La società post-moderna ha obbligato a ridimensionare la valenza semantica di termini quali “crisi”, “rischio”, “instabilità”, insegnandoci a riqualificare il senso e la fruizione di questo nuovo panorama linguistico. E questo proprio in un momento in cui, secondo ogni previsione orwelliana, la neo-lingua contemporanea viene semplificata e modellata perché attraverso espressioni e concetti immediati si definisca una visione di realtà etichettata in funzione dei canoni di lettura che servono ai difensori arcontici dello status quo.
Abbiamo bisogno anzitutto di una profonda e risolutiva rivoluzione concettuale che ci possa far guardare al fenomeno della “crisi” come un percorso (seppur travagliato) di risignificazione dei contenuti esperienziali e delle nuove mappe che si configurano in seguito ai nostri vissuti ed al nostro rinnovato impegno di ricostruzione della realtà.
Cogliere la qualità di rinnovamento e ri-costruzione attiva nella multidimensionalità del nuovo assetto sociale e politico di cui facciamo parte, è quanto di più necessario per poter rendere non solo intelligibile una piattaforma di realtà spesso complessa da decodificare, ma anche per impegnarsi a ridisegnare nuove prospettive di una civiltà alternativa ed auspicata da quanti perseguono ideali di giustizia e di autentica libertà.
L’attuale scenario ha però colto impreparati molti di noi, nel richiederci l’impegno di rivisitare l’intero quadro della situazione, accedendo a codici, simboli, linguaggi e vissuti più sofisticati ed arricchiti da una maggiore spinta alla conoscenza ed alla scoperta.
Prima di biasimarci completamente per questo, possiamo ricordarci che perfino grandi personalità scientifiche come Gregory Bateson non si sono potute affrancare dai condizionamenti dell’epoca di cui hanno fatto parte, e pur offrendo un notevole contributo di maggiore impulso e dinamicità alla ricerca nel campo delle relazioni sociali e dei loro complessi meccanismi, restarono comunque fedeli al paradigma della disciplina di appartenenza, caldeggiando ad esempio, nell’ambito dell’esperienza di apprendimento, la capacità di sostare nei dati della conoscenza già consolidata, e di investirla in una modalità lineare e convergente senza avventurarsi nei percorsi sperimentali e autodiretti di una volontà individuale in grado di uscire dagli standard predefiniti di un percorso di studio e di ricerca. La tensione epistemologica viene così ancora una volta ricondotta e ricacciata dentro i confini di un atteggiamento sostanzialmente prono a ciò che è già noto.
Le traiettorie di ricerca, pur ammettendo l’immissione di domande atte a completare l’ampiezza di un certo oggetto di analisi, possono svilupparsi solo nel caso in cui non travisino le prospettive con nuove possibili ipotesi e direzioni di ricerca. Le forme e le espressioni di un pensiero eccessivamente libero nel concedersi un tale privilegio, non potevano essere tollerate se collocate fuori da un limite oltre il quale veniva percepita la dimensione dell’assurdo e dell’altamente improbabile. Esattamente il contrario, praticamente, di ciò che invece suggerisce De Bono, quando specie nei contesti della formazione degli adulti stimola il pensiero creativo legittimandolo a immaginare senza limiti e senza censura ogni combinazione possibile di soluzioni. In una fase seguente di “taglia e incolla”, ogni idea potrà misurarsi con la realizzabilità offerta dal contesto, dalle conoscenze e dagli strumenti a disposizione, ma fino ad allora sarà l’ipotesi ad essere la “misura di tutte le cose”. Dall’irrealizzabile, dal fantastico, dall’assurdo, dal bizzarro e dal mondo immaginifico è praticamente possibile inventare e re-inventare congegni ed applicazioni concrete di ciò che riconduce alla utilità pratica. Il fine baconiano della scienza viene comunque servito, anche a partire da ciò che per un limite culturale è preconcettualmente inteso e percepito come impossibile o inesistente.
L’esperienza e l’approccio di De Bono dimostrano invece la clamorosa fattibilità di questi precetti, e quanto la dimensione dell’assurdo, del “patafisico”, del “paranormale”, dello “pseudoscientifico” e del più laico fantasmagorico, siano soltanto definizioni connotate da relativismo che possono assumere significato e struttura dal momento in cui sono accolte e soprattutto implementate e investite su un piano di pratica e concreta utilità.
