La fenomenologia di Edith Stein e il counseling filosofico

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edith stein

“Noi dobbiamo sempre considerare le cose dell'anima con larghezza

di vedute, come dotate di ampiezza e grandezza, senza paura di esagerare,

perché la capacità dell'anima sorpassa ogni umana immaginazione”

(Il Castello interiore[1])

 

Il counseling filosofico, secondo l'impostazione conferita dal suo stesso fondatore, Gerd Achenbach, consiste in una relazione di aiuto “alternativa alle psicoterapie”[2]. Esso cioè si propone di fornire un rimedio a problemi, preoccupazioni, domande dell'individuo, che a loro volta possono essere conseguenti a sue esperienze di delusioni, imprevisti, scontri con altri individui, fallimenti lavorativi eccetera. Ma al contrario dei vari metodi ormai “tradizionali”, il counseling filosofico non concepisce la cura in senso medico, come la prescrizione di determinati comportamenti da adottare o l'applicazione di particolari metodi teorici pre-elaborati ed universali. Si tratta piuttosto di “prendersi cura di” un individuo nella sua specificità, rinunciando quindi a pretese di interpretazione dello stesso in base a categorie generali. Egli non è un paziente ma un cliente, o, per utilizzare l'espressione dello stesso Achenbach, un “ospite” del counselor.

Purtroppo in Italia, l'endemica parcellizzazione delle scuole e degli orientamenti, ha portato ad una distinzione, per lo più istituzionale, fra counseling filosofico e consulenza filosofica, distinzione totalmente assente nel resto del mondo. In ogni caso la differenza tra i due approcci consisterebbe, secondo alcuni, in una maggiore strutturazione del counseling,nei tre momenti dell'empatia, del focus e della restituzione; inoltre, a differenza della consulenza, accoglie anche strumenti provenienti dalla psicologia (anche se gli stessi strumenti non vanno usati ma costituiscono solo un “bagaglio culturale” del counselor), e si avvale per la formazione dei professionisti, del training e della supervisione. In questa sede non è possibile soffermarsi su tutti gli aspetti che rendono questa pratica filosofica unica nell'ambito delle relazioni di aiuto, sia per esigenze di brevità, sia perché già moltissimo è stato scritto da autorevoli autori riguardo alle possibilità di una sua definizione. Pertanto ci si limiterà a presentare alcuni brevi spunti di riflessione personale in merito alla pratica del c. f. maturati grazie allo studio di uno degli autori più importanti (anche se ancora non sufficientemente valutato) del XX secolo, la filosofa fenomenologa Edith Stein (Breslavia 1891 - Auschwitz 1942). Nelle sue opere non  compare ovviamente alcun riferimento alla pratica del c. f., essendo stato “inventato” da Achenbach solo nei primi anni '80 dello scorso secolo. Tuttavia, come si cercherà di mostrare brevemente nelle pagine che seguono, un approccio al pensiero steiniano può costituire un contributo più che valido per la pratica di counseling, soprattutto all'interno di una formazione condotta entro un orizzonte fenomenologico-esistenziale.

 

 

1. Il problema dell'empatia

 

Nella tesi di dottorato, discussa nel 1916 e pubblicata l'anno seguente, Edith Stein affronta il tema dell'empatia, in quanto “esperienza di Soggetti estranei e della loro esperienza vissuta”[3]. Si tratta di un genere di atti intenzionali che ella ritiene fondamentale per la fondazione di una “filosofia della soggettività”, quale può essere definita la sua speculazione considerata complessivamente[4]. Nel chiarirne i tratti essenziali la Stein fornisce delle precise indicazioni metodologiche di cui il counselor può e deve fare tesoro per testare, di volta in volta il grado raggiunto nell'esercizio dell'empatia nei confronti del proprio cliente/ospite:

