L’esigenza umana di ridurre l’ansia derivante dal muoversi in un mondo ( uomini, cose, eventi, relazioni, ecc. ) per lo più imprevedibile ha prodotto procedure di etichettamento con cui dare definizioni, significati e senso a quel medesimo mondo per poi renderlo prevedibile e perciò meno inquietante.
Da tale procedura derivano non solo gli espedienti quotidiani su come districarsi tra la complessità della vita ma anche le grandi narrazioni ideologiche, politiche e religiose che hanno descritto l’uomo e il mondo.
L’etichettamento, perciò, ha avuto ed ha il pregio di favorire la sopravvivenza dell’individuo in una realtà materiale ed immateriale spesso non a sua misura. Le convinzioni acquisite, insomma, sono le maniglie a cui aggrapparsi nel procedere tra la complessità, e spesso l’inspiegabilità, dell’esistenza.
D’altra parte, l’etichettamento ha in sé un limite e cioè quello di escludere dalla visione che si ha di sé, degli altri e della realtà tutto ciò che non è immediatamente noto. Esso inibisce, fino a vietare del tutto, modi di pensare e modi di agire che si distanzino, più o meno significativamente, dalle convinzioni e procedure già sperimentate e confermate ( spesso a prescindere dagli esiti da esse derivanti ).
L’etichettamento seziona la vita fisica e psichica in due settori separando ciò che già si sa da ciò che ancora non si sa.
Certamente il desiderio, a volte il bisogno, di sperimentare nuovi percorsi ( nel lavoro, negli affetti, nelle abitudini quotidiane, ecc ) orienta il nostro comportamento. Tale spinta è generalmente favorita da condizioni di benessere materiale e/o immateriale ed inibita, viceversa, nei momenti di crisi. Quando le cose “ funzionano “ ci sentiamo sicuri e protetti al punto da osare nuovi percorsi e siamo disposti a correrne i rischi che ne derivano.
L’insicurezza generata dalla precarietà materiale e/ o immateriale, al contrario, ci lascia ancorati a quel poco o niente che già possediamo o riteniamo di possedere.
E’ un paradosso. In effetti la logica vorrebbe il contrario: la sicurezza dovrebbe trattenerci lì dove siamo, la precarietà condurci a sperimentare altre opzioni. E’ invece una caratteristica alquanto diffusa negli individui reiterare, di fronte a situazioni problematiche e conflittuali, comportamenti inefficaci pure nella consapevolezza di tale loro inadeguatezza.
Il risultato è che, da un lato, le cose che funzionano rischiano di tradursi in sterili abitudini destinate, prima o poi, all’inefficacia. Dall’altro, i momenti di crisi, rafforzati dagli stessi comportamenti che li hanno generati, tendono ad incancrenirsi.
Tali eventi possono verificarsi nella vita dei singoli soggetti, alle prese con i dilemmi della quotidianità, così come in quella di gruppi e di aziende nel confronto con crisi congiunturali o con i normali meccanismi che orientano il mercato.
Che ruolo ha, in tutto questo, la comunicazione efficace e motivante ? Quali devono essere, in riferimento alla questione dell’etichettamento, i suoi contenuti e le sue mete ?
Essere efficaci e motivare, in queste circostanze, significa trasmettere informazioni.
Questo, oggi più che mai, è il compito del Formatore così come del Consulente o del Docente. Insomma è l’impegno che deve assumere chiunque, nel privato così come nel lavoro o nel sociale, svolge il ruolo di colui a cui viene chiesto, in varie forme, sostegno.
Certo è che “ trasmettere informazioni “ risulta un’affermazione alquanto banale, quasi offensiva nei confronti del disagio materiale e/ o immateriale di chi sarebbe il destinatario di quelle stesse informazioni.
Diventa, però, un’asserzione meno scontata e certamente rispettosa delle difficoltà altrui se si fa un po’ di chiarezza sulla loro natura.
