ansia di approvazione e accettazione ... in-condizionata
Come counselor, sappiamo di essere chiamati a chiarire, con le modalità più appropriate alla persona con cui ci stiamo relazionando, gli aspetti fondamentali del counseling talvolta del tutto ignoti o confusamente percepiti, o le specificità del nostro ruolo. Il ruolo del counselor infatti è altro da quello dello psicologo, ma persino a chi sceglie di chiederci aiuto per risolvere le proprie difficoltà, non raramente sfugge l'elemento essenziale imprenscindibile nella relazione Counselor - Cliente: l'attivazione e il coinvolgimento del cliente e la sua partecipazione al cambiamento. L'immagine più diffusa del counselor, comune sia a chi ricorre al percorso di counseling sia a chi si accontenta del sentito dire, è un'immagine che costituisce il ponte vincente del passa-parola: il counselor è persona che offre accettazione incondizionata, empatia e sospensione del giudizio.
Potremmo dichiararci soddisfatti perché, in effetti, a questo in primis siamo chiamati, ma tale diffusa e radicata convinzione innesca nel cliente aspettative che vanno nella direzione diametralmente opposta a quella del counseling. Essere visceralmente convinti che solo al counselor spetti il compito di accogliere comunque, e tuttavia non avere consapevolezza che anche al cliente spetta un solenne preciso compito, quello di partecipare attivamente al proprio cambiamento (essenziale aspetto della relazione counselor-cliente, come sopra accennato) induce la persona a crearsi "strane" aspettative, la induce ad aspettarsi dal counselor comprensione e accettazione incondizionata per ogni scelta o mancata scelta, per ogni sua responsabilità, per ogni suo atteggiamento, persino per il proprio disinteresse a cambiare (se mai sono gli altri... a dover cambiare). In tal modo, la persona assume un atteggiamento di grande rigidità, si àncora al suo punto di vista, alle proprie convinzioni con un unico e preciso obiettivo: ribadire con determinazione le molteplici motivazioni e giustificazioni che le rendono ragione completa su ogni questione e sulle difficoltà che l'hanno condotta da noi. In definitiva, le aspettative di approvazione incondizionata da parte del counselor (evidente anche per le pseudo-domande "lei che ne pensa?, ho ragione io? Perché non avevo scelta, per colpa di...") costituiscono un robusto freno, anziché un incentivo al cambiamento e dunque alla identificazione del focus del problema e alla soluzione delle difficoltà, traslando, in modo del tutto erroneo, il significato da accettazione incondizionata a approvazione incondizionata, che presuppone giudizio elogiativo, positivo e dunque in netta contraddizione con la sospensione del giudizio, cardine irrinunciabile del counseling, in qualunque approccio e strategia.
Siamo di fronte ad un nodo problematico di estremo rilievo che da solo può compromettere la presa in carico della persona richiedente prima ancora che il percorso di counseling sia avviato e che, se non rimosso, si tradurrà comunque in un episodio di completa inefficacia professionale. Di fronte alla resistenza della persona in aiuto a comprendere che accettazione incondizionata è altro da approvazione incondizionata, possiamo decidere di non prenderla in carico, ma nel momento stesso in cui la lasceremo andare, saremo consapevoli di non essere riusciti ad aiutarla: la persona continuerà a credere che siamo noi ad aver disatteso il nostro ruolo e sarà pronta a chiedere ad altri quell' approvazione che cerca dall'esterno, perché non è in grado di darsi da sola. Ciò che è evidente nelle persone che esprimono questa rigidità di comportamento è infatti un pesante rapporto con la propria sfera genitoriale, un severissimo giudizio su di sé che le induce a pretendere dall'esterno, meglio se da una figura "istituzionalmente accogliente ed empatica" come il counselor, approvazione/ assoluzione soprattutto per scelte e comportamenti che nel loro intimo giudicano e sentono come errori. Difficile liberarsi da quest'impasse, in quanto l'approvazione dell'altro può solo seguire e mai precedere l'approvazione di sé. Non basta essere adulti, non vale neppure essere formatori o educatori; ho esperienza di docenti frequentanti un corso di formazione, capaci di sostenere con forza il proprio diritto a disinteressarsi e non collaborare, ostacolando e infastidendo l'impegno di altri con la seguente motivazione: il counselor è tenuto all'empatia e all'accoglienza incondizionata, dunque è tenuto ad approvare anche il comportamento di chi disturba i lavori perché affaticato dai precedenti impegni della giornata.
Talvolta mi chiedo come mai sia così diffuso questo fraintendimento sul counseling; tante sono le possibili motivazioni, da quelle più generali come il fatto che del counseling, in fondo in Italia poco si conosce (complici anche alcune distorsioni di Corsi e Incontri di Counseling che così definiscono l'approvazione: Approvazione - mi dimostri che ti piaccio e mi accetti) a quelle più strettamente individuali per cui, nel lungo momento di crisi che la società tutta sta vivendo, nel mondo dell'apparenza, dell'immagine, del se non mi vedete, non esisto, ecc...ecc... è molto difficile raggiungere il proprio equilibrio interiore e dunque più forte si fa l'ansia di approvazione, il bisogno di sentirsi più che accettati applauditi. Siamo sempre più attori in cerca di applausi!?! Una cosa è certa: l'ansia di approvazione può esercitare un potere tale da stravolgere il meraviglioso principio dell'accettazione incondizionata, rendendola di fatto in-condizionata . Osserviamo, studiamo, cerchiamo di ri-conoscere questa ansia di approvazione in noi prima ancora che negli altri e forse riusciremo a gestirla.
Cordialissimamente,
Giancarla Mandozzi
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