Vendere la sabbia nel deserto, sarebbe possibile? Chi comprerebbe un bene a disposizione così in abbondanza? Sarebbe sufficiente chinarsi e procurarsela da se, o aspettare una tempesta di sabbia e vuotarsela direttamente dalle orecchie poi. La regola razionale del mercato suppone che la domanda sia rapportata alla reale esigenza contingente che ne giustifica l’offerta. È una regola razionale, appunto, che da luogo ad un meccanismo secondo il quale il sistema economico si perpetuerebbe da se, adottando semplicemente questo modello lineare. Se funzionasse veramente così, i beni vendibili coinciderebbero esclusivamente con gli elementi essenziali di prima e irrinunciabile necessità. Ovvero, si acquisterebbero risorse al solo e unico scopo di soddisfare i propri bisogni più immediati ed impellenti.
Ciò caratterizzerebbe una società semplice, a carattere arcaico.
Nella società complessa capitalista, è il mercato ad essere il regolatore principale dello stile di vita della collettività. L’economia della società complessa contemporanea è di fatto una non-economia, che ha perfino distorto impropriamente il termine. Economia, infatti, richiama il concetto del risparmio, dell’oculatezza e dell’attenzione etica nel valutare il legame fra consumo ed impatto sul biosistema.
Il dualismo antinomico economia/ecologia, di fatto, è un invenzione strumentale e mistificatoria dell’odierno capitalismo globalizzato, che ricatta mediante questo stratagemma tutti coloro che si oppongono alla distruzione delle risorse naturali nel nome del benessere e dei posti di lavoro. È la formula del “dividi et impera”, ben nota e rigorosamente applicata da chi delinque a norma di legge.
Se in un modello semplice e primordiale, quale per esempio quello delle civiltà contadine, erano i bisogni a determinare il tipo di mercato, nelle società cosiddette “evolute” (altro termine improprio ad evidente uso etnocentrico), è invece il mercato a creare i bisogni. Complesse strategie di marketing persuasivo permettono di generare bisogni del tutto indotti e propinati, artificiosi e impersonali, che pur non corrispondendo alle necessità vitali dell’individuo umano, vengono abitualmente acquisiti, per poi nella maggior parte dei casi scoprirne l’inutilità, e produrre così rifiuti ed un ulteriore insoddisfazione psico-emotiva che autoalimenta se stessa.
Tale perpetuazione stereotipa è proprio quella che fa muovere moltitudini di persone verso i nuovi templi sacri del dio denaro del terzo millennio: i grandi magazzini. Occorre forgiare personalità immature e frustrate nello spirito, per poter permettere grandi spostamenti di massa verso i nuovi oracoli di Delfi al contrario, in cui primeggia la regola “Disconosci te stesso”. Chi non è in attivo divenire, chi non ci cura della realizzazione del proprio Sé secondo il principio dell’individuazione, chi si affida a modelli di vita deleganti, deresponsabilizzanti, chi cerca di passare sempre per la porta larga, non può che consegnare il proprio Io minimale ad etichette già preconfezionate che predispongono status, simboli di appartenenza, che veicolano idee, concetti e identità attraverso i loghi. Ed ecco che una psiche di poco spessore non potrà che confidare, per il suo riconoscimento, in un ideogramma che ne suggella una visibilità socialmente accolta e positivamente percepita. Con un certo tipo di marchio si comunica che si è “di tendenza”, “cool”, che si fa parte del gregge, insomma, e che quindi gli altri non potranno permettersi di far riaffiorare l’ingestibile angoscia di abbandono sperimentata da bambini. Questo fantasma ideativo non tramonta mai nella vita di un umano, nemmeno in età adulta, basta soltanto pungolarlo un po’ ed egli riemergerà con severa e travolgente carica. I pubblicitari lo sanno, ed ecco promuovere fantomatici biscotti della nonna, cotti al forno insieme agli gnomi ed ai fenicotteri. Un po’ di jingle coccolanti ed ecco bello e pronto un pacchetto, anzi direi proprio un pacco, di stucchevoli e zuccherate idiozie che hanno un temporaneo effetto ansiolitico, perché l’essere umano si nutre di bugie confezionate, basta che distraggano dal dolore. Basta paventare l’idea di essere messi in ridicolo dalla comunità per la propria semplicità, ed ecco ingrossare le file alle porte dei rivenditori di I-Phone, come se si attendesse l’annuncio ufficiale dell’Apocalisse. È sufficiente mettere sullo stesso piano avere e potere, creare una eguaglianza di proprietà fra questi due termini, facendo leva sulle ferite primarie e sulle paure più comuni, ed il gioco è fatto! Ed ecco plasmato l’uomo consumatore, soldatino di piombo di un mercato che ne farà un prodotto a catena, funzionale ad alimentare lo stesso sistema che lo abbaglia riempiendogli la testa di slogan, musichette e ipnotiche carezze atte ad irretire una sia mai parvenza di pensiero creativo.
È un processo accurato che prevede un lavorio sull’Ego Bambino del consumatore, che viene spinto a raggiungere i suoi oggetti transizionali, alla pari di un infante spaventato e disilluso dalle perdite affettive e dalle fantasie di abbandono.
La differenza fra un bambino che ancora si succhia il pollice e un consumatore felice di aver scialacquato risparmi decennali per uno schermo HD? Che il secondo non si può succhiare tutti i pollici!
