ESSERE NEL TEMPO. Costruire il futuro col peso del passato

Inviato da Nuccio Salis

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Riscrivere la propria storia è uno dei principali obiettivi che si desidera perseguire, nel caso in cui si sia motivati da un forte sentimento di riscatto personale. Riprendersi la rivincita è un’istanza molto comune e molto diffusa. Quasi tutti noi abbiamo almeno un qualche rimpianto, un molesto pensiero più o meno ricorrente su occasioni mancate, su opportunità perdute e su tutti quegli eventi circostanziati che spesso ci portano a riflettere su quello che avremmo potuto o non potuto fare, ed immaginare le conseguenze più favorevoli. Spesso, nel fare questo, dimentichiamo però che in realtà nessuna scelta è oggettivamente giusta o sbagliata, ma che è strettamente legata alla sua contingenza temporale, per cui è opportuna o poco vantaggiosa sulla base del contesto storico e personale che al momento si presenta. Col senno di poi sembriamo dimenticare, e ci autoaccusiamo di aver assunto decisioni forse un pò troppo affrettate, o magari di essere stati poco assertivi o poco coraggiosi, in certi momenti, subendone le nefaste conseguenze nell’attuale vissuto.

Anche in questo caso, dimentichiamo di esserci posti dentro un percorso di crescita, e che nel momento in cui prendevamo decisioni che ora consideriamo discutibili, lo stavamo facendo a ragione del nostro livello di maturità esperienziale dell’epoca, e in riferimento alle risorse personali e contestuali di cui disponevamo. Pertanto non val davvero la pena crucciarsi su alcuni momenti del passato che non abbiamo saputo gestire, perché sarebbe un pò come pretendere da se stessi che già a sei anni ci saremmo dovuti dedicare seriamente allo studio, pensare a un futuro, investire sulle nostre capacità, invece di stare a spingere le macchinine contro il muro. Ed a 14 anni? Perché a quella festa non ho chiesto a quella ragazzina di ballare con me? Eppure mi dicevano che mi guardava. Oggi però sono pronto, oggi non andrebbe così. Appunto: oggi.
Sembra che facciamo tutti una certa fatica nel concepirci come esseri in evoluzione, a perdonarci le nostre inevitabili immaturità contingenti al periodo che attraversiamo. Se adottiamo questo atteggiamento con noi stessi, peraltro, saremmo tentati e propensi ad usarlo anche con gli altri, rischiando piuttosto facilmente di passare dall’auto-biasimo all’accusare le persone, per quello che hanno o non hanno fatto o per quello che hanno o non hanno detto.
Molto spesso, questo rimuginio del nostro passato, oltre che produrre effetti di caduta del tono dell’umore e dell’autostima, ci impedisce anche di proiettarci verso un orizzonte di progettualità futura, distraendoci dalle risorse e dalle possibilità straordinarie che possiamo sviluppare ed offrire a noi stessi. Spalancando l’uscio ai fantasmi del nostro ieri, rischiamo di rimanere invischiati dentro un groviglio di nodi irrisolti, ferite scoperte, punti vulnerabili, dai quali spesso si esprime la parte più disfunzionale di noi. Il dolore riemerge come un magma inarrestabile, e finisce per travolgerci, per farci sentire confusi ed inadeguati. Capita sovente di associare tali spiacevoli stati d’animo alla tragicità di un passato che ci perseguita. Ciò viene anche volentieri usato come espediente per colpevolizzare eventi non diversamente gestibili e fuori dalla nostra possibilità di controllo, ed assottigliare così un concreto desiderio di ricostruire la propria esistenza, su parametri di maggiore equilibrio. Scoraggiati da certe strazianti reminiscenze, la resa disfattista si profila come unica strategia passiva per non ricontattare il dolore e per evitare di essere lacerati da spiacevoli ricordi e rammarichi.
Certo, le pastoie del tempo sono spesso spietate, e rivestono un ruolo che non disdegna di manifestarsi come vessatorio, crudele e non sempre contenibile. Non è un caso, fra l’altro, che la filosofia si è dovuta occupare del rapporto fra l’uomo e la temporalità. L’essere umano, infatti, avendo il senso del tempo, e la consapevolezza che lo scorrere dello stesso conduce all’invecchiamento e al decesso, deve trovare i modi per convivere con questa idea cosciente, e per non sopperire all’angoscia dell’inutilità della vita. L’impostazione nichilista ed esistenzialista, descrivono in questa circostanza l’essere umano come entità naturale oppressa da uno schiacciante senso dell’inutile, che si estende per tutto il cammino direzionale del tempo (sia esso lineare o circolare), e che rende inesorabile l’esperienza del terrore primordiale.
Come contromisura si usano troppe volte delle frasi fatte di circostanza, del tipo “la vita deve andare avanti”, “facciamoci forza e non abbattiamoci, su che tutto piano piano si sistemerà…” e via dicendo.
Non avendo ricevuto un’adeguata educazione socio-affettiva, non sappiamo riconoscere ed affrontare il dolore, tantomeno vorremmo vederlo negli altri. La società è dei forti, di quelli che lottano e che stanno in piedi, che sgomitano per arrivare primi, sicuri delle loro qualità, perché hanno capito che l’autostima è tutto. Il dolore deve quindi scomparire?
Credo non si tratti di evitare il dolore o accantonarlo, rimuoverlo o se possibile ignorarlo in quanto oramai è cosa passata. Probabilmente, l’interesse nell’interpretarlo può produrre una maggiore comprensione di se. Decriptare gli elementi strutturanti di una ferita passata, se da un lato si presenta come una procedura a carattere abreativo, d’altra parte impone anche di sapersi distinguere dal trauma che ha edificato gran parte del nostro vissuto, per non identificarsi col dolore stesso. Noi non siamo “lui”. Convive con noi, magari come inquilino abusivo, come ospite sgradito, ma non coincidiamo. Se non possiamo sfrattarlo, concediamogli la possibilità di riposare pure in qualche angolino, senza permettergli di turbarci troppo e di infastidirci. Dopotutto si trova sempre a casa nostra, e siamo noi a decidere come arredare, cosa ristrutturare, scegliendo tempi e modi, senza consultarlo. Forse, in questo modo sarà lui a comprendere che è giunto il momento di fare le valigie.
A noi spetta il diritto di continuare a vivere, ma non perché ce lo impone la comunità, che anzi non ha gli strumenti interpretativi del dolore, e preferisce proteggersi dietro l’eco dei luoghi comuni; ma perché il nostro bisogno del vivere è dato dal diritto al riscatto e ad una trasformazione consapevole. Per questo, specie negli orientamenti all’aiuto come il counseling, si sente spesso parlare dell’approccio del “qui ed ora”. Non è uno slogan che sancisce l’appartenenza partigiana ad un modello, quanto piuttosto una sollecitazione a guardare alle cose che abbiamo saputo costruire nel tempo, nonostante gli ostacoli, per confermare e rilanciare a noi stessi l’immagine di una persona capace, che sa affrontare lo scorrere del tempo non soltanto perché strappa i mesi dal calendario, ma perché restituisce concretamente, a se stesso, i risultati di una progettualità personale che intende ancora continuare a meravigliarsi, ad eccitarsi per le scoperte e le novità che verranno. Non consiste forse in questo, d’altronde, la straordinaria avventura del vivere?
 

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