«Nell'istante in cui il vissuto emerge improvvisamente dinanzi a me, io l'ho dinanzi come Oggetto (ad esempio, l'espressione di dolore che riesco a “leggere nel volto” di un altro); mentre però mi rivolgo alle tendenze in esso implicite e cerco di portare a datità più chiara lo stato d'animo in cui l'altro si trova, quel vissuto non è più Oggetto nel vero senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di sé, per cui adesso io non sono più rivolto a quel vissuto ma, immedesimandomi in esso, sono rivolto al suo Oggetto, lo stato d'animo altrui, e sono presso il suo Soggetto, al suo posto. Soltanto dopo la chiarificazione cui si è pervenuti mediante l'attuazione giunta a compimento, il vissuto stesso torna di nuovo dinanzi a me come Oggetto. Dunque, in tutti i casi presi in considerazione di presentificazione del vissuto, s'individuano tre gradi di attuazione o, più esattamente, di modalità dell'attuazione stessa, dato che non sempre si realizzano i tre gradi, ma spesso ci si accontenta di uno dei più bassi. I gradi sono: 1) l'emersione del vissuto; 2) la sua esplicitazione riempente; 3) l'oggettivazione comprensiva del vissuto esplicitato. (...) Il Soggetto del vissuto empatizzato, però, non è lo stesso che compie l'atto dell'empatizzare, ma un altro – ciò è un fatto assolutamente nuovo rispetto al ricordare, all'attendere, al fantasticare i propri vissuti – dal momento che i due Soggetti sono reciprocamente separati, non collegati come nell'altro caso attraverso una coscienza d'identità, una continuità nei vissuti. Mentre io vivo quella gioia che è provata da un altro, non avverto alcuna gioia originaria: essa non scaturisce in maniera viva dal mio Io, né ha il carattere di essere stata viva in precedenza come la gioia ricordata, tanto meno essa è meramente fantasticata, priva cioè di una reale vita, ma è precisamente l'altro Soggetto quello che prova in maniera viva l'originarietà, sebbene io non viva tale originarietà; la sua gioia che scaturisce da lui è originaria, sebbene io non la viva come originaria. Nella mia esperienza vissuta non-originaria , io mi sento accompagnato da un'esperienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta da me, eppure si annunzia in me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta non-originaria. In tal modo noi perveniamo per mezzo dell'empatia ad una specie di atti esperienziali sui generis»[5].

Dal discorso della Stein emerge chiaramente la necessità di distinguere l'empatia dall'immedesimazione e dall'unipatia; nei paragrafi successivi ella procederà infatti a una critica serrata nei confronti della teoria di Hans Lipps, per il quale “finché l'empatia rimane piena empatia, l'Io proprio e l'Io estraneo non sono più distinti l'uno dall'altro, bensì i due Io sono un unico Io”[6]. Per la Stein, e ciò è imprescindibile per un corretto modo di fare counseling, anche nel momento di più alta partecipazione al vissuto altrui, è impossibile una fusione tra l'io empatizzante e quello empatizzato, ossia il venire assorbiti totalmente dall'esperienza altrui. D'altra parte però vi è nel rapporto empatico, che nel counseling costituisce il principale strumento di lavoro, anche un pericolo opposto, ossia quello di un'assimilazione dell'altro rispetto a sé stessi e ai propri vissuti:    

«Come succede in qualsiasi esperienza anche in questo caso sono possibili gl'inganni, anche in questo caso essi possono essere smascherati esclusivamente attraverso atti esperienziali dello stesso tipo, ovvero mediante inferenze che in ultima analisi rinviano ad atti del genere come loro fondamento. Abbiamo già visto più volte quali siano le fonti da cui possono scaturire tali inganni: se, mentre empatizziamo, ci basiamo sulla nostra costituzione individuale anziché sul nostro tipo, in questo modo giungiamo a falsi risultati. Così succede se assegniamo ad un daltonico le nostre impressioni cromatiche, al bambino la nostra capacità di giudizio, al selvaggio la nostra sensibilità estetica (…) Ma – come abbiamo detto – quest'inganno si può di nuovo eliminare soltanto con l'empatia. Se io empatizzo una persona, che non ha sensibilità per la musica, assegnandole il godimento che provo nell'ascoltare una sinfonia di Beethoven, quest'inganno si eclisserà non appena lo guardo nel volto in cui colgo l'espressione di una noia mortale. (…) Già il “buon senso” indica che non è un metodo da adottare quello di “giudicare gli altri con il proprio metro” per giungere alla conoscenza della vita psichica estranea. Per prevenire simili errori ed inganni, occorre costantemente un controllo dell'empatia mediante la percezione esterna, dato che la costituzione dell'individuo estraneo è fondata del tutto sulla costituzione del corpo. La datità, mediante la percezione esterna, di un corpo provvisto di una certa qualità è dunque il presupposto per la datità di un individuo psicofisico; d'altra parte con la sola percezione esterna non procediamo di un passo oltre il corpo fisico; viceversa l'individuo in quanto tale si costituisce completamente mediante atti di empatia»[7].  

