20 ANNI DI NEURONI SPECCHIO E IL MONDO VA SEMPRE PEGGIO.Etica e ricerca nelle discipline umanistiche

Inviato da Nuccio Salis

neuroni a specchio

INTRODUZIONE

Nell’ambito degli studi umanistici, una qualsiasi scoperta o nuova ipotesi teorica è accolta come valida se in qualche modo è diretta alla crescita della persona. La prospettiva assiologica è determinante quando si tratta di rispettare questa finalità suddetta. Parafrasando il titolo di un noto libro del buon James Hillman, mi è sembrato pertinente avanzare una riflessione circa il clamore sempre più crescente che riguarda un tema caro alle neuroscienze e non solo. L’argomento riguarda i leggendari neuroni specchio, unità cellulari alle quali sono state attribuite ruoli e funzioni in un modo decisamente clamoroso e sovrastimato. Non sono poche, infatti, le voci autorevoli che sollevano numerosi e pertinenti dubbi nonché critiche scientificamente fondate su quanto, all’interno di un argomento così complesso, si siano diffuse credenze ed imprecisioni con un’ingenua approssimazione che non si addice certamente ad una scienza che si impegna a divulgare conoscenze supportate da evidenze empiriche. Di certo, non si vuole rinunciare a considerare il ruolo importante di una comunicazione efficace, i cui processi sono determinanti nel presentare i risultati delle proprie scoperte in modo chiaro, esaustivo e comprensibile. L’entusiasmo legato alla scoperta in questione, ha generato inammissibili semplificazioni, purtroppo perfino fra gli “addetti ai lavori”.

 

Non sono pochi, infatti, coloro che operando nel campo umanistico parlano e scrivono sui neuroni specchio senza evidentemente aver approfondito il tema, esplorandone soprattutto i punti più dubbi e controversi. Sull’onda entusiastica di tale scoperta, una sorta di effetto a catena ha prodotto col tempo una vera e propria euristica leggendaria dei neuroni specchio, ai quali vengono ascritte numerose responsabilità nell’attivazione di un esteso repertorio di espressione umana, includendovi non solo una classe di comportamenti, quanto anche modelli di relazione interpersonale, condivisione di sentimenti, orientamenti estetici e perfino stati patologici della personalità. Tutto questo entusiasmo, però, è realmente giustificato e sostenuto da prove inconfutabili, oppure è soltanto il risultato di una sorta di avvincente forma di comunicazione sui risultati scientifici? Esiste una letteratura che ridimensiona l’intera questione, mettendo in primissimo piano forse il punto decisamente più debole e facilmente contestabile di tale corpo di teorie: si tratta del fatto che i neuroni specchio sono studiabili singolarmente (o per pochi gruppi) esclusivamente sul cervello delle scimmie, e di conseguenza, tutto quello che è stato dedotto e riportato sul funzionamento umano, è il frutto di una forzatura teorica, basata su ipotesi tanto suggestive quanto imprudenti e approssimative. Com’è noto in altri ambiti del sapere scientifico (penso per esempio alla ricerca in campo chimico o bio-medico), esiste un problema di non poco conto: si tratta della trasferibilità dei dati dal modello animale al modello umano. Ebbene, questo nodo problematico, indiscutibilmente rilevante, viene evidenziato non certo per via di uno spirito etico-animalista, che anzi è molto spesso assente presso la moltitudine delle personalità scientifiche, ma perché implica l’inevitabile presenza di una “zona cieca” nell’ambito di tale studio, e di cui bisogna tenere in debito conto. Tale invito dovrebbe essere caldamente esteso soprattutto a chi si assume la responsabilità di divulgare questo tipo di conoscenza.

Sottolineare questo aspetto è un fatto di serietà scientifica, trascurarlo o minimizzarlo riconduce invece ad un pressapochismo che non fa certo gli interessi della ricerca. Puntualizzato ciò, è necessario ribadire a mio avviso che tale elemento di criticità dovrebbe accompagnare sempre tutto ciò che si deduce dai risultati di tale ricerca.

