Questa idea della filosofia come "cura" non è certo nuova, basti pensare al quadrifarmaco di Epicuro come rimedio efficace ai mali che affliggono l'uomo:
1) non sono da temere gli dei, in quanto vivono la loro vita beata e non si curano di noi mortali;
2) la morte non è da temere: finché ci siamo noi lei non c'è, e quando c'è lei non ci siamo più noi;
3) il piacere, correttamente inteso, è alla portata di chiunque;
4) infine il male: se è acuto, dura poco, se invece dura a lungo, significa che è sopportabile.
Ma l'imperturbabilità degli epicurei (atarassia) assomiglia più a una fuga che a una accettazione della vita con le sue gioie e le sue pene, e una vita senza più passioni e i cui piaceri consistono nella mancanza di dolore non pare proprio, si direbbe oggi, il massimo della vita. Diverso è il discorso sui limiti e sulle possibilità, su ciò che è ragionevole e ciò che non lo è, sulle cose che dipendono da noi e su quelle che eccedono il nostro potere. Una delle funzioni della pratica filosofica è proprio quella di far riconoscere le illusioni e le false credenze su noi stessi e sul prossimo, illusioni e credenze che magari ci consolano, ma che di certo non ci aiutano a vederci e a considerarci non per quello che crediamo o vorremmo essere, ma per quello che veramente possiamo essere.
E per questo non è sufficiente il senso comune: senza il pensiero critico, cioè il dubbio metodico che metta in discussione tutte le nozioni e le credenze acquisite, non ci rimarrebbe che accettare le opinioni maggioritarie nel nostro ambiente sociale, e adeguarci alla verità del più forte, non alla forza della verità. Dunque, o come pratica o come disciplina, come indagine e definizione del vero, del bello e del buono o come tentativo di chiarificazione del senso della nostra vita, sembra proprio che philosophari necesse sit. Il sorprendente e crescente successo delle occasioni in cui il grande pubblico non specializzato gremisce le sale o le piazze per ascoltare la lectio magistralis di questo o quel filosofo famoso è lì a dimostrare la perenne vitalità della febbre d'amor platonico per il sapere disinteressato, o meglio, di quel sapere che ci riguarda più da vicino in quanto esseri umani, quindi pensanti; febbre contagiosa quant'altre mai, se solo i "portatori sani" di questa mania (follia) riusciranno a comunicarla, a trasmetterla, a condividerla con chi ancora si ritiene immune o indifferente riguardo a questa specie di amore.
Inoltre, questo amore per il sapere, anche per il sapere puro e assoluto, non è che non abbia le sue ricadute nella prassi, cioè nella nostra vita quotidiana e nel nostro orientamento nella storia e nel mondo: date le nubi minacciose che si addensano all'orizzonte della storia in cui ci troviamo a vivere e di cui siamo, o dovremmo essere consapevoli e sentirci responsabili; e del mondo che i maggiori pensatori contemporanei, da Heidegger, a Jonas, ad Habermas considerano a rischio di estinzione per eccesso di "razionalità" meccanica e tecnologica. La morte di Dio annunciata da Nietzsche rischia di trascinare con sé anche l'uomo: il Dio della tecnica non sembra in grado di salvarlo dall'alienazione di cui parlavano, sia pure in sensi diversi, Hegel, Feuerbach e Marx.
Eh sì, oggi più che mai c'è bisogno di febbre filosofica "per tutti".
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