Secondo la cultura tradizionale, i cui parametri hanno influenzato anche la parallela ricerca scientifica sul tema qui affrontato, l’abilità pratica è nettamente distinta dalla sfera intellettuale. Questo remoto modello separatista ha condizionato per giunta tutta l’impostazione formativa relativa ai percorsi scolastici; si pensi ad esempio ai specifici orientamenti che delineano l’istruzione secondaria di secondo grado, connotandola per la sua caratteristica nel saper offrire un indirizzo professionale ben riconosciuto e consolidato.
L’organizzazione degli itinerari scolastici si è sempre identificata per consuetudine a due grandi categorie opzionali: il ramo umanistico e quello tecnico. Una dicotomia storicamente rimarcata, per esempio, da un’impostazione gentiliana sotto la dittatura fascista, per generare un bivio assolutamente differenziato e divergente fra coloro che, scegliendo la formazione a stampo umanistico si preparavano ad assumere i ruoli della classe dirigente, e coloro invece i quali, impegnandosi in un percorso scolare di tipo tecnico, si prefiguravano come forza lavoro e ceto produttivo all’interno della società.
Soltanto gli studi più avanzati, nell’ambito dell’osservazione e della descrizione dei processi di apprendimento, hanno potuto mettere in evidenza una chiave di lettura capace di promuovere teorie e spiegazioni secondo una visione olistica e globale, tendente cioè a sottolineare l’aspetto della complessità e della multifattorialità insita in un processo che prevede l’acquisizione di precise competenze nei più svariati domini.
La struttura e la funzione dinamica di un tale fenomeno non possono infatti essere più soddisfatti da modelli interpretativi rigidi, riduzionisti ed obsoleti. Sono necessari approcci maggiormente qualificati che rendano conto della situazione in modo più chiaro e completo. Per avvalersi di un nuovo paradigma di ricerca, naturalmente, si rende necessario il superamento di quella visione separatista che richiama esclusivamente l’incompatibilità assoluta fra le due rispettive dimensioni intellettuale e manuale.
Inoltre, questo tipo di inquadramento teorico, oltre ad essere manchevole sul piano scientifico, ha da sempre generato una gerarchia secondo la quale l’area relativa all’intelletto fosse da considerarsi superiore e di maggiore valore rispetto a quella esecutivo-manuale.
Molto probabilmente, complice una matrice decisamente illuminista, nonché un’eredità storico-filosofica ad impronta kantiana e scientista. Anche se al tempo stesso, è proprio questa impostazione di segno empirico che ha comunque aperto uno sguardo curioso e sperimentale verso gli oggetti della conoscenza, creando ad esempio il concetto di laboratorio, col fine di replicare le condizioni di un fenomeno osservato e testarne la riproducibilità, come prima condizione di validazione e ricerca di un universale scientifico in termini di prove e definitive conclusioni. Insomma, per scoprire e controllare rispettivamente principi, formule e fenomeni osservati, si è da sempre dovuta verificare una collaborazione fra aspetto intellettuale e aspetto manuale. I più grandi geni ed inventori nella storia della scienza sono sempre stati coloro che infatti hanno saputo fare un buon profitto delle loro doti, congiungendo l’area del pensiero ideativo e generativo con un correlato creativo di tipo concreto e operativo. In altre parole, queste personalità sono emerse per la loro capacità di coniugare la capacità immaginativa con la competenza pratica che costruisce e da forma esperibile e tangibile all’idea di partenza. Il tutto, all’interno di un percorso ben più complesso e circolare, nella relazione fra idea e strumento. Questa sintesi costituisce l’apoteosi della produttività, ed obbliga lo studioso di tale fenomeno ad osservarne le dinamiche mediante uno sguardo aperto e indagatore. Inoltre, questa prospettiva rimette su uno stesso piano di validità sia l’inclinazione manuale che quella intellettuale.
In pratica, le mani hanno bisogno del cervello quanto il cervello necessita di rivolgersi alle mani. Infatti, sono queste che conducono concretamente le attività di manipolazione sui referenti oggettuali. Attraverso le mani catturiamo una quantità indefinibile di informazioni ambientali, esploriamo le caratteristiche di un oggetto, registrandone dello stesso le proprietà fisiche, definiamo noi stessi in termini di identità corporea, inviamo importanti segnali non verbali, ci avvaloriamo del contatto interpersonale e di tutte le sue implicazioni associate; insomma le mani sono preziosi strumenti di mediazione fra la realtà percepita e l’idea di mondo che vi si forma nel contempo dentro un orizzonte aperto, flessibile e circolare.
D’altra parte, questa nuova ottica nello studio della relazione fra manualità e cognizione, è stata introdotta dallo psicologo statunitense Robert J. Sternberg, fautore della teoria dell’intelligenza triarchica, che ha sospinto verso il tramonto la classica visione gerarchica fra pensiero e atto. La sintesi fra propensione analitico-concettuale e operatività manuale, da luogo all’intelligenza manuale, peraltro accompagnata dall’espressione intellettivo-creativa, a sostegno di un modello sistemico e interdipendente in cui tutte le componenti cooperano per un unico scopo.