Ciò che emerge in maniera lampante dalle parole della Stein è l'importanza dell'epoché, momento preliminare imprescindibile per il metodo fenomenologico e per la pratica del c. f.. Operare la “riduzione trascendentale”, come già Husserl aveva teorizzato, è d'obbligo proprio per evitare quei “vizi” che sono stati enunciati e che non consentono un rapporto autentico di interazione. Ma con ancora maggiore forza emerge il ruolo insostituibile del dialogo, della relazione, che non è un evento occasionale ma è la dimensione costitutiva della stessa esistenza umana. Achenbach espliciterà questo concetto affermando che “questo è il punto dell'esperienza nel quale la consulenza filosofica si trasforma in bisogno reale: il pensiero semplicemente soggettivo, solitario, abbandonato dall'altro, il pienamente soggettivo, il singolo sentimento, escluso da ogni comunicazione e dal riconoscimento attraverso l'altro, ci uccide o ci porta alla follia”[8]. Se la “malattia” dell'anima per eccellenza è il solipsismo, l'assenza di comunicazione che preclude la chiarezza (e non il contrario, come suggerisce il senso comune), allora il counselor filosofico dovrà adottare come rimedio proprio la creazione di uno spazio libero di interazione, nel quale il consultante possa trovare la possibilità di sdoppiarsi nel dialogo come in uno specchio, per ridefinire la propria identità perduta.

 

 

2. Psicologia e scienze dello spirito

 

Nel 1922 vengono pubblicati nello Jahrbuch für Philosophie un phänomenologische Forschung, la rivista diretta da Edmund Husserl, due lunghi saggi di Edith Stein, La causalità psichica e Individuo e comunità, riuniti sotto il titolo Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica. In particolare nel primo saggio, la nostra autrice procede ad un approfondimento del tema che aveva già accennato al termine del suo primo lavoro filosofico, ossia la costituzione dell'individuo, come unità psico-fisica e spirituale. Il suo intento è quello di chiarire dal punto di vista fenomenologico la vecchia contesa tra determinismo e indeterminismo, ossia “se la vita psichica dell'uomo, intesa nella sua interezza oppure solo in una sua parte, sia inserita o meno nella grande connessione causale della natura”[9] Nell'analizzare la struttura della persona umana, la Stein individua due processi fondamentali della vita dell'Io, il primo dei quali è quello della causalità nell'ambito della realtà psichica:

«Nelle sensazioni o, per esprimerci più propriamente, nell'avere delle sensazioni, si manifesta la ricettività del soggetto, in primo luogo come sequenza momentanea di stati. Ma quando viene a datità una ricettività diversa, secondo la particolarità del contenuto e del suo vivere, le sequenze di stati mutevoli appaiono come i modi e allo stesso tempo come manifestazioni di una qualità persistente, che abitualmente è indicata anche come ricettività, cioè come la qualità che persiste nel susseguirsi di stati mutevoli. E questa qualità persistente è ciò da cui dipendono o da cui sono prodotti i modi mutevoli degli stati vitali che cambiano. Nella causalità fenomenica della sfera del vissuto si manifesta la reale causalità della psiche. Le qualità persistenti dell'io reale o dell'individuo psichico appaiono come sostrati dell'accadere causale psichico, che consiste in un cambiamento regolato dei modi di queste qualità tale che una determinata qualità – la forza vitale – è connotata come ciò che condiziona la modalità delle altre qualità e ne è a sua volta condizionata nei suoi stati. Il fatto che le energie siano fornite o tolte alla forza vitale è la “causa” del processo psichico; l'“effetto” consiste nel cambiamento delle altre qualità psichiche. Non c'è diretta dipendenza causale di una qualità dall'altra, senza la mediazione della forza vitale. (...) Sembra dunque che la causalità psichica si distingua da quella fisica in quanto, in quest'ultima, l'unità dell'accadere causale si esercita attraverso l'unità complessiva della natura materiale, da cui le singole cose emergono come centri dell'accadimento. Nella prima, invece, siamo limitati agli stati psichici di un individuo che, come sostrato dell'accadere causale, corrisponde alla globalità della materia e nel quale le qualità spiccano come singoli centri analoghi alle cose»[10].