 

Ciò che è scontato non è banale

Ciò che è scontato non è banale, perché un problema non considerato e messo al margine, prima o poi si ripresenta con tutto il suo spessore. Dunque, partiamo da una considerazione molto semplice e documentata: i neuroni specchio sono stati scoperti nei macachi nemestrini, lo attestano libri e riviste che in genere riportano soltanto i disegnini della scimmia con lo sperimentatore, come in ogni manuale di psicologia. Riportare foto con scimmie a cranio scoperto, col cervello infilzato da elettrodi, magari renderebbe troppo l’idea sullo stato di avanzamento sia etico che scientifico della ricerca. Ma nonostante i disegnini, il problema rimane: i neuroni specchio esistono nella scimmia, e quindi tutto ciò che si postula sull’essere umano altro non è che una deduzione piuttosto sommaria e speculativa che auspica probabili (o improbabili) analogie. La diversità fra sistema animale e sistema umano racchiude distinzioni molto più pregnanti e significative rispetto alle similitudini, tali da rendere complicata l’estrapolazione dei dati da una specie all’altra. Occorre prudenza nel ricavare conclusioni quando si trasferiscono e si confrontano i dati da una specie all’altra, e questa prudenza sembra non aver caratterizzato affatto la scoperta dei neuroni specchio [1]. Le applicazioni di tale scoperta abbracciano numerosi campi di indagine piuttosto interessanti. Si realizzano ricerche sui processi di identificazione dello spettatore nell’attore, utili soprattutto a scoprire i meccanismi legati alle scelte di consumo nel marketing. Si tenta inoltre di spiegare i legami fra il funzionamento dei neuroni specchio e le opinioni politiche, o fra abitudini poco salutari quali il consumo di alcol, tabacco e droghe. Sembra che per i ricercatori costituisca un fatto di poco conto prendere atto che le scimmie non vanno al supermercato a fare la spesa, si astengono da sempre ad ogni tornata elettorale e giammai viene loro in mente di fumare o di prendersi una sbornia! Forse verrebbe da sorridere, eppure non si tratta purtroppo soltanto di una parentesi ironica, visto che nella letteratura scientifica è riportato che:

“Vi sono stati tentativi di insegnare il linguaggio alle scimmie, in particolare agli scimpanzé e ai bonobo, ma si è capito subito che sono assolutamente incapaci di parlare!” [2].

Questo passaggio è edificante nel descrivere e comprendere il paradigma di ricerca basato sul modello animale. Lascio a chi legge il compito di ricavare le proprie conclusioni, e di sollecitare una riflessione circa la validità di tale approccio nell’ambito della ricerca legata alla promozione ed alla tutela della salute umana.

 

Un neoriduzionismo rientra dalla finestra?