Cominciamo con il fatto che l’obiettivo dell’informazione è permettere a chi ne è il destinatario di operare una adeguata distinzione tra “ interno “ ed “ esterno “ vale a dire di differenziare quanto più possibile la contingenza da convinzioni e pregiudizi, obiettivi e risorse ( materiali ed immateriali ) messe in campo per agire.
Si tratta, in pratica, di consentire alle persone di liberarsi dalle “ contaminazioni “.
Con questo termine, in Analisi Transazionale, si intende la circostanza in cui l’individuo ritiene di comportarsi orientato dalla sua componente razionale, dunque di operare scelte congrue a quanto richieda il contesto mentre di fatto agisce “ distratto “ dalla sua emotività e/o dai suoi pregiudizi.
In questi casi, in sostanza, la componente emotiva e/o quella cognitiva ( difficile tenerle separate ) esauriscono ogni altra possibilità di pensiero e di azione. La persona ( le persone, in azienda e nei gruppi ) ritengono autenticamente ed onestamente di non avere altre opzioni.
Casi di “ contaminazione “ sono frequenti, nella quotidianità. Può trattarsi, ad esempio, di chi parla di sé mentre ritiene, in tutta buona fede, di parlare d’altro ( di fatto sta descrivendo cosa pensa e sente, rispetto all’ “ altro “ ), oppure di chi è convinto della sua “ simpatia “ mentre, in realtà, mette in atto comportamenti invadenti ed aggressivi.
Ci stiamo riferendo, comunque, a contaminazioni non particolarmente dannose dal punto di vista socio – relazionale e derivanti per lo più dall’inconsapevolezza riguardo alla distanza tra l’immagine che si ha di sé e del proprio atteggiamento ed i risultati che, nella pratica, derivano da questo medesimo atteggiamento.
Ci possono però essere contaminazioni che producono ricadute, sulla vita socio – professionale o privata, ben più serie e sia nel caso di singoli individui che di gruppi o aziende. Immaginiamo il caso di una persona che, in una situazione problematica, insista in un atteggiamento logorante e dannoso solo perché ritiene che, alla lunga, “ gli sforzi paghino “ senza accorgersi che ad ogni “ sforzo “ il problema si rafforza. Oppure un’azienda che, allo scopo di vincere la concorrenza, abbassa i prezzi dei suoi prodotti e più i clienti si fanno attendere e più abbassa i prezzi ( fino al fallimento ).
Ci riferiamo, dunque, a contaminazioni che non hanno origini psichiatriche ( ci sono pure queste, ovviamente, ma esulano dal campo di nostra competenza ) bensì a quella distorsione cognitiva e comportamentale derivante dal “ non sapere che … “.
Dal non sapere, ad esempio, che non sempre è vero che gli sforzi pagano … Il più delle volte, infatti, “ paga “ agire in maniera diversa rispetto allo standard, invece che potenziare lo standard.
Dal non sapere che “ volere è potere “ e il suo corollario “ se vuoi, puoi ! “ sono delle vere trappole cognitive dal momento che, oltre ad essere slogan estremamente colpevolizzanti verso chi - o coloro - è alle prese il problema, in realtà se c’è volontà non c’è problema ( il “ famoso ed abusato “ sforzo di volontà “ è una vera contraddizione in termini ).
Dal non sapere che il “ cambiamento “, dunque l’agire diversamente, non consiste nel fare le cose al contrario rispetto al solito ma è “ aggiungere “ comportamenti, piuttosto che abolirli.
Messa così, sembra che la questione si riduca al comunicare nuovi slogan per arginare quelli vecchi.
Di fatto è così, se il nuovo slogan non viene articolato e scandagliato nelle sue varie componenti, tra cui quella emotiva.
Il nostro prossimo obiettivo, infatti, sarà prendere in considerazione l’aspetto emotivo dell’etichettamento. Ci occuperemo, dunque, delle cosiddette “ emozioni parassite “.
< Prec. | Succ. > |
---|