Con una specie di vissuti del tutto diversa da quella precedente, ossia con i cosiddetti “atti intenzionali” della coscienza, entriamo nell'ambito dello spirito, non più regolato dalla legge causale, ma fondato dalla libera motivazione:

«Se guardiamo a una serie di dati che fluiscono continuamente, o meglio, se attraverso i dati guardiamo alle oggettività “esterne”, allora non solo abbiamo una successione di apprensioni separate di singole immagini, ma un'“apprensione” continua , un'aggiunta di ciò che segue a quello che precede – l'appercezione - , una connessione delle singole apprensioni – la sintesi - , ed infine una messa in movimento di quello che segue per mezzo di quello che precede – la motivazione. Tutto ciò ha senso solamente nell'ambito degli atti dell'io, mentre nella sfera della pura passività, della quale ci siamo occupati in precedenza, di apprensione, appercezione e di messa in movimento non si può far parola (…) La motivazione, nel significato generale e d'uso comune, è il legame che connette gli atti tra di loro, infatti non si tratta di una semplice unione, come quella delle fasi che scorrono contemporaneamente o una di seguito all'altra nel flusso del vissuto, oppure di un legame associativo di vissuti; si tratta piuttosto di un vissuto che proviene dall'altro, di un vissuto che si compie sulla base dell'altro, per volere dell'altro. La struttura dei vissuti, che si possono presentare solo in rapporto alla motivazione, è assolutamente decisiva per l'essenza di tale rapporto; si tratta di atti che hanno origine nell'Io puro, dal quale provengono fenomenalmente e tendono verso qualcosa di oggettivo. Il “perno”, se così possiamo definirlo, su cui poggia la motivazione è sempre l'io. Esso compie un certo atto perché ne ha già compiuto un altro. (...) Caratteristico del rapporto motivazionale è il fatto che possa presentarsi in forme diverse: può compiersi esplicitamente, ma può essere anche dato soltanto implicitamente. Abbiamo, per esempio, il caso di una motivazione esplicita quando, in rapporto a una deduzione, muoviamo da certe premesse per giungere ad una conseguenza e riconosciamo quest'ultima sul fondamento delle premesse, prestandovi fede. Se al contrario eseguiamo una dimostrazione matematica, e a tale scopo utilizziamo un teorema che abbiamo già esaminato in precedenza sulla base dei suoi presupposti, ma che ora non ci curiamo di dimostrare, credere a tale teorema è motivato, ma la motivazione non è compiuta attualmente, bensì è implicita nell'atto concreto (...) In sostanza, ogni motivazione esplicita, dopo il suo compimento, si trasforma in una motivazione implicita, e la motivazione implicita può essere sostanzialmente esplicitata, come accade anche quando si crede a un teorema ancora indimostrato ma anticipato “intuitivamente”»[11].

Le sottili osservazioni della Stein, che per la loro complessità meriterebbero una discussione ben più articolata, offrono comunque l'occasione di riflettere sul presupposto fondamentale del counseling filosofico, ossia la scommessa sulla libertà dell'individuo. Ciò che distingue il c. f. dalle varie forme di psicoterapia, è proprio il fatto di riuscire a far leva sulle motivazioni implicite del cliente, confidando nella sua razionalità e senza sovrapporgli schemi precostituiti più o meno rigidi, ma che finiscono comunque col relegare tutto ciò che devia rispetto ad essi, nell'ambito della patologia. In questo senso il counselor non è chiamato ad essere lo specialista, il terapeuta, ma un interlocutore che, in forza della sua esperienza di studio ma soprattutto di crescita umana  e professionale, è in grado di esplicitare nel cliente gli strumenti (le motivazioni) coi quali egli stesso può liberarsi da situazioni esistenziali di disagio.

