Counseling nella Filosofia e Filosofia nel Counseling


conseling filosofiaSe alla figura del consulente è sotteso un “sapere”, un “essere esperto in” a cui riferirsi, alla figura del counselor mi pare sottesa, al contrario, una progressiva “kénosis”, una “spogliazione” dai saperi che si raggiunge attraverso un’accurata formazione, perché gli unici “saperi” in cui il counselor può dirsi “esperto” sono l’ascolto e la relazione.

All’ascolto dell’Altro corrisponde il silenzio interiore del counselor, silenzio che è lo spazio di manifestazione del cliente poiché, come scrive James Hillman “Noi siamo fenomeni offerti alla vista. Essere è in primo luogo essere visibili. Il lasciarci passivamente vedere apre una possibilità di benedizione. Perciò noi cerchiamo amanti e mentori e amici, affinché possiamo esse visti, ed essere benedetti”.

E il cliente (e in questo sta il primo momento della “professione d’aiuto”, poiché il counseling è e si definisce “attraverso” e rivendica il proprio carattere di professione d’aiuto) prima d’ogni altra cosa cerca la benedizione del silente e rispettoso, autentico ascolto, poiché percepisce di essere davvero percepito ed accolto in modo incondizionato, poiché a sua volta avverte che “il mentore percepisce le pieghe di una complessità, quelle curve dentro/fuori, sotto/sopra dell’implicito che sono la verità dell’immaginazione in ogni sua forma, per cui possiamo ben definire l’immagine: il come globale del presentarsi di una cosa. Eccomi, sono qui, proprio davanti ai tuoi occhi. Riesci a leggermi?” (J. Hillman).

 

Perché ciò avvenga, è necessaria la profonda e partecipata, non-neutrale relazione Io-Tu che caratterizza il counseling, poiché, sempre secondo Hillman “Io divento mentore quando la mia immaginazione sa innamorarsi della fantasia di un altro”. In questo, ovvero nel non essere esperto, nel non essere neutrale, nell’essere attivamente in ascolto e in apertura rispetto al manifestarsi del fenomeno del “Volto dell’Altro” (E. Lévinas) sta la differenza tra il counselor e il consulente. In questo e nella chiara consapevolezza dell’essere in una relazione d’aiuto, dove si risponde alla chiamata dell’altro e alla necessità primaria dell’altro di venire ascoltato.

Ciò non significa che il counselor, e in specie il counselor filosofico “debba” essere approssimativo e ignorante. Al contrario! Ma, come afferma Vincenzo Graziani: “Il filosofo/counselor aspira a mantenersi aperto e in relazione incondizionata con tutte le cose per quanto è possibile (Metaf. I,2). Egli sente l’universale che risuona in tutti i particolari (non l’universale logico che è un’astrazione concettuale): quel principio primo dal quale sgorgano e al quale tendono tutte le cose: l’intero che fonda e dà senso alle parti, l’orizzonte che comprende, abbracciandole, tutte le cose.L’atteggiamento olistico del counselor è differente da quello specialistico dei cultori delle scienze particolari. Questi ultimi assumono solo una parte specifica della realtà; si circoscrivono in essa, si specializzano in essa, la fanno loro, se ne appropriano e su di essa fondano il loro sapere/potere (scientia est potentia).

La filosofia (counseling) non si identifica con alcuna scienza particolare (con alcuna professione). Il counselor cerca non solo ciò che distingue le cose e le persone ma soprattutto ciò che le unisce e le tiene in relazione: l’ens (modo di essere: quella sorpresa meraviglia dal sapore metafisico che è presente in tutte le cose semplicemente in quanto sono (…) Il counseling è pratica filosofica nella sua natura essenziale e nella sua consapevole intenzione all’essenziale. La filosofia è prassi quotidiana del counselor che: ascolta il sensibile fino a sentire il sovrasensibile, osserva il visibile fino a vedere l’invisibile, abbraccia il d(on)ato fino ad amarlo in modo incondizionato.

Molti professionisti navigano con le vele spiegate al vento dei saperi/poteri specialistici e governando il timone delle relazioni di aiuto con la loro ‘bravura’ personale e competenza di scuola. Questi professionisti non lasciano mai le acque sicure della loro scienza e tecnica (le reputano condizioni necessarie e sufficienti per ogni navigazione). Non entrano nel mare senza vento della filosofia, non intraprendono la seconda navigazione”.

Il counselor filosofo, quindi, è un uomo o una donna colto/a che, consapevolmente si spoglia della propria cultura (intesa come sapere/potere che conduce all’expertise), a vantaggio dell’Altro.

La cultura, anche filosofica, che ha acquisito attraverso una lunga e faticosa formazione, resta sullo sfondo e in sottofondo. Non invade. Non viene, essa stessa, proposta al cliente come spunto di riflessione o come “acquisizione di competenze”. Piuttosto, fa parte dell’essere del counselor e lo serve, quasi inconsapevolmente, in quanto lo aiuta a migliorare la propria capacità di ascolto e a percepire in modo più approfondito l’essere dell’Altro. Non può e non deve prendere il posto della relazione.