D’altra parte, l’ignoto è tale solo perché non lo si conosce, non perché non esista. Solo le menti mediocri e limitate insistono a considerare vero soltanto ciò che loro conoscono. Questa presa di posizione decreta di fatto la fine della scienza, perché ne appassisce alla base la spinta alla ricerca che parte dalla curiosità e dall’immaginare anche l’impossibile.
Fu proprio non per caso Albert Einstein, uno dei più grandi e noti scienziati di tutti i tempi, ad affermare che:
“La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”
Quanta profonda saggezza in queste sopraffine considerazioni. E quanto purtroppo di riscontrabile in termini di ricadute in una scienza senza etica impegnata a testare nuove armi, a sperimentare su cavie animali e umane (anche non consenzienti), a modificare la mappa genetica del cibo, a corrompersi al servizio del profitto.
Pertanto, pur avvalorando il meritorio contributo di Bateson, mi permetto di riportare queste mie riflessioni al punto ultimo del suo breve (ed esaustivo) elenco sulle tipologie di apprendimento:
a). Apprendimento tipo 1. Conta il trasferimento dell’informazione da un’entità preposta ad immetterla verso un’altra che svolge la funzione di ricevente. È un modello unilaterale che coincide con lo stile meramente nozionistico nell’approccio didattico e dell’insegnamento. Chi sa insegna a chi non sa, e quest’ultimo ha il compito esclusivo di assorbire passivamente il dato e di incamerarlo negli archivi della sua memoria, pronto a rievocarlo ogni qualvolta gli si fa richiesta. È di fatto quell’approccio che definisce il rapporto di potere docente/discente secondo la chiave di lettura freiriana dell’educazione depositaria, verso la quale l’autore appena citato è decisamente critico.
b). Apprendimento tipo 2. È quello che lo stesso Bateson definisce deuteroapprendimento, e quindi l’abilità di utilizzare in modalità flessibile i dati della conoscenza acquisita, ridefinendoli di volta in volta dentro un orizzonte esperienziale in cui si possono acquisire e consolidare nuove strutture in seguito alle domande di adattamento poste dall’ambiente.
c). Apprendimento tipo 3. IL territorio esplorativo e ri-costruttivo di questo livello di apprendimento risulta ancora più avanzato del precedente, perché osa nel tentativo di impugnare ciò che è noto nel tentativo di dargli una nuova e radicale ridefinizione, accogliendo la possibilità di resettare e azzerare ciò che è già stato fissato dal processo di assimilazione, per testare inediti percorsi e paradigmi in grado di reinterpretare in modo rivoluzionario sia i contenuti che gli stessi processi attraverso cui vengono costruiti e rappresentati.
Ho già fatto presente come veniva considerato questo livello perfino dai più grandi studiosi della disciplina che fa della mente il principale oggetto di studio. Il pensiero critico, revisionista, che sperimenta e deduce oltre il sapere accademico e dato come incontrovertibile per partito preso, assume inevitabilmente declinazioni di natura politica, culturale e sociale che turbano e infastidiscono coloro che non possono prospettare la realizzazione di nuovi termini e nuove cornici figura-sfondo che rimettono in discussione le pratiche della pedagogia, della didattica e dell’aiuto alla persona.
Pertanto, se anche nell’apprendimento del tipo 2 viene già valorizzato e compreso come indispensabile la formazione di un atteggiamento racchiuso nel fortunato slogan “imparare ad imparare”, attualmente è necessario farlo in una modalità il più possibilmente ampia ed aperta, che non vuole chiudersi dentro i confini di una ideologia precostituita che ha già deciso cosa sia accettabile e cosa non possa o non debba esserlo.
Si auspica in tutte le sedi (a indirizzo più o meno strutturato) l’applicazione di un apprendimento di tipo 3, storicamente considerato come espressione di turbe mentali e attentati terroristici all’ordine costituito, mentre è più che maturo e urgente il tempo di sollecitare alla manifestazione di un pensiero costruttivo, critico, legato ad istanze di tipo emotivo, affettivo e sociale verso le quali offre e determina il suo migliore contributo.
Questa nuova approvata condizione potrà restituire al singolo ed ai contesti dell’apprendimento quel tanto agognato e ricercato valore di crescita formativa che giustamente si va ricorrendo e ricercando, per generare e soddisfare le aspettative di nuovo umanesimo, più attento ed esigente sullo sviluppo e il rispetto delle norme etiche e solidaristiche che possono rendere un’organizzazione sociale sufficientemente coesa, per essere, di conseguenza, finalmente, anche sufficientemente abitabile.
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