 

 

3. Essere finito e Essere eterno

 

 Nonostante il nome di Edith Stein sia conosciuto soprattutto per la sua produzione giovanile[12], il suo capolavoro filosofico appartiene invece all'ultima fase, quando la nostra autrice era già entrata nel Carmelo di Colonia col nome di Teresa Benedetta della Croce. Essere finito e Essere eterno, terminato nel 1936, è la testimonianza di una straordinaria sintesi che la Stein è riuscita ad operare non solo tra la “lingua filosofica materna” della fenomenologia e la tradizione plurimillenaria del pensiero occidentale, in particolare quella fase della riflessione filosofica che affonda le sue radici in Platone e Aristotele, e che riceve nuovi stimoli dalla fede cristiana dando voce a giganti quali Agostino, lo pseudo-Dionigi, Tommaso d'Aquino, Duns Scoto ecc. Ma un'altra sintesi ancora più importante è quella raggiunta in sé stessa tra la pura speculazione teorica e l'esistenza concreta, sintesi che nei fatti anticipa quel ritorno alla dimensione pratica della filosofia, auspicato nei decenni successivi da autori quali Pierre Hadot, Alasdair MacIntyre e lo stesso Achenbach, il quale afferma che “nella consulenza filosofica non siamo richiesti come insegnanti di filosofia, ma come filosofi”[13]. Proprio da questo costante e precipuo interesse per la sfera dell'esistenza umana deriva la caratteristica peculiare di Essere finito e Essere eterno, ossia il fatto di strutturarsi seguendo un moto parabolico che va dal più intimo della coscienza individuale alle più alte vette della trascendenza, per poi ridiscendere nell'ambito della contingenza. Punto di partenza della riflessione steiniana è il confronto con l'esistenzialismo del collega ed amico Heidegger[14], la cui analisi della condizione umana viene ripresa in parte, ma anche superata in maniera brillante:

«L'inconsistenza e la labilità del proprio essere diventa chiara all'Io quando se ne appropria col pensiero e cerca di giungere al fondamento. Egli l'attinge, prima di ogni riflessione retrospettiva e di ogni analisi della propria vita, attraverso l'angoscia, che accompagna nella vita l'uomo non redento sotto vesti diverse (come paura di questo e di quello), ma in ultima istanza come angoscia di fronte al proprio non-essere, e lo porta “davanti al nulla”. L'angoscia, certo, non è nella media il sentimento predominante della vita. Lo diviene in casi che chiamiamo morbosi, ma normalmente ci comportiamo con grande sicurezza, come se il nostro essere ci appartenesse per possesso stabile. Questo può dipendere dal fatto che ci fermiamo ad una visione superficiale, che per causa di un tempo “che dura” ci mostri illusoriamente un “essere stabile e duraturo” e ci precluda, attraverso la “cura” per la vita, di scorgerne la nullità. Ma in generale e in senso assoluto non si può parlare della sicurezza dell'essere come di una semplice risultanza di tale illusione e auto-illusione. La disarticolazione retrospettiva del nostro essere, operata col pensiero, mostra quanto poco di questa sicurezza stia in esso medesimo e come di fatto sia esposto al nulla. In tal modo si dimostra forse che quella certezza dell'essere sia oggettivamente infondata, perciò “irrazionale”, e che l'atteggiamento di vita razionale sia una “libertà per la morte...” appassionata, certa di sé e “angosciata”? Per niente affatto. Di fronte all'innegabile realtà per cui il mio essere è fugace, prorogato, per così dire, di momento in momento e sempre esposto alla possibilità del nulla, sta l'altra realtà, altrettanto inconfutabile, che, nonostante questa fugacità, io sono, e d'istante in istante sono conservato nell'essere e che io in questo mio essere fugace colgo alcunché di duraturo. So di essere conservato e per questo sono tranquillo e sicuro: non è la sicurezza dell'uomo che sta su un terreno solido per virtù propria, ma è la dolce, beata sicurezza del bambino sorretto da un braccio robusto, sicurezza, oggettivamente considerata, non meno ragionevole. O sarebbe “ragionevole” il bambine che vivesse con il timore continuo che la madre lo lasciasse cadere? Nel mio essere dunque mi incontro con un altro essere, che non è il mio, ma che è il sostegno e il fondamento del mio essere, di per sé senza sostegno e senza fondamento»[15].