Il pensiero pratico possiede dunque una sua specificità cognitiva. Fronteggiare i problemi attraverso l’ausilio e la lettura della modalità pratica, sembra addirittura avere una sua precisa identità in grado di definire la qualità di un modus operandi di tutto rispetto. In sintesi, l’approccio pratico-esecutivo, che prevede un saper fare dalla sua natura specifica, si realizza per una serie di punti salienti che lo rendono efficiente e riconoscibile.
Chi è abituato ad affrontare i problemi ‘sporcandosi le mani’, come si suol dire, riferendosi ad una efficace espressione che rende conto di questa specifica modalità, conserva una visione di intervento e gestione del problema, che generalmente si pone al di la di soluzioni preconfezionate da manuale. Soprattutto in contesti in cui sono necessarie vere e proprie operazioni su macchine o complessi apparati di ingranaggi o di software, avere un’inclinazione o un’esperienza pratico manuale, significa allargare le possibili opzioni di intervento, proponendosi alternative rispetto alle già note procedure risolutorie previste secondo una guida precedentemente redatta. Ciò è particolarmente valido proprio nell’occasione in cui le procedure legate alle sequenze previste sembrano non funzionare.
Questo colloca l’operatore in una dimensione laterale di problem-solving, dalla quale può attingere in funzione della sua personale aneddotica e della sua capacità di reperire con creatività diverse combinazioni o ipotesi solutorie.
In un contesto aziendale, per esempio, l’esperienza professionale così condivisa è precisamente ciò che genera un confronto fra storie ed esempi che arricchiscono il piano esperienziale di ciascuno e del contesto organizzativo che dovrebbe recepire tale potenzialità innovativa insita nelle pratiche di lavoro.
Il pensiero pratico, infatti, avendo riscontrato le discrepanze fra schemi illustrati e mappe figurali riportate nei manuali e nelle loro descrizioni tecniche, ha già saputo acquisire nuovi dati procedurali in virtù della propria esperienza fattiva, ed è quindi pronto a mettere in discussione il modello operativo tradizionale, riorganizzando e ridefinendo gli elementi del frame dentro cui abita il problema da risolvere.
Pertanto, a dispetto di quanto contrariamente si possa essere portati a credere, esiste una intrinseca volontà e attitudine innovativa nel lavoro pratico-manuale, soprattutto se questo si trova di fronte all’evento secondo cui il problema dato sembra non risolversi secondo le indicazioni già note. Nel pensiero pratico risiede dunque una possibilità espansiva di generare percorsi solutivi creativi, seguendo modelli di pensiero divergente, flessibile e adattivo. Intendendo, con questa ultima espressione, la capacità di affrontare un problema provando più soluzioni, e diversificando le proprie risposte.
In questo frangente, la prestazione lavorativa manuale non può che venire riabilitata come piena capacità interrelata all’intelligenza, secondo un rapporto di reciproco nutrimento e vicendevole cooperazione.
La ricerca di un efficace problem-solving, peraltro, può condurre l’esecutore stesso a reperire strumenti, risorse ed opzioni all’interno del contesto, situato o allargato, arricchendo così il suo bagaglio esperienziale e l’intero equipaggiamento a cui ricorrere in caso di difficoltà. Egli si connette cioè all’ambiente anche nella sua dimensione socio-culturale, apprendendone ed utilizzandone linguaggi e sistemi di codificazione, formali ed informali, accrescendo così anche la sua risposta partecipativo-costruttiva che lo inquadra e lo definisce anche dentro una sua precisa cornice identitaria sotto l’aspetto professionale.
Il consolidamento dell’esperienza pratica, rende più sicuri, capaci di percepirsi come soggetti autoefficaci, e di fare appello a strategie di ottimizzazione secondo le quali si possono svolgere compiti e mansioni anche complicati risparmiando energie e facendo economia degli sforzi.
Questo capitale di capacità e di competenze è da considerarsi un complesso insieme di abilità raffinate e degne di attenzione dal punto di vista dello studio sull’apprendimento.
La mano di chi lavora, di chi inventa, di chi ingegna soluzioni dettate dall’estemporaneità e dalle contingenze impreviste e imprevedibili dei fatti, è una mano propriamente intelligente, in grado di sollecitare la mente tanto quanto la mente stimola gesti e funzioni esecutive manuali finalizzate alla creazione di artefatti. Tutto questo si sposa all’interno della costellazione teorica di orientamento culturale, nella cui relazione mente-mano-artefatti, questa triade diviene l’essenziale piattaforma su cui si origina lo stile cognitivo del pensiero e la natura dei suoi prodotti-strumenti, in una interminabile spirale che disegna la reciprocità dinamica e generativa fra mente ed atto esecutivo, fra pensiero ed azione, fra cervello e mano.
Comprenderne la corrispondenza e l’importanza del legame, significa in conclusione adottare una visione più completa del funzionamento umano e delle complesse dinamiche dell’apprendimento che ne risultano intimamente associate.
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