1. Potere: parola con assortite sfumature semantiche da percepire a proprio piacimento. In genere, tale espressione richiama il dominio, e facilmente evoca l’immagine di qualcuno che sovrasta il suo prossimo da una posizione “up”, quindi soverchiante e coercitivo. La parola potere ha assunto storicamente un suono sinistro, verso cui diffidare e provare scetticismo, paura, o per antitesi un motto di resistenza e ribellione. D’altronde, come non avrebbe potuto svilupparsi così, visto che il genere umano ha costruito sulla disparità e sull’asimmetria del potere tutte le sue istituzioni, formali e non formali. Il concetto dello sbilanciamento del potere, in termini di diritti, privilegi concessi, possibilità di accesso alle risorse ed alle potenziali condizioni di benessere, ha permeato e permea ogni passaggio focale della storia umana. Tutti gli eventi e le svolte storiche più incisive sono sempre caratterizzate dallo scontro fra due strutture poste su un piano di sostanziale disparità.
Sembra che questo sia l’unico modo che abbiamo di percepire il potere. Ed ecco quindi che esso diventa sempre un giocoforza fra controparti che entrano in conflitto per accaparrarsi ciò che desiderano, perché evidentemente ciò che desiderano collude cogli interessi dell’altro. Alla parola potere, dunque, sono inevitabilmente legati concetti che rifiutiamo, in quanto rimettono in auge, a cascata, parole come guerra, conflitto, diverbio, carneficine e genocidi. L’umanità ha effettivamente prodotto tutto questo, eppure essa, non ha mai pensato di organizzare la società civile senza ricorrere a costituire strutture di potere. I fondatori della Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, per esempio, hanno redatto un documento unico che non è certamente un proclama di disconoscimento di ogni forma di potere. Esso, piuttosto, declama un’organizzazione politica, economica, giuridica e sociale in cui i poteri, legittimamente costituiti, trovano fra loro un ragionevole equilibrio. Ovvero, a ciascun apparato erogante funzioni di potere, vengono attribuite funzioni e regolamenti da espletarsi secondo un principio di equa distribuzione, affinchè ciascun potere possa esercitare il proprio ruolo sempre entro limiti non superabili, indicati da principi generali e condivisi, in quanto ispirati da un umanesimo che accomuna. In questo modo, ciascun potere controlla ed è al tempo stesso controllato.
Dal punto di vista formale appare certamente una gradevole soluzione. Questo sembra anche dimostrare che l’essere umano difficilmente possa pensare di stabilire una forma di vita comunitaria facendo a meno di organi di potere, da intendere come centri di tutela e garanzia a favore dell’espletamento dei diritti pubblico-politici e personali-elementari. Certamente è da comprendere come l’esperienza travagliata e sofferta del genere umano suggestioni verso un atteggiamento di repulsione e dubbio nei confronti del potere. La sua accezione, dunque, per ciò che mi pare di captare, rimane ancora quella intrisa e contaminata da schemi di giudizio che ci fanno percepire il termine come epicentro di un cluster circondato soltanto da vocaboli a semantica negativa e stigmatizzante.
Questo atteggiamento di cui sopra, porterebbe al rifiuto della possibilità di pensare che ciò che è negativo del potere è il suo uso strumentale ed abusante, non tanto il fatto stesso che debba trovare un suo legittimo spazio nell’ambito della vita di un individuo come persona e come cittadino.
Insomma, per immaginare di mettere fine agli orrori perpetrati dal cattivo uso del potere, e da certi malsani principi che possono averlo istituito, si può propendere al pensare di frantumare ogni minima parvenza di potere, sia istituzionale che nell’ambito delle micro-relazioni. La conseguenza estrema di tale atteggiamento consiste a mio avviso in un pavido disimpegno collettivo di una società pericolosamente anomica, capace solo di nuocere a se stessa.
Esattamente come succede al termine e al concetto di autorità, il cui discorso già sviluppai in precedenza, anche rappresentando o disponendo potere, esiste un largo margine di rischio consistente nell’essere etichettati come una sorta di repubblichini fanatici dell’ordine e della repressione. Pensare questo, significherebbe avere una visione unilaterale e totalitaria, esattamente in contraddizione rispetto alla capacità di libero pensiero che ci si auto-attribuisce.
