Counseling geriatrico e Cambiamento


counseling geriatricoNell’inquadramento svolto prima di iniziare gli incontri  di Counseling presso il centro di ascolto  la cliente aveva già rivelato di sentirsi sola e di avvertire tutto il carico di questa emozione, soprattutto nella gestione della vita  familiare e per le decisioni che le sono inevitabilmente connesse. La signora, nonostante la sua età, 83 anni compiuti, ha iniziato il percorso con una precisa determinazione al cambiamento delle dinamiche relazionali con i componenti della famiglia; in particolare voleva capire quando, come o perché la comunicazione con la figlia e con  il marito fosse diventata dis funzionale. Il bisogno portato nel setting ha, fin dal principio, rimandato la volontà dell’utente di acquisire maggiore consapevolezza; e questa esigenza è stata ribadita per tutta la durata del primo incontro che, chiaramente, è stato  dedicato esclusivamente all’ascolto ed all’ accoglienza oltre che della persona del bisogno stesso.

Nell’ascoltare la cliente, anche per la modalità dello svolgimento narrativo che ha adottato, mi sono resa conto   che quello che mi veniva richiesto era essenzialmente un giudizio, è quasi superfluo dire, positivo: sostanzialmente mi veniva richiesta espressa approvazione per i comportamenti adottati nel corso degli anni. Attraverso  un  lento processo di auto esplorazione, assolutamente compatibile con quanto la cliente potesse sostenere, insieme alla signora, abbiamo progressivamente provato a mettere a fuoco qualcosa che generalmente risulta sfocata: l’emozione, o per meglio dire, la sensazione realmente sentita. L’utente, infatti, anche nel suo tentativo di comprensione aveva mostrato da subito l’inclinazione ad “auto-controllarsi” nel setting così come riferiva di fare a casa. Perciò, ritenendo prioritario partire dal bisogno che il cliente porta in seduta,  non ho sentito opportuno  definire immediatamente un contratto.

Inoltre, aveva manifestato immediatamente una grossa difficoltà a fidarsi e lamentato, nel contempo,  un forte senso di solitudine  che non le faceva condividere i propri sentimenti con nessuno, compreso i suoi familiari. Ciò mi faceva supporre che l’unica via d’accesso per la costruzione di una buona produttiva relazione di aiuto  era agevolarla nel processo di edificazione della fiducia. In un percorso di Counseling il primo colloquio ha sempre un’importanza fondamentale non solo per la verifica del livello empatico, ma anche per  la costruzione delle basi dell’alleanza operativa. In  questo caso ciò voleva dire  far sentire all’utente, prima di tutto ed al di là di ogni ragionevole dubbio, che il setting poteva essere  il luogo dell’ affidarsi. Sentire, per così dire, una sorta di valenza etica della riservatezza mi ha sicuramente aiutato nella costruzione del rapporto tanto da far sì che la cliente consapevolizzasse il percorso come concreta  possibilità di percezione di Sé attraverso un  progressivo e graduale auto svelamento. 

Certo la problematica riferita dall’utente non era, in se stessa, problematica caratterizzante l’età avanzata. La solitudine, infatti, è un malessere  trasversale: si può impadronire di chiunque a prescindere dal ceto sociale,  dalla professione o  dall’ età.  Perciò quello che, nel caso specifico,  avrebbe dovuto deve essere “centrato sul cliente “ erano, a mio parere, oltre alla tipologia delle tecniche o degli strumenti, i limiti del percorso, che è cosa ben diversa dal concetto, chiaro a tutti, di obiettivo possibile. Il disagio espresso, nel caso di questa utente, aveva radici molto profonde che trascendevano la  storia personale della mia cliente per confluire nella empatica condivisione della vicenda di una vicina di casa la cui tragedia esistenziale, culminata con la morte per gli effetti di una reiterata dipendenza dall’alcool, si era consumata nella  assoluta quanto apparente indifferenza della famiglia. In sostanza la mia cliente associava quella solitudine alla sua.

