PROBLEMI E SITUAZIONI COMPLESSE

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Oltrepassare un modo di affrontare  le relazioni:

 problemi  (I problemi possono essere risolti);

 situazioni complesse   (Con le situazioni complesse possiamo soltanto convivere). 

La maggior parte dei problemi non sono problemi!

La maggior parte dei casi della vita, e in particolare i più intimi e i più importanti, come il matrimonio e l’educazione dei figli, sono dilemmi complicati, dai quali non si esce: sono situazioni per le quali non esistono opzioni migliori delle altre.

Un problemanasce da qualcosa che non funziona come dovrebbe, da un errore, un difetto, una malattia o una brutta esperienza. Quando abbiamo trovato la causa, possiamo risolverlo.

Una situazione difficile, invece, è più probabile che sia dovuta proprio a condizioni favorevoli! Èper questo motivo che possiamo soltanto cercare di conviverci.

 

Nelle situazioni difficili, infatti, il problem solving non serve che a complicare ulteriormente le cose.

Prendiamo, ad esempio, la criminalità.

Noi pensiamo che il crimine sia un problema e quindi siamo sempre alla ricerca delle cause che ne sono alla radice: ad esempio un’infanzia infelice, la pornografia, gli spettacoli di violenza offerti dal cinema e dalla televisione. Ci farebbe comodo che fosse una semplice questione di causa ed effetto, e quindi cerchiamo sempre di dimostrare che il crimine ha una causa da scoprire ed eliminare.

Paradossalmente, però, la criminalità è dovuta soprattutto ad aspetti della nostra società cui non vogliamo rinunciare: benessere, urbanizzazione, mobilità, libertà, materialismo, progresso. Nel mondo occidentale in genere la criminalità è associata allo sviluppo, che noi giudichiamo un progresso (le magnifiche sorti e progressive, di Leopardi nella Ginestra).

Volendo cercare di risolvere il problema, la situazione allora si complessifica e si entra in aporie, paradossi e vicoli ciechi.

Mali sociali come la disoccupazione e la povertà contribuiscono certamente ad alimentare la criminalità, ma esistono paesi in cui la povertà è molto più diffusa che da noi e dove praticamente non c’è criminalità. La criminalità nasce anche dagli sforzi compiuti per combatterla. Le prigioni, ad esempio, tendono ad inasprire e a formare i criminali, i quali, quando escono, è probabile che commettano crimini ancora più gravi.

Una situazione difficile, insomma, peggiora quando la trattiamo come un problema.

La modernità tecnocratica tende sempre più a considerare anche le relazioni umane come un fatto di abilità e di tecnica. Ma quando trattiamo con le persone (soprattutto quelle cui teniamo di più) in modo “moderno” queste abilità tecniche ci piantano in asso.

Ricordo le confidenze di un dirigente del personale di una società petrolifera: era sconcertato dal fatto che mentre riusciva a gestire con grande abilità centinaia di dipendenti, era assolutamente incapace di applicare le sue competenze nella gestione delle sue relazioni familiari. Dopo che era rientrato a casa, il figlio di 4 anni in pochi minuti lo faceva sprofondare in una profonda crisi con sensi di inadeguatezza e impotenza.

Nelle relazioni affettive conta ciò che siamo e sentiamo, più di ciò che sappiamo e sappiamo fare. Le persone reagiscono a ciò che siamo: se siamo attenti, sensibili e affettuosi, piuttosto chedistratti, freddi e indifferenti; oppuretimorosi, delusi e sfiduciati.

Chi ha un problema va da un tecnico (un esperto, uno specialista); ma chi vive una situazione difficile cerca un incontro da persona a persona. In questo incontro dialogico e conviviale il “come” ci si relaziona ha molta più importanza del “cosa” si dice o del problema che si affronta. Alle volte il prendere una mano, l’offrire un’attenzione silenziosa ed empatica, il rendersi sinceramente presenti è più significativo di cosa diciamo. Il come ci relazioniamo è molto più significativo del cosa facciamo e del risultato immadiato.

L’essenziale non è tanto nelle parole che diciamo quanto nella nostra qualità di presenza, nella nostra autenticità e congruenza, nella serenità e onestà dei nostri feedback.

Ci sono delle situazioni complesse che non possono essere ridotte in termini tecnici e in condotte lineari e immediatamente efficaci. È essenziale che il linguaggio e le condotte rispettino la complessità delle persone e non banalizzino i significati personali.

Chi tende a giudicare e a dare soluzioni rischia di non rispettare la complessità di ogni singola persona.[1]

Per questo chiediamo ai counselor di esercitarsi nell’epoché (sospensione dei giudizi e dei saperi) e di centrarsi sull’ascolto.

Nella relazione da persona a persona il giudizio, l’abilità dialettica e le tecniche specialistiche sono fuori luogo. La qualità della relazione chiede tutta la nostra attenzione amorevole e la nostra umiltà consapevole.

Chi ama le persone e crede nelle persone non sente più il bisogno di giudicare! Se anche nelle nostre relazioni con le persone insorge il bisogno di giudicare, allora la nostra paura e la nostra occidentale ossessione per la sicurezza e il controllo sono più forti del nostro coraggio, della nostra fede e del nostro amore!

La relazione “conviviale” si centra sulle persone e trova esempi di qualità dialogiche sia nella migliore tradizione classica sia nella esemplarità evangelica di molte persone.

 


[1]Un anno prima della sua morte, in un incontro, qualcuno chiese a Carl Rogers: “Cosa di veramente importante ha imparato in tanti anni di pratica della terapia e del counseling?”

Carl Rogers rispose: “A rispettare la complessità di ogni singola persona”.

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