DALLA PAROLA DEL POTERE AL POTERE DELLA PAROLA. Cura del linguaggio ed espressione verbale

Inviato da Nuccio Salis

potere delle paroleE’ riportato più volte, in letteratura, che lo strumento principale di cui ogni counselor dispone è il colloquio. Ciò significa che tale figura professionale, altamente specializzata, deve essere in grado di saper gestire le parti strutturanti che compongono tale mezzo dialogico per eccellenza, ovvero le parole. Certamente, si potrà fare una rapida e puntuale osservazione: ossia che il colloquio non è soltanto un corollario di parole, ma che la sua complessiva risultante è data non soltanto dai contenuti (parole e funzione narrativa e informativa), quanto anche dalle dinamiche interpersonali vissute soprattutto attraverso la cornice di senso che il counselor riesce a creare ed offrire col massimo della naturalezza. La biografia del soggetto narrante, infatti, coniugata ad un contesto in grado di far vivere pienamente il senso dell’accoglienza , assume un valore edificante nell’esperienza dell’incontro e dello scambio. Ciò può mettere in pieno agio sia l’operatore che offre il suo sostegno, sia gli appellanti che si impegnano nel costruire un rapporto di complicità e fiducia costruttiva col primo.
Queste due dimensioni sono decisamente accavallate e intersecanti fra loro, e ad entrambe spetta una doverosa e precisa cura da rivolgervi. Inoltre, entrambe si rispecchiano e ciascuna risente dei linguaggi dell’altra. Allestire un setting che allenti le tensioni e favorisca l’apertura e la concentrazione da parte del cliente, è certamente un compito relativo alla strutturazione ed alla collocazione degli artefatti, tenendo conto della loro potenziale carica simbolica ed evocativa. Questo primo impatto concede già gran parte del clima di fiducia percepita che si potrà sollecitare nella persona accolta, al fine di poterla condividere e sperimentare con proficui intenti. Naturalmente, in seguito, tale condizione legata alla percezione dell’atmosfera ambientale e relazionale, dovrà essere confermata e rimandata da tutto il complesso degli atteggiamenti del counselor, che avrà cura di gestire la congruenza per inviare messaggi continui di accettazione empatica, comprensiva e valorizzante.
Tutto ciò, costituendo un abbondante 93% circa, riguardo a tutta la valenza comunicativa da cui dipende un buon processo di sviluppo della reciproca compliance fra counselor e cliente, richiama ad un’attenzione rilevante e sostenuta sui dettagli dell’arredamento e del contesto in cui si ospitano le persone con cui si andrà a costruire la relazione d’aiuto. In pratica, ciascuna parola pronunciata assumerà la sua connotazione in dipendenza all’ambito contestuale che è stato costruito, sia nei suoi aspetti strutturali che in quelli apertamente dinamici.

La percezione di una sana e feconda relazione di alleanza, dipenderà in gran parte dall’insieme di questi due importanti aspetti. In un contesto accattivante di agio, la parola potrà allora riservarsi la parte che le spetta, dal momento che senza il flusso dei contenuti verbali fra counselor e cliente, verrebbe a mancare l’elemento decisivo del colloquio: ovverosia lo scambio di informazioni, impressioni, contenuti e tutto ciò che può essere comunicato col supremo ausilio della parola.

Chiarito che il counseling non è e non può essere soltanto parola, rimane di fatto il riconoscimento evidente del potere indiscutibile del mezzo verbale, che rimane una complessa ed articolata competenza che rimarca una notevole differenza fra uomo e restante regno animale.
La cura della parola, dunque, è una capacità fondamentale che non può non far parte del bagaglio professionale del counselor. Egli dovrà dunque sviluppare e conservare la consapevolezza continua del potere evocativo e suggestivo della parola. Egli dovrà saper gestire il codice che le regola, tenendo sempre presente la forza semantica delle parole, ed il loro profondo legame coi pensieri, coi concetti, nonché la loro potenziale forza induttiva, persuasiva, direttiva o motivante. Tutto ciò stia ben lontano dall’equivoco che per motivare i clienti basti fare dei “bei discorsi”.

Sgombero subito il campo da questo accostamento demenziale del counselor con l’immagine inflazionata di un abile oratore comiziale, come se il counselor fosse una sorta di sofista interessato solo a produrre una bella ed eloquente sciorinata verbale. L’intento è un altro, e consiste nel sviluppare la profonda consapevolezza dell’uso funzionale della parola, ai fini del miglioramento di un servizio di sostegno basato sulla costruzione di un percorso finalizzato a raggiungere obiettivi e risultati in linea con i reali bisogni del richiedente. Un utilizzo scomposto e maldestro della competenza discorsiva, infatti, potrebbe creare una non trascurabile discrepanza fra ambiente percepito e contenuti, dal momento che questi ultimi vengono inviati con poca chiarezza esplicativa, omissioni, o peggio scorrettezza lessicale. La parola va impiegata come un abile messaggero ed incursore che sa come giungere a destinazione. Ed aggiungerei che anche la cura dell’aspetto paraverbale è fortemente influente.