In altre parole, la filosofia serve al counselor per fondarsi, per raffinarsi, per migliorarsi e, in questo senso, di riflesso e attraverso la personalità ricettiva e risonante del counselor, serve il cliente, ma senza mai prendere il posto della relazione poiché, sempre secondo Vincenzo Graziani:“Il filosofo/counselor guarda l’intero, sente la relazione che tiene insieme tutte le cose. Questa risonanza può essere colta solo attraverso i suoni [“per-sona”], solo sentendo la relazione in cui risuona con le sue vibrazioni l’intero universo, solo intuendo l’intero in ogni suo frammento.Il filosofo possiede ‘la contemplazione di tutto il tempo di tutto l’essere’ (Platone, Repubblica VI, 486A). L’anima del counselor ‘deve protendersi sempre verso l’intero e il tutto del divino e dell’umano’ (Repubblica VI, 486A). L’intero dell’umano implica una apertura incondizionata, una relazione sincera e genuina, un sentire congruente, incondizionato ed empatico. Terenzio (facendo eco a Menandro nell’Heautontimorumenos) traduce in linguaggio poetico questa apertura all’Intero: ‘Homo sum, nihil humani a me alienum puto’ (Visto che sono uomo, tutto ciò che è umano non può che appartenermi).E’ in questo senso che va intesa l’espressione di Protagora: ‘l’uomo è misura di tutte le cose’: tutto intero l’universo è relativo all’uomo e alla vita umana. Il filosofo umanista cerca nell’uomo il principio (arché) con cui ritrovare l’intero: una comprensione accurata e profonda dell’umano ci svela la natura di tutte le cose, in quanto tutte guardano e ri-guardano l’uomo”.

 

Volendo parlare della formazione del counselor filosofo, attraverso un indefinito e indefinibile percorso di libere associazioni non posso fare a meno di rammentare che, con indubbio sense of humor, James Hillman, a proposito di un’educazione capace di risvegliare l’immaginazione del bambino, indica tre prerequisiti fondamentali: “primo, che i genitori o altri adulti intimi abbiano una qualche fantasia sul loro bambino; secondo, che nell’orizzonte del bambino siano compresi tipi eccentrici e vecchie signore un po’ strambe; e, terzo, che si trattino con rispetto le attività ossessive”.

Nella scia del medesimo humor, e riportando tali requisiti alla formazione dell’adulto che aspira a divenire counselor e, nella fattispecie, counselor filosofo, si può affermare che il primo, quello delle aspettative, viene soddisfatto dall’aspettativa che l’adulto ha su se stesso; sull’aspettativa affettuosa e sulla facilitazione che il gruppo di adulti della scuola o del corso pone su ogni singolo; sull’aspettativa affettuosa e sulla facilitazione che il “maestro” pone sull’allievo.

Per quanto riguarda il secondo requisito, quello che include la presenza di tipi eccentrici e persone strambe, è possibile immaginare che un adulto che intraprenda un percorso formativo che lo costringe a mettersi in dubbio e in gioco fin nelle sue più intime fibre sia di per sé una persona (costruttivamente) stramba e che, di conseguenza, il gruppo d’apprendimento sia composto da altrettante persone strambe che arricchiscono il suo percorso ed eccitano la sua immaginazione.

Il rispetto per le attività ossessive è fondamentale per l’aspirante counselor, poiché, già dell’inizio della propria formazione, egli riporta ossessivamente ogni aspetto della vita propria e altrui al counseling. Inoltre, l’aspirante counselor è onnivoro: quotidianamente osserva, legge, ascolta musica, frequenta i cinematografi, partecipa a discussioni, ascolta il prossimo senza soluzione di continuità, sempre in un télos di apprendimento, di autoapprendimento, di miglioramento e di perfezionamento di sé costantemente riferito al proprio essere counselor.

E dico volutamente “il proprio ESSERE counselor”.

Perché non si “fa” il counselor ma si è counselor, perché il counseling non è un “sapere”: è uno stile di vita.

Da quanto sopra si comprende quanto, per il counselor filosofo, appaia necessaria un’approfondita conoscenza della filosofia.

Tuttavia, in qualche modo anche tale conoscenza deve estinguersi, in quanto “sapere/potere”, nel momento in cui ha trasformato il filosofo ed è divenuta il filosofo stesso. Tale conoscenza, che non è e non deve essere quella di Don Ferrante, va a costituire uno “sfondo”, si trasmuta in un’umile quanto viva sorgente di sensibilità, di risonanza, di calda affettività, di comprensione e deve mettersi al servizio, soprattutto, dell’apprendimento e dell’allenamento costante all’ascolto empatico  e alla relazione, che rimangono, invece, sempre in primo piano perché il counseling non è e non può essere se non “centrato sulla persona”, sul Volto dell’Altro - e non su un “sapere/potere”  in relazione ad un “protocollo” d'intervento e ad un anonimo “caso”. 

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