Al di là degli esiti, che ovviamente non sono da proporre ad un eventuale cliente del counseling come unica visione del mondo possibile, è tuttavia da riconoscere che il ragionamento della Stein fa leva proprio sulla possibilità ragionevole dell'individuo di liberarsi dall'angoscia che sembrava attanagliarlo. In un'esistenza in cui appare unicamente “gettato per” e “verso” la morte, il soggetto può farlo mettendo in gioco e sfruttando la propria visione del mondo, opportunamente portata a consapevolezza. La ri-flessione, il pensiero di secondo grado, sui propri vissuti e sui propri pensieri stessi è l'elemento fondamentale del counseling filosofico. “L'uomo è un essere complesso e non può limitarsi a vivere o esistere – afferma Achenbach -. Volente o nolente deve prendere posizione sulla propria vita. Per questa ragione egli produce pensieri. Ma non è tutto: l'uomo è anche in grado di riflettere sui propri pensieri e spesso fa uso di tale capacità”[16] Attraverso il dialogo con il counselor è possibile ritrovare il logos che racchiude la nostra esistenza in un flusso unico dotato di senso. In un modo straordinariamente chiaro e poetico al tempo stesso, la Stein indica la possibilità aperta a tutti di trovare, nel groviglio della propria esistenzaquel filo di Arianna perso che può conferirle autenticità:   

«Il nesso che unisce il “tutto” nel logos, si deve pensare come l'unità di una totalità significante. Il contesto della nostra propria vita è forse l'esempio che si presta meglio per comprendere che cosa intendiamo.Nel linguaggio corrente si distingue “ciò che è fatto di proposito” - e ciò vale al tempo stesso come “dotato di senso” e “intelligibile” -  e quanto è fortuito, ciò che in sé appare privo di significato e inintelligibile. Io ho in programma di fare un determinato studio e per questo cerco una università che possa darmi un particolare aiuto in quel campo specifico. Questo è un nesso dotato di senso intelligibile. Che io in quella città venga a conoscere qualcuno che “per caso” pure vi studia e che un giorno “per caso” incominci a parlare con lui dei problemi del mondo e della vita, a prima vista non mi pare affatto un nesso intelligibile. Ma quando, dopo anni, ripenso alla mia vita, allora vedo come quella conversazione ebbe un'importanza decisiva su di me, forse più “essenziale” di tutti i miei studi, e mi viene in mente che forse “dovevo andare” in quel luogo “proprio per quello” (…) Questa considerazione tuttavia non si riferisce solo alla vita umana singola, ma anche alla vita dell'intera umanità, e inoltre anche alla totalità di tutti gli enti. La loro “connessione” nel logos è quella di un tutto significante, di un'opera d'arte compiuta, in cui ogni tratto particolare si inserisce al suo posto nell'armonia di tutto il quadro, secondo una legge purissima e rigorosissima. Ciò che noi cogliamo del “senso delle cose”, ciò che “entra nel nostro intelletto”, si rapporta a quel tutto significante come alcuni suoni perduti di una sinfonia lontana, che mi siano portati dal vento»[17].

Un ultimo brano, al termine di questa breve e frammentaria antologia, può aiutarci a capire qualcosa della pratica del counseling filosofico, un modo di fare filosofia in cui “il pensare, che arriva sulla strada giusta, la comprensione, la conoscenza e la chiarificazione sono una forza in grado di cambiare gli esseri umani”[18]. Sempre in Essere finito e Essere eterno, Edith Stein torna a trattare della struttura della persona umana, già affrontata in Psicologia e scienze dello spirito, coerentemente con il suo consueto modo di far tesoro di quanto acquisito con gli scritti precedenti per reintrodurli in un ottica diversa, in questo caso all'interno di un discorso dall'impostazione essenzialmente metafisica:  