Questo tema rappresenta, attualmente, uno degli oggetti tematici sempre più frequenti nell’ambito della relazione d’aiuto. L’uomo “evoluto” sta sviluppando infatti forme di dipendenza sempre più pressanti e antisociali. Collettività e famiglie ne stanno pagando un prezzo assai elevato, e stavolta senza le solite illusioni di sconto alla cassa. Le attuali forme di dipendenza legate al consumo compulsivo, infatti, fanno sperimentare vissuti di disagio permanente chi ne è affetto, poiché l’appagamento temporaneo raggiunto da un acquisto cede presto il passo ad un nuovo impulso che chiede di essere soddisfatto, ed a qualsiasi costo. I compulsive buyers possono diventare così genitori distratti e disattenti, nonché modelli poco edificanti per i loro figli, in quanto trasmettono per linearità il comportamento da shopping compulsivo. Possono mandare al macero le loro relazioni, si intossicano della ideologia del consumo, si indebitano finanziariamente e si ritrovano nel vortice di una vita piena di ingarbugli problematici e di guai a non finire. Tutte le ricerche e le statistiche più recenti collimano su questi aspetti e giungono alle sopracitate conclusioni.
Perché lo fai? Si potrebbe domandare con curiosità, a un acquirente compulsivo di beni non necessari. Non sempre, naturalmente, le risposte attengono all’area della consapevolezza. Le motivazioni riconosciute in letteratura riguardano sinteticamente tre aspetti:
a). Sensazione di pienezza: Attraverso l’acquisto, il compratore ritrova il suo vigore e la sua vitalità perduta. Naturalmente ciò è solo un’illusione, ma lui non lo sa. Spesso, la cultura dell’eccessoressia (così viene di recente appellata) svuota di senso e di significato autentico sotto il profilo esistenziale, corrompendo il proprio sistema di valori e sostituendolo con l’equazione “Se possiedi vali qualcosa”. QUALCUNO ci insegnò il contrario.
b). Sollievo da ansie e preoccupazione: Gli acquisti leniscono temporaneamente le frustrazioni, col paradosso di nutrirle nel contempo. Mediante i beni acquisiti ci si procura da se le carezze esistenziali, da considerare decisamente vincolate al valore percepito del bene. Ed ecco il motto “Per sentirti amato da te stesso comprati quell’oggetto X”.
c). Riappropriazione del senso di sé: Tramite gli acquisti, il compratore compulsivo ha l’impressione di ristrutturarsi a livello identitario e psicologico, di attribuirsi un senso, un ruolo, un modo di essere, nella fasulla convinzione che appartenga alla propria espressa volontà, che è invece stata manipolata e diretta mediante precise tecniche di raffinata persuasione.
Come possiamo aiutare,a questo punto, un eventuale individuo intrappolato fra le maglie fitte della seduttiva spinta all’acquisto patologicamente compulsivo?
Intanto, impariamo a conoscere prima il problema.
Un professore della Columbia University, che risponde al nome di Bernd H. Schmitt, ha teorizzato il modello del marketing emozionale, nel senso che egli cerca di spiegare il funzionamento di questa complessa ed efficiente macchina persuasiva, che da luogo a processi di coinvolgimento psicologico assai significativo da parte di un consumatore potenziale verso un prodotto, un marchio e dunque un’azienda, ovvero includendone l’identificazione nella “filosofia” della stessa. Il dottor Schmitt descrive tale sistema come un procedimento che si attiva allo scopo di generare impressioni e aspettative nel consumatore tali da sviluppare affezione e attaccamento nei confronti di chi gli rifila il bene. Ciò avviene se un’azienda produttrice di un bene sollecita accuratamente delle dinamiche sensoriali che prevedono di: a) coinvolgere la percezione sensoriale; b) eccitare sentimenti ed emozioni; c) rendere partecipe la sfera cognitiva e delle convinzioni; d)provocare la fisicità, trascinando il dinamismo corporale; e)fare leva sul bisogno di riconoscimento, successo e appartenenza, per mettere sullo stesso piano il possesso del bene con la popolarità e l’approvazione degli altri.
Soprattutto questo ultimo punto, credo, dovrebbe farci riflettere su come l’esperienza intrapsichica di un consumista debba essere caratterizzata da un inadeguato vissuto di solitudine.
Aggiungerei, Inoltre, che come counselor potremo agire laddove il problema non si sia strutturato in modo così cronico e resistente, tale da richiedere interventi specialistici nell’ambito del trattamento propriamente clinico. Se il soggetto ha invece recuperato parte della sua consapevolezza a tale coazione a ripetere, e desidera coscientemente recuperare integrità e capacità di organizzare e gestire efficacemente la sua vita, allora possiamo magari smascherare insieme quegli stessi diabolici meccanismi da cui si è fatto condurre verso il tunnel cieco dello shopping. Aumentare la consapevolezza sulla funzione ed il ruolo di tale trappola, potrà servire successivamente a sostituire, con crescente impegno e prova di sé, il comportamento disfunzionale dello shopping a uno stile di vita in cui il ri-contatto con sé viene appagato semplicemente da una nuova funzione vitale e una nuova direzione di senso: scoprire e vivere il proprio valore di persona in modo incondizionato, senza proiettarlo in modo pericolosamente vincolante ai beni di consumo circolanti. Arrivare cioè a distinguere che la materia è solo materia, che un logo è un significante riempito arbitrariamente di significato, e che è possibile decondizionarsi sensorialmente recuperando se stessi in autonomia, dignità e capacità costruttiva sulla base dei propri valori e dei propri obiettivi. Si assisterebbe cioè a una rinascita che diventerebbe (questa si) merce preziosa per la condivisione esperienziale in gruppi di mutuo aiuto tematici. Senza declinazioni favolistiche in perfetto stile pubblicitario, naturalmente, anzi monitorando se stessi per prevenire eventuali ricadute ed introiettando una nuova linfa vitale, quella della gioia incondizionata e libera dai perniciosi legacci e legaccetti di questo perverso sistema consumistico, vero grande Leviatano della società odierna.
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