Negli incontri successivi, grazie alla maturata percezione del setting come di un luogo realmente protetto, la signora ha abbassato il suo livello di autocontrollo procedendo nella narrazione in una sorta di movimento a cerchi concentrici, fino al contatto col nucleo profondo della sua emozione. Lungo il sentiero della  propria solitudine, la cliente ha ritrovato la rabbia dei figli che ,sebbene più che adulti, la considerano ancora responsabile  del corso delle loro vite; e ancora, nel corso degli incontri raccontò l’indifferenza del marito chiuso nel suo mondo, assolutamente inconsapevole, se non addirittura disinteressato al disagio della moglie ed infine, ben mascherata per tentare di  non averne più percezione, la dolorosa,  empatica solitudine per  quella vicina di casa che ancora vedeva uscire sul pianerottolo a recuperare quelle cassette di birra  da cui era irrimediabilmente dipendente. Ricordare e raccontare tutto questo ha fatto sì che l’utente entrasse in contatto pieno con l’emozione che sottendeva a tutto questo : la Paura!

E’ inutile dire che quando non immobilizza la Paura può essere una delle migliori propulsioni possibili al Cambiamento.  La cliente  aveva paura della solitudine, aveva paura di aver sbagliato tutto con i figli,  aveva  paura di  lasciare la porta di casa aperta sul pianerottolo condiviso fino a qualche tempo prima con la vicina; e, chiaramente, pur non volendo sentirsi più così, aveva paura del Cambiamento. Ciò amplificava enormemente il risvolto etico delle scelte operative compiute. Inoltre,  accompagnare un utente di  oltre  ottanta anni, che per quanto si rivelava consapevole di molte cose,  decisamente non  riusciva a rendersi conto dell’ intera portata della sua responsabilità in merito alle dinamiche relazionali  della sua famiglia, mi imponeva eticamente di mantenere il processo di trasformazione entro quel limite costituito dalla capacità della cliente di sostenere le modificazioni del sistema in cui era inserita.

Infatti, pur esprimendo il bisogno di correggere concretamente le situazioni e che la facevano sentire tanto sola, di fatto risultava più motivata a diventare consapevole per così dire  in maniera retrospettiva, convergendo le sue energie più sulla comprensione di errori commessi durante l’educazione dei figli e l’ accudimento familiare.  Penso che l’aver scelto una impostazione sostanzialmente rogersiana ma, comunque integrata con un approccio gestaltico abbia consentito alla signora  di  entrare in contatto con le sue emozioni attraverso la porta della fiducia. La cliente, nonostante l’età, era una donna razionale che, col senso pratico donatole dagli anni, era alla ricerca di cose concrete. Anzi, è molto probabile, che il suo “buon senso” l’avesse aiutata, finché ha potuto, a rimuovere la sofferenza.

L’intervento operativo adottato portò la mia utente a verbalizzare un disagio molto concreto. Per non avere più paura  la mia cliente aveva bisogno di chiudere la porta di casa che il marito si ostinava a lasciare aperta pur consapevole di ciò che il suo comportamento creava alla moglie. Per il preciso svelamento di un suo bisogno  fatto dalla cliente decisi di gestire l’incontro secondo i criteri di una seduta di Counseling centrato sulla soluzione, agevolandola nell’ attenta esplorazione  della situazione, analizzando le azioni che fino a quel momento non avevano prodotto risultato e aiutandola a fare focus su quella che poteva essere un’alternativa comportamentale possibile.  Certo è che quando la  signora decise  di provare lei stessa a chiudere la porta aveva, al di là del gesto in se stesso che ne costituiva il risultato più visibile, iniziato il suo percorso di cambiamento.