Una parafrasi accurata dal punto di vista dei contenuti, per esempio, potrebbe essere modulata col rischio di invalidarla, se noi parliamo troppo veloce, o con un tono troppo basso, o con enfasi emozionale non del tutto speculare alla traccia esperienziale del cliente.
L’uso della parola è dunque un’abilità da includere a pieno diritto nel corredo degli strumenti operativi del counselor.
Magari ora può rimanere da chiederci: come usare in concreto questo delicato attrezzo? Poiché, se usato sapientemente sostiene, accoglie, incoraggia e spinge all’azione, e se impiegato con superficialità può addirittura ferire mortalmente.
Se d’altronde non fosse così, non avrebbe senso nemmeno lo stesso percorso formativo di un counselor, che impara ad arricchire ed impreziosire tale capacità, scoprendo soprattutto sul campo quale sapienza e delicatezza siano necessarie ai fini di un’efficace uso della parola.

Tutte le pagine del counseling dedicate alla formulazione delle domande, per esempio, confermano ed avvalorano questa legittima sottolineatura sull’efficiente utilizzo del canale verbale. Le domande rappresentano una vera e propria costruzione aggregante di elementi e particelle fonemiche, modellata con ragguardevole attenzione, consci del loro distinto livello di direttività ed impatto.
Iniziare una domanda con “Quale”, “Cosa”, piuttosto che con “Chi”, “È vero che…?”, orienta verso un costrutto di senso piuttosto che un altro, e definisce una rotta preferenziale invece che un’altra, caricando il rapporto counselor/cliente di un significato piuttosto che un altro ancora.
Prendiamo per esempio la domanda “Perché non…?”, espressione tipicamente abitante nelle bocche di coloro che nelle loro vite apparenti ricoprono il personaggio del Suggeritore, o del Salvatore, e che dispensano continuamente i loro consigli inadeguati e non richiesti. Coloro, con tale formula dolcemente interrogatoria, possono essere capaci di pressare un individuo, con la convinzione che la loro soluzione sia impeccabile e disinteressata.

La gratificazione interiore che scambiano come offerta di aiuto è invece una forma altamente svalutante e irrispettosa del modello esistenziale altrui; spesso capace soltanto di riattivare memorie legate a quei frammenti di vita in cui qualcuno ci chiedeva sempre “Perché non esci con Tizio?”, “Perché non fai come ti dico?”, “Perché non segui il mio consiglio?”, “Perché non provi a lasciarlo perdere?” ecc. Tutto questo parafrasario di “Perché non…?” altro non è che una sottile intimidazione che sembra proprio non lasciare via di scampo a chi la riceve. Se fai così hai del valore, se non lo fai non ce l’hai; salvo il dettaglio che una persona che esegue passivamente i suggerimenti altrui, di fatto sta prendendo ordini, e sta rispecchiandosi nell’implicito messaggio svalutativo che consiste nel far percepire valore condizionato.
Dunque, il “Perché non…?” è una sottile e terribile proposta a un modello ricattatorio della relazione interpersonale, dentro cui il referente che eroga indicazioni, invia anche implicite aspettative di adesione, riservandosi di togliere potere e autonomia di scelta e di azione alla controparte. Quest’ultima, fra l’altro, con un’altrettanta sequela di risposte complementari, potrebbe facilmente innescare un gioco interpersonale spesso citato all’interno della letteratura transazionale, chiamato gioco del “Perché non…? Si, ma…”, e per eccitarlo è bastata la parola.

Esiste dunque un utilizzo improprio della parole, basato su una volontà più o meno consapevolmente percepita di dominare il prossimo. E per fortuna esiste anche un uso liberatorio e funzionale della parola, diretta a liberare ed emancipare, a destrutturare schemi obsolescenti di lettura della realtà, per mobilitare potere generativo e non soltanto subirlo dall’esterno.
La parola è dunque un atto di responsabilità, da usare con ponderazione, da dosare con equilibrio, sposandola anche col silenzio, di modo che quando si riveli non sia soltanto rumore o copertura, e non sia soprattutto soltanto suono privo di significato, ma una componente in grado di gettare un ponte comunicativo fra noi e il cliente, perché si approdi, paradossalmente, a comprendersi senza aver bisogno di parole. Almeno fino a un certo punto.

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