Nel precedente intervento abbiamo indicato nella capacità di ascolto del leader una delle principali variabili indispensabili a realizzare in un gruppo, particolarmente in una situazione di crisi, lo “ spirito di squadra “. Per tale si intende, in sintesi, la disponibilità e la capacità di ogni membro del collettivo di rendere prioritario l’obiettivo comune rispetto a quello individuale. Va da sé che tale è la condizione, sempre e comunque, che rende “ gruppo “ un semplice agglomerato di persone, unita alla costante interazione interna.
Qui si intende sostenere che la spinta verso il bene comune diventa, se opportunamente sostenuta ed amplificata dalla leadership, l’ “ arma “ vincente di cui il collettivo dispone per fronteggiare problematiche interne o con l’esterno tanto serie da comprometterne l’esistenza stessa.
In che modo, perciò, la capacità di ascolto del leader può contribuire a potenziare questo strumento? Una volta che l’abbiamo definita come la sua “ maestria “ nell’interpretare i comportamenti e le istanze del gruppo o di alcuni dei suoi membri e di attribuirvi senso, anche lì dove atteggiamenti ed idee risultino in contraddizione con gli scopi del gruppo, come si concretizza poi tale attitudine ? In che modo, cioè, il leader utilizza praticamente questa sua capacità facendo sì che i membri del gruppo preferiscano alla fine lo scopo collettivo a quello individuale ?
Certo, in un’azienda, ad esempio, lo scopo finale ( il profitto ) coincide con l’interesse di ogni persona che vi lavori ( lo stipendio a fine mese ).
Per una squadra di calcio uno schema di gioco vincente, fondato su una visione di insieme, difficilmente sarà messo in discussione dagli individualismi.
Il problema nasce quando il gruppo è sottoposto a forti sollecitazioni che mettono in discussione gli assetti e le modalità di comportamento fino ad allora adottate e ritenute efficaci. In queste condizioni ogni nesso logico e scontato tra meta individuale e meta di gruppo non vale più, anche quello più classico tipo “ se l’azienda tiene, continuo a prendere lo stipendio “.
La crisi, generalmente, alimenta gli individualismi.
Ogni gruppo, qualsiasi sia la sua natura e la sua ampiezza, è tale se e quando possiede una identità collettiva. Per tale, al pari dell’identità dei singoli, si intende una cornice storica e valoriale che ne comprenda le origini e le mete. Questi ultimi rappresentano i riferimenti costanti per le scelte ed i comportamenti di ogni singolo membro del collettivo.
Vale per l’azienda, il team sportivo, un’associazione di professionisti, un’organizzazione umanitaria, un nucleo familiare. Vale per una intera società.
Ognuno di questi insiemi è “ gruppo “ se ha una storia in cui si riconosce.
Il leader, perciò, è chi ha le conoscenze, competenze e capacità personali di comprendere a fondo tale storia e di rappresentarla. Il leader, in sostanza, è chi “ incarna “ la storia/ identità del collettivo. Lo fa prevalentemente con il suo comportamento. Con l’esempio, cioè. Tanto più necessario nei casi in cui il leader provenga dall’esterno. Tipico, ad esempio, è il caso degli allenatori delle squadre di calcio e degli AD aziendali, che riescono ad andare oltre i loro ruolo specifico e a farsi anche leader quando rapidamente interiorizzano la storia del gruppo e la rappresentano.
Ma la storia, intesa come narrazione, non si riferisce esclusivamente al passato né, proprio in quanto “ identità “, è uno schema rigido che definisce il gruppo una volta per tutte. La storia è anche il futuro, anzi lo anticipa e ne contiene il senso di prospettiva ma anche le sue incertezze.
Il leader perciò rielabora costantemente la narrazione, la arricchisce di nuove possibilità, vi introduce pericoli ma anche soluzioni. Il leader efficace fa sì che il gruppo non giunga mai impreparato alla crisi, ne conferma l’identità/ storia e nello stesso tempo la rielabora rendendola, quando necessario, sempre aderente al presente. Il gruppo, infatti, rischia di sfaldarsi specialmente quando avverte la distanza tra identità e realtà, tra ciò che si è ( o si credeva di essere ) come insieme e quanto sta accadendo nell’ambiente esterno o al suo stesso interno.
Certo, tale distanza, a volte, rafforza l’identità del collettivo. Lo valorizza. Si è gruppo proprio in quanto differenti da tutti gli altri. Ma la leadership ha anche il compito di non rendere tale distacco un guscio che trattiene e soffoca. In alcune circostanze, infatti, la crisi è data proprio da questa retroflessione, da questa estrema concentrazione su ciò che si è dimenticando alla fine che esiste anche un esterno. Tipico è il caso di alcune aziende che falliscono proprio perché tese a valorizzare sé stesse e quanto producono trascurando, così, la considerazione di come chi è al di fuori possa recepirle e percepirle. Non c’è più, in tali casi, comunicazione interno – esterno ma solo imposizione ossia una richiesta di fiducia a priori. Incondizionata.
Insomma la leadership efficace consiste nel realizzare l’equilibrio tra adesione e distanza tra gruppo ed esterno, alimentando l’una o l’altra a seconda del grado di conflittualità sia interno al collettivo che tra questi e il contesto.
Il leader efficace, perciò, deve essere abile nel narrare una storia del gruppo, e farlo al gruppo stesso, che comprenda anche la crisi e lo faccia, però, dandovi senso.
In un prossimo intervento tratteremo proprio le attribuzioni di senso da parte della leadership nei momenti di crisi.
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