Metafora esistenziale in forma di fiaba


vecchio castelloIn un tempo, in un posto, c’era un ragazzo che viveva in un vecchio castello.

Il ragazzo abitava da solo, o meglio, non proprio da solo, infatti gli altri occupanti erano fantasmi, pertanto non vivevano ma erano vissuti. A lungo il ragazzo ne era stato atterrito, ma col passare degli anni ci si era abituato e quei cigolii, i sospiri sommessi e gli improvvisi aliti di vento freddo erano diventati il segno di presenze che finirono per dirsi familiari. 

Un giorno il ragazzo sentì il bisogno di esplorare i dintorni e si spinse per pochi metri nel fitto del bosco che cingeva stretto il castello. Trascorse così molto tempo, pochi metri e poi indietro, fino a completare l’intero perimetro del maniero.

Quando il suo muoversi terminò il ragazzo guardò il castello e poi ancora il bosco e pensò che forse pochi metri non erano sufficienti, così decise di avanzare di più. Scelse una direzione diversa ogni giorno e camminò di buona lena, per poi tornare indietro prima che giungesse il buio. Terminò così di nuovo tutto il perimetro.

 

Il ragazzo non era contento: tanto cammino e nessun risultato, il bosco era sempre lì e lui non ne aveva scorto la fine, così decise di rischiare di più. Si alzò prima del solito, quando il sole era appena sorto, e si avviò con passo deciso. Camminava in linea retta, lo sguardo in avanti, alla ricerca di uno spazio che non fosse fermato dai tronchi degli alberi e dai rami. Concentrato com’era sobbalzò quando si accorse che il buio era sceso. Aveva sbagliato ad allontanarsi così tanto e ora le tenebre lo avevano sorpreso.

Spaventato cominciò a cercare un modo per orientarsi e tornare indietro, alzò gli occhi per scrutare le stelle, ma le fronde non lasciavano trasparire nulla, si guardò intorno, ma vide solo oscurità, mosse qualche passo tenendo braccia e mani tese davanti a sé, per trovare traccia della via percorsa, ma i tronchi e i rami gli sembrarono tutti uguali e si sentì perduto. Faceva freddo e da ogni angolo sembravano alzarsi suoni minacciosi, così si accovacciò tremante e piangente finché poi, sfinito dalla paura, si addormentò.

 

Quando la luce ricominciò a filtrare tra le foglie, il ragazzo aprì gli occhi e trovò davanti a sé quelli di un leprotto che lo fissavano; felice di vedere un altro essere vivente, cercò di afferrarlo, ma il leprotto fuggì via e il ragazzo si precipitò a seguirlo. Corse a perdifiato, era convinto che il le-protto lo avrebbe condotto verso la sua tana, alla fine del bosco. Si sbagliava, almeno in parte.

Era quasi sera e il leprotto si infilò nell’anfratto di una roccia. Il ragazzo aveva effettivamente trovato la tana, ma era troppo piccola e non era affatto alla fine del bosco anzi, in quel punto gli alberi sembravano una prigione e i rami lo costringevano a stare schiacciato a terra, il ragazzo sedette sconsolato. Passò così la seconda notte lontano dal castello, con le gambe infilate nell’anfratto.

 

La mattina dopo osservò il bosco: c’erano alberi enormi e alberi molto piccoli, qualcuno finiva al di sotto di altri che invece sembravano perdersi verso l’alto, dai rami pende-vano liane e rampicanti più sottili, e le foglie del sottobosco erano colorate, dalle forme e le grandezze più diverse. Il ragazzo si sentì rincuorato: sarebbe salito sull’albero più alto e da lì avrebbe trovato la direzione per tornare indietro, a casa, dai suoi fantasmi e dalle mura che conosceva così bene.

Arrivato in cima respirò a fondo, l’aria era fresca e il sole caldo, sorrise quando vide la torre del vecchio castello spuntare tra le cime, l’aveva ritrovato. Prima di scendere volse lo sguardo intorno e restò impietrito: il bosco, che si estendeva a perdita d’occhio, ad un certo punto finiva e lui si trovava esattamente a metà strada, sull’albero più alto, quello che gli permetteva di capire che lo stesso tragitto lo avrebbe condotto indietro oppure laggiù, in quel punto lontano e sconosciuto. Quando il piede toccò terra il ragazzo rimase immobile, non mosse un solo passo, solo quando per la terza volta calò la notte si riscosse, si avvicinò di nuovo alla tana del leprotto: dentro c’erano anche una leprotta e dei leprottini, così il ragazzo restò appoggiato alla roccia, mentre il temporale infuriava, la pioggia lo inzuppava e i lampi ferivano il cielo.