2. Noi operatori dell’aiuto, infatti, impariamo da subito che occuparsi dell’altro significa accogliere qualcuno che si porrà a noi secondo una distanza interpersonale psicologica che è quella riscontrabile in qualunque altro ambito formale, ovvero laddove si stabiliscono dei ruoli e si promulgano dei contratti negoziati e condivisi. Ciò che infatti ci è stato insegnato, è che noi abbiamo sull’altro da noi in trattamento (in questo caso il cliente) del potere. E forse, chissà, magari all’inizio avremo tutti trasecolato un po’. Probabilmente ci siamo montati la testa, o abbiamo immaginato che avremo rischiato di diventare degli aguzzini e dei persecutori, forse ci siamo sentiti cattivi, chissà. Tutto questo a causa di un equivoco semantico. Che poi nel corso della nostra formazione abbiamo ridimensionato collocandolo nel posto più appropriato. Abbiamo dunque imparato che il potere che abbiamo è dato dalla disparità del ruolo, dalle competenze professionali e della problematica a maggiore rilevanza affrontata dal cliente. E se non fosse così, la relazione fra me counselor e l’altro (cliente) non sarebbe strutturata, costruttiva, e quindi nemmeno protettiva, aspetto certamente di non poco conto, come sappiamo, nell’ambito del sostegno motivazionale alla persona.
Questi principi trovano riscontro e validità nell’ambito di tutte quelle relazioni caratterizzate da aspetti di guida alla crescita, sia sotto l’aspetto personale-esperienziale, didattico o più largamente educativo, a vari livelli o in assenza di strutturazione formale. Immaginiamo infatti l’assenza di disparità di ruolo in un rapporto fra docente e allievo: come funziona un rapporto fra docente e allievo? Nella domanda c’è il nocciolo della risposta, c’è un docente e c’è un allievo, e non sono riconoscibili solo dal numero dei tatoo sul sopracciglio. Proviamo ancora a pensare ad un genitore privo di competenze adulte-esperienziali, ad un operatore dell’aiuto più disperato e fatalista del cliente che incontra.
Ebbene, se tutto questo ci appare come disfunzionale allora è segno che abbiamo compreso la necessità del valore imprescindibile dell’asimmetria. E l’asimmetria è una forma di potere. Ma questo potere non è quello comunemente percepito, esso si esprime nella dedizione e nel servizio. E questo servizio posso espletarlo perché ho conoscenze e competenze specifiche, perché sono un adulto integrato e perché posso empatizzare senza farmi tracimare dalla storia dell’altro.
Ovvero, “siccome ho potere posso aiutarti”, e non siccome posso aiutarti ho potere. A mio avviso c’è una bella differenza.
Allora mi sono chiesto, dal momento che svolgo la professione sociale e di aiuto, come potrei esercitare il mio potere in modo funzionale, facendo dell’asimmetria lo strumento saldatore e rinvigorente della relazione?
Mi occorre qualcuno che mi insegni cosa sia davvero il potere, e soprattutto che me lo dimostri in un modo coerente sulla sua storia e sulla sua persona; qualcuno che mi faccia innamorare di tale esempio e che me lo possa saldare in testa, senza farmi avere alcun dubbio che si tratti della forma giusta e incontrovertibile del potere. Ho trovato un libro, per mia fortuna, dove mi sono imbattuto in questo esempio di un maestro che ne parlava. Questo libro si chiama Vangelo. Questo maestro si chiama Gesù.
3. Cosa è il potere? Ce lo spiega Gesù. Una truppa di soldati romani andò a catturarlo durante la notte, nell’orto del Getsèmani, guidati dal traditore Giuda. Il discepolo Pietro sfoderò la spada di un soldato, ferendolo ad un orecchio. Gesù si infuriò contro Pietro, poiché questi stava usando il potere della spada, e dal momento che ciascuna azione comporta un ritorno karmico del proprio comportamento, secondo la legge di Causa-Effetto, che Gesù ribadirà anche in quella occasione, ammonisce Pietro ricordandogli che “chi di spada ferisce è di spada che perirà”, ed aggiunge: “O credete che io non possa pregare il Padre mio che mandi subito in mia difesa più di dodici legioni di angeli?”. Ecco, questo è il potere, ho pensato: il potere è rinunciare alla volontà di esercitarlo per manifesta superiorità, per enfasi egocentrica, per millantata vanagloria. Il potere dev’essere qualcosa che ha a che fare con l’umiltà, con la volontà profonda di servire l’altro, non di servirsi dell’altro. Il potere è accompagnare il soggetto alla conoscenza senza che gli sia imposta, col rispetto dei suoi tempi e delle sue attitudini, anche se questo implica per noi sofferenza, nell’attesa che l’altro si risvegli e si vesta di consapevolezza senziente. Potere è saper aspettare. Potere è volere.
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