Qualsiasi modello di riferimento si sia seguito durante il percorso di formazione, di certo nessuno ha potuto prescindere dall’ importanza di Carl Rogers nel costruire la propria professionalizzazione. Ora, il punto non è ricordare i cardini fondamentali su cui, per Rogers, si doveva strutturare una buona relazione d’ aiuto. Al di là delle consuete teorizzazioni a cui, è fuori dubbio, chiunque decida di svolgere questo lavoro deve fare riferimento, c’ è, a mio avviso, un’attenzione speciale che deve essere riservata da ogni buon counselor al primo colloquio. Generalmente si dice che occorrono almeno tre o quattro incontri perché entrambi i soggetti coinvolti nel rapporto dialogico ( l’ helper e l’ helpee) abbiano la possibilità di verificare la reciproca compatibilità; ma personalmente credo che sia davvero difficile arrivare al quarto incontro se, al di là di empatia, accettazione incondizionata, ascolto attivo e tutto il resto del “ bagaglio” di tools di imprinting rogersiano utilizzabili in ogni colloquio, l’ operatore non si preoccupasse in maniera adeguata del primo incontro della relazione che sta iniziando a costruire insieme al cliente.
Ma, in sostanza, se nel comune andamento del rapporto di counseling è pensabile, se non addirittura auspicabile, il ricorso ai suddetti “strumenti di lavoro”, non trascurare il fatto che deve, necessariamente esserci, nel suo contenuto qualcosa che rende diverso il primo colloquio rispetto agli altri incontri. La deontologia professionale a cui è obbligatoriamente tenuto ogni counselor non può certo essere messa in secondo piano durante gli incontri successivi. Ci sono delle regole! E, come tali, vanno rispettate: al primo come all’ ultimo colloquio! Robert Carkhuff afferma: ” Iniziare è la fase culminante del processo d’ aiuto”; E prosegue ribadendone il peso nell’ agevolazione del processo di cambiamento dei clienti “Iniziare sottolinea l’ importanza di facilitare gli sforzi che gli helpee compiono per agire in modo da riuscire a raggiungere i loro obiettivi….”! Col pragmatismo che lo ha reso famoso, Carkhuff collega al concetto dell’ Iniziare quello diIniziativa stabilendo in maniera molto concreta quali fossero gli step adeguati alla promozione dell’ empowerment dell’ utente per metterlo in grado di poter “modificare la loro capacità di funzionamento.” A questo proposito Carkhuff parla in termini di “comprensione personalizzata” per individuare l’attitudine individuale di auto- percezione di ogni cliente e pone l’ accento sulla abilità del helper di agevolare tale inclinazione. Molto lontano dall’ idea di accoglienza di Rogers, riesce comunque a rielaborare in maniera assolutamente personale lo schema del primo colloquio; regalandoci, di certo, una nuova ipotesi di strutturazione del primo colloquio. In qualsiasi modo lo si voglia affrontare, l’ incontro di avvio di un percorso di counseling rimane la porta di accesso al mondo interno del cliente e, proprio per questo, si trasforma, nei fatti, nello spazio protetto dell’ Etica di tutta la relazione. Infatti, al di là delle skills che in ogni momento della relazione d’ aiuto un counselor deve mettere in gioco, nel primo colloquio si impostano le dinamiche più delicate di tutto il percorso. Del resto non si può non considerare, che anche la stessa scelta dell’ intervento più opportuno ha
sempre e comunque implicazioni etiche per il fatto stesso che deve essere in grado di agevolare, promuovere, accompagnare il cambiamento dell’ utente. Fine e Gllasser identificano addirittura “un’ etica di mezzi e di fini” per sottolineare come ogni helper sia eticamente responsabile già al momento della scelta operativa maggiormente idonea ad agevolare l’ helpee nell’ attivazione del processo di cambiamento. I due psicoterapeuti, tra l’altro, ricordano di come il primo colloquio debba essere il luogo della consapevolezza da parte dell’ utente, non solo dell’ obiettivo possibile , ma anche degli strumenti che si impiegheranno per raggiungerlo. Di certo è anche attraverso la condivisione di mezzi che si costruisce la motivazione al cambiamento Ma, a mio parere, agire eticamente , a questo proposito, vuol dire, ancora una volta trovare il giusto equilibrio tra la esigenza consapevole del cliente di essere dal primo istante soggetto attivo della relazione e la necessità per lui stesso, presumibilmente non consapevolizzata, che il counselor migliore è quello che funziona come la metafora di uno specchio: ossia rimandando senza alcuna contaminazione al cliente la propria immagine. Da questo punto di vista, trovo maggiormente condivisibile la posizione di chi sostiene che mettere l’ utente a conoscenza della impostazione metodologica che si ha intenzione di seguire, potrebbe compromettere la ratio stessa del percorso di counseling: la promozione al cambiamento. In fondo come ci si può avviare ad un processo di auto esplorazione se si rischia di guardarci attraverso una lente deformata fornita proprio da chi, per il suo stesso ruolo, è davanti a noi per agevolare la nostra iniziativa? Eppure, nonostante tutte queste considerazioni, il vero oggetto del primo colloquio resta sempre la relazione in se stessa. Qualunque tipo di counselor si sia, qualunque tipo di cliente si abbia davanti , a prescindere da quello che ci si senta di condividere in quel momento, ciò che sottende è una sola e semplice domanda: ” Sono compatibile con questa persona?”A ben vedere il contenuto essenziale del primo colloquio si esaurisce in questa domanda , poiché , quel luogo, quel momento sarà l’ unico in cui entrambi i soggetti coinvolti nel rapporto dialogico cercheranno di trovare una risposta assolutamente individuale allo stesso interrogativo.
Marcella Giordano
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