 

Passò la notte senza riuscire a dormire e all’alba iniziò il suo viaggio: aveva deciso di arrivare fino alla fine del bosco. Non so dire quanto camminò e quanta fatica fece, però dopo molte notti e molti giorni il ragazzo trovò il punto esatto in cui non c’erano più alberi: aveva finalmente raggiunto il margine del bosco e ora, davanti a sé, si estendeva maestoso un muro altissimo, che correva a perdita d’occhio anche a destra e a sinistra. Il ragazzo non si perse d’animo: provò prima a seguire il muro alla sua destra, camminò per dieci giorni, ma più camminava e più il muro avanzava, sembrava quasi che si muovesse con lui, nella precisa intenzione di non lasciarsi superare. Allora il ragazzo cambiò direzione e tornò indietro. Ci mise dieci giorni per ritrovare il punto di partenza e altri dieci giorni camminò alla sua sinistra, alla ricerca della fine del muro. Ancora una volta il muro avanzava con lui, per quanti passi facesse, per quanto fossero lenti o veloci, il muro lo anticipava e gli impediva di superarlo, così il ragazzo tornò indietro: altri dieci giorni e ritrovò il punto di partenza. Allora il ragazzo cambiò ancora direzione: avrebbe scavalcato il muro.

 

Ne osservò le pietre e vide che alcune erano nuove e altre vecchie, in alcuni spazi cresceva il muschio, in altri avevano fatto la loro casa piccoli insetti, in altri ancora c’erano rampicanti dalle minuscole foglioline, il ragazzo stabilì quali fossero le pietre più adatte e iniziò a salire. Triste fu la sua sorpresa quando si accorse che il muro saliva con lui, per quanto si arrampicasse in fretta e per quanto lui fosse agile, il muro era sempre più alto e in nessun modo si lasciava superare, né gli lasciava scorgere cosa ci fosse al di là.

Tornato a terra il ragazzo ebbe un’idea: si arrampicò sull’albero più vicino, quello che riusciva quasi a sfiorare il limite del muro, e quando arrivò sull’ultimo ramo si sollevò sulle punte, pronto a spiccare il balzo. Il muro fu più veloce e in meno di un battito del cuore si innalzò impietoso. Il ragazzo si arrese: inutile era stato il cammino, inutile la fatica, inutile l’abilità, inutile la speranza, inutile la fiducia, era arrivato tanto lontano per trovarsi peggio di quando era partito, infatti adesso non c’erano neppure i fantasmi con lui e non aveva le mura del vecchio castello a proteggerlo.

 

Rimase sull’albero: il tronco era largo, sembrava quasi un pavimento, strinse i rami tutti intorno e ne fece pareti, le foglie più grandi le usò come tetto e man mano che la casa sull’albero diventava sempre più un rifugio, il dolore della sconfitta si faceva meno amaro. Passarono i giorni, poi passarono i mesi, il ragazzo aveva trovato nella casa sull’albero la sua tana e anche se lo spazio era poco e i movimenti non tanto liberi, a lui andava bene lo stesso, e poi non c’era forse il vento a fargli compagnia? Anche il profumo della corteccia gli piaceva e nelle mattine più limpide, alzandosi sulle punte, poteva persino arrivare quasi a vedere oltre il muro.

Il ragazzo pensò di poter vivere così per sempre, ma un giorno udì un suono.

 

Non era proprio una voce, o almeno lui non comprese se fosse una voce o una musica, ma una cosa gli fu ben chiara: proveniva dall’altra parte. Si affrettò a scendere dall’albero e si accorse che le articolazioni erano doloranti, i muscoli erano intorpiditi e che le gambe e le braccia gli ubbidivano con difficoltà, ma arrivò lo stesso a terra e poggiò l’orecchio contro il muro, cercando di sentire meglio. Quando il suono giunse più nitido il ragazzo spinse con tutte le sue forze. Una pietra del muro cadde e la luce filtrò. Era una pietra in alto, quindi non gli riuscì di guardare attraverso il buco, ma il suono dolcissimo adesso passava meglio e sembrava spostarsi un poco più in là. Il ragazzo spinse ogni volta che gli pareva sentire il suono aumentare d’intensità e ogni volta una pietra cadeva giù, quando ogni suono cessò il ragazzo si accorse di aver disegnato una sorta di arco e che mancava ormai pochissimo per far cadere le pietre che ancora restavano. Prese una rincorsa e si buttò con tutto il corpo contro quella porzione di muro, le pietre cedettero e il ragazzo rovinò dall’altra parte in un ruzzolone. Restò intontito per qualche minuto, poi si rialzò tutto tremante.