Nell’ambito umanistico, sono noti gli studi sul comportamento umano basati sul modello animale [3]. Il fondatore di tale approccio (denominato anche “prima forza”) fu John B. Watson (1878 - 1958), il quale realizzò una serie di metodi di studio basati tutti sul modello animale. Lo studio sul comportamento venne ridotto così ad una serie associativa di eventi Stimolo/Risposta, sollecitata da circostanze motivazionali legate a bisogni di base e di sopravvivenza (es: fame, difesa del territorio ecc.). Tutto ciò che non poteva essere compreso, non veniva automaticamente assunto ad oggetto di studio. Venivano così eliminati dallo studio sul comportamento, fattori decisivi quali le emozioni secondarie (sentimenti), valori e credenze, aspettative, attribuzione di significato all’esperienza dell’apprendimento, capacità di interpretare gli eventi e di ri-costruirli mediante atti creativi. Tale ipersemplificazione non risultò più adatta a comprendere per analogia il comportamento umano, e dovette essere abbandonata per poter in seguito sviluppare inevitabilmente modelli più evoluti, i quali poi negli anni a seguire avrebbero decisamente integrato le diverse correnti e prospettive di ricerca. In pratica, nell’ambito degli studi umanistici, attualmente risulta impensabile studiare l’apprendimento di un bambino mettendo in gabbia una colombella e registrando la frequenza del suo abbeverarsi. Insomma, per comprendere l’essere umano si deve studiare l’essere umano, e ci sono voluti decenni di ricerche per giungere a tale conclusione, almeno nel settore degli studi scientifico-umanistici. Evidentemente non è ancora così in altri campi di studio, a svantaggio del progresso circa la comprensione dell’essere umano. Si potrà obiettare che certe necessità sono nate per risolvere questioni di natura etica (specista), per esempio non si può abbandonare apposta un bambino o compiere atti di abuso su di esso, per verificarne le conseguenze sul piano emotivo e comportamentale. Sono certo che su questo vi sia un punto di fermo accordo fra tutte le varie dottrine di pensiero. La complessità della vita umana, con tutto il suo carico di disagio, viene però incontro alla scienza, producendo numerose occasioni di studio. I bambini abbandonati ed abusati esistono, nostro malgrado, e pertanto tale fenomeno può essere studiato direttamente, estraendo dati di rilevanza umana, certamente molto più attendibili e affidabili rispetto all’osservazione di un cucciolo di scimmia in gabbia, che viene terrorizzato da una scossa elettrica o da un rumore molesto e improvviso. Negli studi umanistici, infatti, per disporre di dati utili in tal caso, si fa riferimento all’esperienza clinica; si pensi per esempio alla ricerca sugli effetti dell’ospitalismo [4], espressione con cui si fa riferimento alla degenza dei bambini in orfanotrofio, secondo gli studi classici condotti da Renè A. Spitz (1887 – 1974).

In sintesi, soltanto quando l’indagine risponde al criterio della rilevanza umana, acquista un margine di affidabilità più ampio e più credibile, ritornando utile alla nostra specie. È assodato, ripeto, nel campo umanistico, anche se a quanto riportato in altra letteratura scientifica, ciò risulta ad esempio nel campo delle neuroscienze. Soltanto dopo il 2009, un gruppo di ricerca dell’Università della California e Los Angeles (UCLA), riuscì a dimostrare in modo diretto (cioè con dati di rilevanza umana), il funzionamento dei neuroni specchio nell’essere umano. E lo fece in un contesto clinico, dal momento che 21 pazienti dovettero essere sottoposti a interventi chirurgici a causa di una forma di epilessia non trattabile farmacologicamente:

“La procedura clinica per individuare la causa delle convulsioni comprendeva l’impianto di elettrodi nel cervello dei pazienti, permettendo di registrare l’attività di singoli neuroni” [5].

In assenza di dati a carattere specie-specifico, invece, si propende per la semplificazione, che se da una parte può essere utile per un primo abbozzo schematico, finisce sovente per creare un modello euristico sfuggito al controllo, che si presta ad un’interpretazione più idonea all’idea del ricercatore o che allo stesso tempo trova più successo nell’ambiente popolare. La necessità di rilevare informazioni a valenza intraspecifica, come impostazione di cui si avverte sempre più l’esigenza, ha condotto per esempio alla riedizione di diversi testi sui disturbi inerenti alla sindrome autistica o quadri simili, identificati all’interno della complessa costellazione nosografica indicata dal DSM V. Tale esempio è più che pertinente, dal momento che l’introduzione di tecniche sempre più sofisticate di brain imaging, ha fornito risposte che hanno obbligato a revisionare teorie e superare concezioni attualmente decadute, sempre in riferimento agli studi sui disturbi dello spettro autistico. Per citare un esempio: quando si ipotizzava il ruolo dell’amigdala nel coinvolgimento delle anomalie comportamentali e nel deficit comunicativo e sociale in un soggetto autistico, tale intuizione si è rivelata infondata dal momento che, perfino all’interno della stessa specie studiata, ovvero le scimmie rhesus, si è riscontrata una tale discrepanza di dati che si è dovuta abbandonare tale supposizione. In pratica, lesionando chirurgicamente il lobo temporale di tale specie di scimmie, e rimuovendone l’amigdala, si potevano osservare comportamenti differenti in funzione dell’età dei primati: i giovani perdevano il senso dell’iniziativa e dell’interesse nel contatto sociale, manifestando inespressività facciale, mentre gli adulti perdevano la memoria. Risultati differenti perfino all’interno della stessa specie! L’evidente inutilità di tali esperimenti, legati a pratiche eticamente inaccettabili e concettualmente superabili, ha fatto concludere che i modelli animali rimarranno sempre insoddisfacenti, in quanto i sintomi da spiegare fanno parte di aree espressive di tipologie di comportamento e di linguaggio che sono esclusiva dell’essere umano [6].

