Il fatto che il counseling non sia caratterizzato da una finalità clinico-diagnostica, e che non abbia né la vocazione, né l’interesse e ancor meno la legittimazione scientifica a compilare protocolli e refertare categorie nosologiche, lo espone ad essere diffusamente riconosciuto soprattutto per ciò che non è o che non può fare, piuttosto che ad essere identificato in una definizione ad enunciato affermativo e positivo.
Eppure, chi impiega processi di investigazione diagnostica che guardano ad un rigore strutturato, composto da check-list, griglie di lettura standardizzate e collaudate, si ritrova ormai da tempo nella condizione di dover ammettere l’insufficienza esaustiva degli strumenti di indagine clinica, soprattutto dal momento in cui si appalesa la necessità crescente di dover non soltanto inquadrare il soggetto esaminato all’interno di una sicura cornice “psicometrica” in grado di stilarne un preciso ed accurato identikit, ma anche di doverlo comprendere davvero nelle sue dinamiche esistenziali, poiché si ritiene sempre più che siano proprio gli elementi portanti della struttura personologica di un individuo, a caratterizzare quella costellazione interiore che ne rendono una persona sostanziata da unicità e irripetibilità.
Lo studio sull’ “altro da noi”, condotto mediante modelli e procedure con direzione squisitamente quantitativa, da una parte soddisfa la domanda di collocazione categoriale generica e specifica, rende comoda ed assicura, entro un certo limite, l’identificazione sintomatologica di un espressione psico-comportamentale da definire, conduce con ragionevole tempistica a una o più risposte metodologico-terapeutiche altrettanto uniformate alle più note ipotesi di intervento. Tuttavia, tale procedura trasforma la persona in un dato statistico, la cui reazione serve soltanto a completare, per conferma oppure per invalidazione, il processo teorico e la sperimentazione empirica a cui la persona medesima è sottoposta.
Tale linea di intervento, inoltre, situa l’individuo in una posizione di sudditanza rispetto al terapeuta, che può facilmente manifestare forme di prevaricazione e di abuso sulla controparte, in quanto la procedura esclusivamente focalizzata sul malessere, fa dimenticare la persona che ne è portatrice. La sofferenza diventa allora soltanto il fastidio, il sintomo o la sindrome da eliminare, con la metodologia convenzionale che non ammette spazi di lettura soggettiva sulla tipologia espressiva della persona e del disagio di cui è portatrice. Secondo questo modulo non c’è dunque un soggetto portatore di bisogni speciali o richiedente ausili di intervento individualizzato, ma una malattia da estirpare, una disfunzione da medicalizzare, una disarmonia da riequilibrare mediante un percorso meccanicistico e decentrato dall’individuo. Dentro questa visione, il soggetto non ha un difetto, egli è il difetto, e la cura coincide con la soluzione protesica che riarmonizza la struttura compromessa.
Ciò che è più apertamente descrittivo del soggetto accolto, invece, viene talvolta incautamente compresso ai margini, sottostimato con uno sconcertante e puerile pressapochismo. Le emozioni, la storia, il sistema interno di convinzioni, vissuti, valori, le ipotesi progettuali e le tensioni esperienziali del soggetto preso in carico non sono fattori presi in considerazione, semmai addirittura, in certi contesti, percepiti come disturbanti e incongruenti con la tipologia dell’intervento standard, che non obbliga alla ricerca, ripara da ingestibili coinvolgimenti col fenomeno preso in cura e protegge da sofisticati approfondimenti considerati contaminanti verso l’attendibilità scientifica dell’azione terapeutica.
La fallacia di questo sistema di presa in custodia di un soggetto in stato di bisogno, ha aperto da diverso tempo un dibattito a connotazioni altamente conflittuali, dovute in gran parte ad irriducibili oltranzisti della tradizione che non si piegano di fronte ai limiti ed alle conseguenze discutibili di un approccio radicalmente quantitativo, che spersonalizza l’individuo, lo sradica da un senso di se proprio nel momento in cui gli andrebbe ampiamente valorizzato ed elevato a stima e considerazione, per tamponarne la vulnerabilità che egli avverte dentro il contesto dell’aiuto, nel quale assume il ruolo dell’utente.
L’aspetto da tenere in forte considerazione è che le informazioni fornite dal consultante, in merito ai contenuti esperienziali del proprio modello esistenziale, non possono essere superficialmente stimate alla stregua di meri dati o pure nozioni che descrivono un corollario di elementi sintomatologici da incasellare dentro schemi preformati previsti dalle nomenclature vigenti. L’impianto narrativo presentato dal cliente, è invece la risultante di una dimensione globale e pluri-sfaccettata che attesta una forma mentis in grado non soltanto di incamerare stimoli dall’ambiente, ma di restituirli mediante un’attitudine ricettiva ed attiva, presente in qualunque organismo reattivo, benché eventualmente connotato da elementi di non piena o poco completa espressione funzionale. Questo solleva una legittima obiezione verso l’analisi espressamente quantitativa del dato noto, in quanto priva e spoglia quest’ultimo del suo valore connotativo-simbolico, di cui è invece investito grazie allo psichismo dell’interlocutore con cui ci si confronta.