Un’immensa distesa verde, con fiori coloratissimi accarezzava la terra come un mare senza correnti e poco più avanti un villaggio, con tetti puntellati di comignoli fumanti, dal quale provenivano risate e canzoni. Il cuore del ragazzo traboccava di emozioni diverse, tutte tanto intense da la-sciarlo senza fiato, mentre lacrime silenziose gli rigavano il volto. Mosse i suoi primi passi in direzione del villaggio, prima con cautela, poi sempre più deciso. L’erba era soffice e i fiori profumati, il cinguettio degli uccelli faceva da sottofondo e il canto delle cicale da intermezzo, il ragazzo sentì il petto gonfio di gratitudine e di soddisfazione, tanto che quasi non vide la riva di un fiume. Si fermò appena in tempo, altrimenti sarebbe caduto.

 

All’apparenza sembrava in fiume tranquillo, ma quando tentò di attraversarlo si accorse che la corrente era fortissima, l’acqua gelida e il fondo troppo profondo e melmoso. Tentò di trovare altri punti migliori per guadarlo, ma ovunque si spostasse il fiume restava impraticabile, così comprese che il solo modo per arrivare dall’altra parte era costruire un ponte.

All’improvviso i tanti anni vissuti nel castello, poi nel bosco e ancora sull’albero non gli parvero più inutili, ogni cosa vista ed ogni esperienza fatta adesso gli era diventata indispensabile, perché solo così avrebbe potuto scegliere i rami giusti, i tronchi più adatti, le liane più elastiche e le pietre meno friabili, anche le foglie potevano essere sele-zionate: le più grandi ed impermeabili avevano una funzione diversa dalle più piccole, più adatte invece a formare una sorta di malta col fango della riva del fiume e il muschio che tingeva le pietre del muro. Al ragazzo non importò più quanto tempo ci volle, né quanta fatica facesse, andava avanti e indietro con passo leggero e spedito, la fronte alta e lo spirito allegro: il suo ponte non solo lo avrebbe condotto al di là del fiume, ma sarebbe rimasto anche per altri che avessero voluto percorrere la stessa strada.

 

A lavoro quasi ultimato perse l’equilibrio.

 

Un unico passo falso e fu sul punto di cadere giù, chiese aiuto mentre si aggrappava al ponte con tutte le sue forze, cercando di trovare un appiglio migliore. All’improvviso una mano lo afferrò con vigore e lo sorresse. Un’altra mano e poi un’altra ancora si unirono alla prima e in men che non si dica gli uomini e le donne del villaggio lo portarono sull’altra riva, aiutandolo a finire il ponte.

Non avevano agito perché lo avevano creduto troppo debole, lo avevano aiutato perché era pronto: prima aveva affrontato i suoi fantasmi, poi il groviglio delle sue paure, quindi aveva riconosciuto la differenza tra sé ed altri esseri con una natura diversa e li aveva rispettati, al momento cruciale aveva scelto di non tornare indietro, ma di andare avanti, e quando ogni cosa sembrava finita, perché le difficoltà troppo alte ed insormontabili, si era fermato ma non era diventato sordo alla speranza e alle opportunità, così, consapevole della sofferenza che provava, aveva agito ancora una volta e usato le energie concentrandole su un unico punto, per quanto fosse duro e fitto, e lo aveva abbattuto facendo crollare il muro dell’abitudine, del pregiudizio e della comodità, cambiando finalmente il suo punto di vista. Di fronte al successo non si era lasciato andare alla presunzione e si era fermato al momento giusto, così come davanti alle nuove difficoltà non si era arreso, né aveva cercato la soluzione nelle cose già esistenti, piuttosto aveva scelto di costruire da sé la sua salvezza e di farlo anche per essere utile agli altri. Per questo lo avevano aiutato, perché quando ci si rende autonomi allora si è anche pronti a prendere senza pretendere, a dare senza tornaconti e a chiedere aiuto perché se ne ha bisogno, non per sfuggire alla responsabilità.

 

Quando il ragazzo giunse al villaggio i suoi nuovi amici gli indicarono una torre e lui salì le scale con una neonata sensazione di solidità, fece presto a raggiungere la vetta e si accorse che visto da lì il bosco dove aveva passato tanto tempo era in realtà molto più piccolo di quanto credesse e che un mondo enorme si estendeva ovunque, anche oltre il villaggio, che c’erano altri boschi, laghi, pianure, villaggi, addirittura città e che la scelta di fermarsi o restare dipendeva soltanto da lui. Quando scese dalla torre il ragazzo sorrideva, il sole era tramontato e le tenebre avvolgevano tutto, ma ormai non aveva più importanza. 

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