Le informazioni scientifiche nell’ambito della letteratura prodotta sui disturbi pervasivi dello sviluppo o su difficoltà dell’apprendimento anche a carattere dominio-specifico, si basano infatti su evidenze di rilevanza umana, estrapolata grazie alle tecnologie della neuroimaging. Soltanto affidandosi a queste metodologie è possibile infatti pubblicare informazioni corrette, e spiegare con un maggiore margine di affidabilità aree problematiche legate ai processi attentivi od ai comportamenti problema. Controlli basati sulle tecniche di neuroimaging sono in grado di dare riscontri comparativi sugli aspetti e le strutture neuro-anatomiche, dimensioni di aree cerebrali e rispettivi livelli di attivazione [7].

In ogni caso, la portata di tali informazioni non sarebbe sufficiente per quanto riguarda la qualità del lavoro educativo a valle, in quanto misurarsi con la complessità del fenomeno richiede prendersi cura di aspetti e dimensioni della persona che richiedono strategie efficaci, le quali esulano dalle cause accertate o da eventuali ipotesi eziologiche in merito all’origine di vari disagi e difficoltà espressive rilevate nel soggetto umano. È per tale ordine di motivi che gli entusiasmi suscitati e vissuti intorno alla scoperta dei neuroni specchio, si sono rivelati come prematuri. Aver scoperto i neuroni specchio non equivale ad aver accesso ai diversi misteri insoluti dell’essere umano. Una simile conclusione, se non fatta in malafede, in alternativa sarebbe semplicemente un’affermazione ingenua. Eppure il deficit di cultura umanistica ammette molto spesso asserzioni così incaute e frettolose, soprattutto in un terreno dominato da un orientamento organicista e medicalizzante. Mi rincresce, come studioso e cultore di discipline umanistiche, che tale approssimazione sia stata cavalcata anche in questo ambito di ricerca, in cui il tema della complessità e della irripetibilità dell’identità umana costituiscono i due nuclei fondanti dell’interesse verso l’essenza dell’individuo umano. Egli è infatti più della somma delle sue singole parti, quindi anche più della sommatoria semplice dei suoi neuroni specchio e delle loro attività. Considerata la complessa natura umana, sarebbe un approccio oltremodo riduzionista avanzare azzardate spiegazioni, facendo capo a un sistema di cellule poste in dubbia analogia col cervello delle scimmie. Eppure è ciò che accaduto, sfoltendo tutti gli elementi di criticità che vi sono correlati. La suggestione teoretica si è presentata come irresistibile; salvo verificarsi, in seguito, il momento di dover fare i conti con una realtà molto più sfuggente ed articolata.