L’oggettività del dato, dunque, è solo presunta, una ineluttabile illusione che proprio ammantandosi di scientificità, spinge alle estreme conseguenze la neutralità del contenuto informazionale, svestendolo di quel carico di valenza proiettiva di cui è invece intriso. Il sintomo rilevato, dunque, non è soltanto un criterio di validazione diagnostico, e sarebbe oltremodo pretestuoso esentare dal modello interno di significazione di cui è portatore ciascuno di noi. Il dato è invece la rappresentazione di un modus vivendi, la cui lettura dello stesso è da considerarsi completa dal momento in cui viene processata misurandolo, quindi, non soltanto come “dato-significante” (ovvero come si presenta la nota informativa), ma anche come “dato-significato”, cioè considerato all’interno dell’orizzonte esperienziale di un Io narrante che lo rivela, e che lo investe di uno spessore soggettivo, attribuendogli un personale valore sulla base di costrutti ed orientamenti del tutto individuali. Soltanto perseguendo quest’ultima modalità di percorso, a mio modesto avviso, potremo coniugare le coordinate cliniche del dato col suo valore descrittivo della persona che lo esperisce, e finalizzarne l’uso in termini realmente inclusivi e comprensivi del soggetto che ce lo mostra e ce lo invia. Ancora una volta, sottolineo, soltanto mediante questa filosofia di intervento, il dato che ci viene consegnato dall’interlocutore consultante può davvero rivelarsi come strumento possibile di un dialogo in divenire, che genera senso, che addensa significati in grado di costruire quel ponte comunicativo fra l’operatore e il cliente, nella prospettiva di far emergere e lievitare le risorse residue e funzionali di chi riceve guida e sostegno.
Ciò che occorre sempre più, dunque, è ricorrere ad una struttura processuale anamnestica che mobiliti ciascun profilo professionale verso una formazione scientifico-umanistica sempre più rigorosa, continuamente affaccendata nella crescita formativa e fruttuosa nelle su declinazioni concrete e contestuali.
Per poter raggiungere quote di spessa credibilità ed elevarsi su un piano di piena validazione scientifica,l’anamnesi dovrà rispondere a precisi e circostanziati criteri procedurali. Questi possono essere annoverati almeno nei seguenti e irrinunciabili pilastri: a) osservazione globale od olistica, b)funzionalità delle risorse residue o latenti, c) centralità della persona.
Al primo punto, si tratta di concepire la persona come un sistema. Il disagio o la sofferenza che il soggetto desidera fronteggiare, è rivestita di un valore insito in quella costellazione di variabili interdipendenti che compongono il sistema persona, cioè una complessa struttura psichica, aperta e dotata di congegni reattivi, consci ed inconsci. L’individuo viene dunque letto ed interpretato sforzandosi il più possibile di “vedere coi suoi stessi occhi” le ipotesi di realtà circostante. Ecco che allora, raccogliere dati e informazioni sulla storicità del soggetto, significherà tenere conto di come egli si rapporta con se stesso in funzione della propria esperienza narrante e generatrice dinamica di vissuto. Sarà dunque opportuno e doveroso verificare come egli si relaziona con la dimensione dell’altrui, nello specifico anche mentre si autorivela, con l’obiettivo di compenetrarne empaticamente il mondo interiore, sentendo e osservando come reagisce al confronto, quali attese e domande emergono in lui durante il colloquio, come vive l’impatto dello stesso e come processa ed organizza tutto questo corollario di elementi caratterizzanti il proprio Sé e la propria identità.
Il secondo aspetto richiama alla necessità di ricercare e far emergere le potenzialità fino ad allora inespresse, taciute magari da blocchi di natura emozionale. Spesso, le abilità residue risultano congelate dentro una cronicità che può essere ascritta rispettivamente a fattori genetico-costituzionali, socio-culturali o secondo una combinazione fra questi. Compito dell’operatore dell’aiuto è esattamente quello di creare attività, progetti e spinte motivanti che sollecitino alla partecipazione e scoperta attiva delle aree funzionali o semi-funzionali. La ricaduta in termini di ridefinizione di sé è un esperienza psicologica di elevato impatto, da accompagnare ed ammortizzare con tutte le contromisure appartenenti al repertorio strumentale dell’operatore dell’aiuto.
Il terzo ed ultimo step si riferisce a tutto ciò che è già stato sviluppato prima, in termini concettuali, circa le riflessioni sulla necessità di ricollocare sempre la persona al centro dell’intervento di supporto. Se l’ago della bilancia permane la centralità dell’individuo, come unico detentore dell’autenticità dei significati da lui stesso esperiti, l’impegno allora può indirizzarsi verso quell’ascolto accettante e incondizionato che si alimenta della competenza empatica da parte del consulente.
Tutto ciò continua ad avvalorare ed accreditare l’esistenza del counseling, non più soltanto strumento ausiliario di professioni già collaudate, ma vera e propria disciplina che ultimamente sta dimostrando di saper ispirare nuovi orientamenti procedurali nell’ambito clinico, i quali, ponendo coraggiose sottolineature ai limiti e alle imprecisioni dei loro paradigmi teorico-operativi, stanno correndo ai ripari per ricoprire la grave falla circa l’assenza del valore della persona nel trattamento terapeutico, e nel far questo assumono proprio i contributi scientifici del counseling, guardato come sicuro ed affidabile contenitore di conoscenze circa la cura degli altri e della persona.
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