«La vita spirituale è il terreno proprio della libertà; qui l'Io può veramente creare qualcosa da sé. I cosiddetti atti liberi – prendere una decisione, compiere volontariamente un'azione, dedicarsi ad un pensiero che eleva, interrompere consapevolmente il corso di un pensiero, domandare, chiedere, concedere, promettere, ordinare, obbedire – sono tutte azioni dell'Io, molteplici nel loro significato e nella loro struttura interna, ma tutte concordi a che l'Io attraverso esse determini contenuto e direzione al suo essere e, imponendosi una determinata direzione e dandosi ad un contenuto di esperienza scelto, “crei” in un certo senso la propria vita. Con questo non diventa né creatore di sé, né assolutamente libero: la libertà di autodeterminarsi gli è data, e così pure l'“essere dotato di vita”, che sviluppa in una direzione scelta da sé, e ogni azione è la risposta ad una sollecitazione e consiste nel prendere ciò che viene offerto. Tuttavia agli atti liberi resta la caratteristica del porre-sè-stesso, e questa è la forma più propria della vita personale»[19].

Per chi si prepara ad esercitare una professione estremamente delicata come quella del counselor filosofico, le considerazioni della Stein diventano indicazioni preziose, in grado di orientarne il futuro percorso lavorativo. Leggendo tra le righe, pur senza volerne forzare il significato, le parole dell'autrice presentano un ammonimento irrinunciabile: il cliente, in quanto individuo unico e irripetibile, possiede una sua particolare conformazione psico-fisica e spirituale, che lo rende non oggetto di una terapia, ma soggetto di un dialogo libero. La dimensione della libertà anzi è proprio il terreno su cui si gioca la partita del counseling; il counselor è chiamato, nei limiti delle proprie possibilità e delle circostanze contingenti, a farsi “custode” della libertà dell'altro, laddove questa fosse stata smarrita, e a contribuire, per quanto gli è possibile, a rendere il cliente nuovamente protagonista dei propri pensieri e delle proprie azioni. Non è una pretesa epica, né una vanità frutto di un delirio di onnipotenza. É semplicemente (ma seriamente!) il tentativo platonico di aiutare i propri compagni di prigionia a liberarsi dalla caverna dell'inconsapevolezza, sempre che si sia già riusciti ad uscirne, o perlomeno, a intravederne la soglia.   

   

 

 


[1]E. Stein, Die Seelenburg,trad. it. a cura di A. M. Pezzella, Il Castello interiore; in Edith Stein, Natura Persona Mistica. Per una ricerca cristiana della verita, Città Nuova, Roma 1997, p.119.

[2]Gerd B. Achenbach, Philosophische Praxis, trad. it a cura di R. Soldani, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 11-14.

[3]Edith Stein, Zum Problem der Einfuhlung,trad. it. a cura di E. Costantini ed E. Schulze Costantini, Il problema dell'empatia, p. 66.

[4]Laura Boella, Edith Stein, in Storia della fenomenologia, a cura di Antonio Cimino e Vincenzo Costa, Carocci, Roma 2012, p. 147: «Motivo propulsore della ricerca steiniana è l'esigenza di una chiarificazione della tematica psicologica. La fenomenologia viene fin dall'inizio intesa e praticata come scienza della soggettività, considerata nelle sue relazioni costitutive».

[5]E. Stein, Il problema dell'empatia, p. 77-79.

[6]E. Stein, Il problema dell'empatia, p. 86.

[7]E. Stein, Il problema dell'empatia, p. 189-190.

[8]G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, p. 127.

[9]E. Stein, Beitrage zur philosophischen Begrundung der Psychologie und der Geisteswissenschaften; trad. it. a cura di A. M. Pezzella, Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, Città Nuova, Roma 19992, p. 39.

[10]E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito, p. 58-59.

[11]E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito, p. 73-74.

[12]La cosiddetta “trilogia fenomenologica” comprende, oltre alle due opere cui si è già accennato, lo scritto del 1925 Una ricerca sullo Stato.

[13]G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, p. 91.

[14]Lo stesso titolo dell'opera di Edith Stein richiama quello di Essere e tempo, già pubblicato da Martin Heidegger nel 1927, letto e commentato più volte dalla nostra autrice.

[15]E. Stein, Essere finito e Essere eterno II, 7, p. 94-96.

[16]G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, p. 66.

[17]E. Stein, Essere finito e Essere eterno III, 12, p. 152-153.

[18]G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, p. 178.

[19]E. Stein, Essere finito e Essere eterno VII, 3,3, p. 393-394.

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