 

Complessità VS Semplificazione

Il tema più eclatante, che ha fondato il castello di teorie sulle implicazioni comportamentali dei neuroni specchio, si riferisce all’equazione fra osservare e comprendere. Secondo i sostenitori di tale assunto, in pratica, il fatto di osservare un’azione conduce immediatamente alla comprensione della stessa. Tuttavia, il concetto di ‘comprensione’ include inevitabilmente il processo interpretativo dello scopo a cui è diretta un’azione. E lo scopo, a sua volta, implica la capacità di intuire o prevedere le intenzioni altrui, di condividerle o rifiutarle, e di accoglierne gli stati d’animo con cui sono connesse. A ciò, inoltre, deve essere aggiunta la capacità di decodificare il contesto dentro cui l’azione si svolge, e quindi di leggerne ed interpretarne il senso anche in funzione della cornice dentro cui si situa. Insomma, un bel coacervo di competenze e di abilità che non si limitano al semplice aver osservato come si realizza e si compie un’azione. Se infatti tutto fosse così semplice, non si avrebbe alcun dubbio nel postulare una linearità causale fra azione e sviluppo di competenze socio-cognitive. Avremmo a disposizione uno schema unilaterale che ci garantirebbe che l’azione è la causa prima di ogni impalcatura evolutiva dell’agire umano, e che per dirigersi verso uno scopo è sufficiente osservare quello che fanno gli altri. Pur non trascurando l’importanza dell’apprendimento per osservazione, è ben noto che se ciò può valere per strutturare un comportamento finalizzato, non è più sufficiente per spiegare come si interiorizzano atteggiamenti e sistemi personali di attribuzione di significato al mondo. Non basta imitare. Il bambino imita, ma spesso non è in grado di elaborare il senso del modello verso cui si ispira, specie se richiede una decodifica che trascende l’aspetto puramente visivo e comportamentale. Ergo, non siamo esseri sociali soltanto a causa dei neuroni specchio! E quanto meno possiamo asserire che ci basti provare un’emozione per poterla comprendere. Sarebbe un’affermazione avvinta da una sconcertante superficialità. Alla base di un processo di consapevolezza emozionale, infatti, vi è anzitutto la capacità di registrare almeno esperienze sensoriali, per poi procedere in un cammino progressivo che prevede l’aumento della competenza nel linguaggio emozionale, che consiste nell’identificare l’esatta connotazione emozionale, nonché il relativo livello di intensità associato, il significato esperienziale, il bisogno che si sta dichiarando e l’eventuale piano di azione congruente legato ai complicati processi decisionali di ciascuno. Quindi, se un meccanismo specchio spiegherebbe dinamiche comportamentali ed emozionali, esso va collocato nell’ambito delle espressioni di base o semplici, dell’essere umano, visto che dal momento in cui ci si affranca dall’area delle risposte riflesse e dagli automatismi, il sistema specchio è influenzato da inferenze a carattere superiore e secondario, ovvero intervengono processi psichici più strutturalmente complessi, quali il controllo, la metacognizione, la scelta, l’attenzione volontaria, il libero arbitrio, la capacità critica, l’abilità introspettiva e di lettura del Sé. Ciò accade perché:

"Queste emozioni per essere comprese possono richiedere la conoscenza, l’analisi e l’integrazione di molteplici elementi del contesto, l’accesso a contenuti mentali specifici e l’utilizzo di competenze cognitive come la valutazione di scopi, obiettivi e motivazioni della persona osservata (…) Nel caso delle emozioni più complesse e sociali sono importanti quindi molti altri meccanismi oltre al sistema specchio” [8].

Dunque, se di complessità vogliamo comprendere, è nell’area in cui questa si manifesta che dovremmo andare a cercare. L’animale, perciò, è un organismo piuttosto inadatto per aiutarci a valutare scientificamente tali processi, in quanto le funzioni citate sono prerogativa del complesso organismo umano, provvisto di un repertorio di risposte e di programmi che non ammettono riduzionismi e visioni separatiste del suo funzionamento sistemico e integrato.

Una ricerca che parte dall’animale per spiegare l’umano fornisce storicamente queste ingiuriose lacune. Su questo punto, pare che invece continui ad attestarsi un tipo di procedura completamente imprigionata da un retaggio cartesiano ancora troppo imperante, che vede la natura umana a scompartimenti stagni e modellata da unità senza alcun rapporto di interdipendenza reciproca. Oggi sappiamo quanto questo modello obsoleto sia stato alla base di una certa cecità scientifica nel campo degli studi umanistici.

