza. L’accettazione di tutto questo fa procedere in modo regolare anche il cavallo nero, che non prenderà il sopravvento e il dominio, evitando cioè che la carrozza sbandi e devii fuori dalla rotta. In questo senso, il cavallo nero comunica come un archetipo che ricorda il senso della sfida alle richieste della vita. Così come ci insegna anche Madre Teresa di Calcutta che nel suo inno alla vita include anche la frase “la vita è una sfida, affrontala”. Ritorna anche in queste parole la metafora del cavallo nero.

La soluzione è quindi da prospettarsi nella capacità di sostare nell’equilibrio che ci richiama allo sforzo di saper gestire in sinergia le due opposte tendenze al tempo stesso integrate dentro un percorso cosciente da cui apprendiamo come affrancarci nel momento opportuno da ciò che non ci serve e che non ci è più utile; condizione mediante la quale possiamo riuscire a disinnescare la grande macchina delle illusioni sul nostro piano di coscienza. Si può così procedere verso l’unico luogo originario da cui può esperire la sua sola ed unica essenza. E per potervi arrivare, spesso avvertiamo come l’impressione di essere rimasti intrappolati in un tempo  del non tempo, in un loop di nonsenso da cui niente sembra più muoversi e prodursi. La limitata concezione mondana ci restituisce in tal caso la percezione del disagio, mentre l’urgenza del silenzio e della solitudine che si sono configurate rende conto della estrema, non più rimandabile ed assoluta necessità di un risveglio cosciente.

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