 

Conclusioni

Appurato che non sono i neuroni specchio a rendere conto in modo esaustivo di fenomeni di risonanza emotiva interpersonale, di identificazione, di reciprocità speculare e di empatia, occorre restituire una corretta versione dei fatti. Queste aree di studio, a forte valenza umanistica, hanno già concesso fin troppo alle teorie organiciste, permettendo loro di frenare quello che sembrava un processo verso un ritrovato paradigma transpersonale e olistico, che è auspicabile recuperare, sia per portare avanti la conoscenza, superando il tabù cartesiano del dualismo Corpo/Spirito, sia per sottrarre le discipline umanistiche alla sudditanza dell’imperante cultura medica ad orientamento organicista e meccanico.

Giusto per precisare, il contributo delle neuroscienze alle discipline umanistiche è più che encomiabile, anzi un auspicio verso un procedere sempre più integrato, destinato a superare i tradizionali steccati epistemologici. Quello che però si dovrebbe chiedere è una reale situazione di pari collaborazione fra le due aree, senza dominatori e dominati. Si avverte inoltre la necessità di una ricerca continua ed inarrestabile, ma anche sottratta alle lobbies, quindi libera per davvero, che finanzi anche i modelli avanzati, senza discriminare, irridere e ostacolare chi sta proponendo un progresso autentico.

Una parte sempre più crescente della comunità scientifica avanza tali istanze, promuovendo conferenze, attività divulgative, pubblicando ricerche e diffondendo i propri lavori preziosi. Non è un caso che evoluzione scientifica ed etica procedano allo stesso passo, una discrepanza fra le due è storicamente contrassegnata da errori umani, anche con conseguenze più che deleterie. Se abbiamo scoperto e dedotto l’esistenza di un sistema specchio che ci rende esseri sociali, in grado di corrispondere gli uni agli altri, attivando processi di confronto, mediazione, cooperazione, risposte di prossimità legate a un repertorio di abilità pro-sociali, forse dobbiamo anche chiederci quale vantaggio reale ne possiamo ricavare, al di là delle speculazioni concettuali. Dovrebbe piuttosto svilupparsi una responsabilità educativa sull’uso efficace di tali funzioni, altrimenti che senso avrebbe sapere di possedere caratteristiche non potenziate o addirittura usate a fini manipolativi? Ancora una volta, ecco emergere necessarie domande a carattere morale che non dovrebbero essere affatto estranee all’operare su basi scientifiche, soprattutto dovendo constatare che una scienza priva di una riflessione e di una componente etica, quale è per esempio la vivisezione o sperimentazione animale, costituisce non a caso un blocco sia per l’evoluzione umana che per il progredire della strumentazione tecnologico-scientifica da cui conseguire buon profitto, a vantaggio soprattutto dell’essere umano e del suo processo del divenire.

dott. Nuccio Salis (Pedagogista Clinico, Counselor Socio-Educativo, Formatore Analitico-Transazionale)

Riferimenti testuali e bibliografici:

[1] G. Hickok, Il mito dei neuroni specchio, Torino, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 37-50.

[2] L. Craighero, Neuroni specchio, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 103-104.

[3] R. Canestrari, Manuale di psicologia generale, Bologna, CLUEB, vol. II, 1984, pp. 198-225.

[4] R. A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Firenze, Giunti, 1962, pp. 121-130.

[5] Hickok, cit., p. 48.

[6] U. Frith, L’autismo, Bari, Laterza, 2005, pp. 242-244.

[7] C. Cornoldi, Difficoltà e disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 233.

[8] D. Roganti, P. E. Ricci Bitti, Emozioni allo specchio: i neuroni dell’empatia, in “Psicologia Contemporanea”, anno XXXVIII, n° 228, (2011), pp. 54-57.

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