All’incontro successivo la cliente arrivò  contenta per i risultati conseguiti. Raccontò con soddisfazione non solo di essere riuscita a verbalizzare il proprio malessere al marito, ma anche di aver trovato la determinazione necessaria per risolvere  personalmente e concretamente,  il problema della porta, nel momento in cui si è resa conto che il suo disagio continuava ad essere minimizzato. Gran parte dell’ incontro proseguì con il racconto delle sensazioni che le dava l’aver praticamente verificato i risultati della sua determinazione ad operare dei cambiamenti. Poi, durante la parte restante del colloquio , la cliente incominciò a soffermarsi sulla reazione del marito ai suoi comportamenti. Chiaramente  quanto più la modificazione dei propri atteggiamenti aveva reso sempre self – confident l’utente,  tanto più  chi abitava con lei lo spazio domestico faticava ad adattarsi a tali variazioni. In sostanza la cliente e l’ambiente in cui era inserita cambiano contemporaneamente ma in maniera  assolutamente divergente. Poi, quanto la signora incominciò a riportare nel corso degli appuntamenti successivi, non faceva che rivelare come il processo di  irrigidimento della famiglia  progrediva in maniera direttamente proporzionale alla  assertività che era riuscita a conquistare.

Tale tendenza, oltre a recriminazioni verbali sempre più frequenti, si traduceva anche nel scoraggiare ogni iniziativa che la mia cliente avrebbe voluto intraprendere per riempire e rendere meno monotone le sue giornate. Chiaramente questo atteggiamento  svalutante non risparmiava  nemmeno lo spazio personale che, di fatto, l’utente si ritagliava col suo percorso di Counseling. Anzi proprio questa decisione veniva oltremodo ostacolata dal marito in vari modi: Questi, secondo quello che mi fu riferito, iniziò col renderle sempre più  problematico  rispettare l’impegno preso, facendo sempre più difficoltà per accompagnarla agli appuntamenti.  Tale situazione  incominciò pian piano  a minare la forza  e la costanza della sua determinazione al cambiamento.

Da quel momento, infatti, durante ogni colloquio l’utente arrivava sempre ad un momento in cui si chiedeva “che senso aveva in fin dei conti pensare di poter cambiare le cose” alla sua età. Le parole usate evidenziavano il fatto che la cliente preferiva parlare di un cambiamento che avveniva fuori di lei piuttosto che parlare di un suo cambiamento comportamentale. Questo significava un passo indietro rispetto ai primi colloqui  durante i quali la signora partendo dal contatto col suo malessere era riuscita a vedere un nuovo possibile atteggiamento nel far fronte alle situazioni che fino a quel momento le avevano procurato disagio. Così quel momento divenne il punto esatto del limite che la cliente non poteva e non voleva superare. e  gli incontri successivi  il luogo in cui l’utente rimetteva in discussione se stessa e la volontà irrazionale di pretendere di cambiare l’equilibrio della sua vita alla sua età.

Ogni colloquio si svolgeva in una sorta di andamento circolare che iniziava con la meticolosa descrizione della sensazione di forza che acquisiva durante l’incontro e terminava con la stessa meticolosa descrizione del senso di frustrazione che provava rientrando a casa e scontrandosi con l’ambiente, definito sempre più rigido,  con cui doveva confrontarsi ogni giorno. Il dato sconcertante era che proprio questa maturata consapevolezza, che era stata la forte Motivazione a tentare il cambiamento  diventava in maniera assolutamente paradossale, la motivazione a interrompere il processo ed a ripiegare sulla posizione iniziale.

La cliente decise di non continuare il percorso di Counseling ; e fin nell’ultimo incontro  la bipolarità in cui versava  tra il desiderio di cambiare e la legittimità del desiderio stesso si accompagnava ad una forzata rassegnazione  per doversi, di fatto, negare ogni possibilità di modificazione del quotidiano solo  per la paura di essere esclusa dalle vicende personali dei suoi familiari sentendosi, perciò, ancora più sola e senza controllo. La paura di perdere il controllo delle vicende della famiglia unita a quella di essere isolata collideva con la sensazione di benessere che la cliente sperimentava  all’interno del setting.

Infatti, pur avendo iniziato il colloquio comunicandomi l’impossibilità a proseguire i nostri appuntamenti,  proseguì, poi, prendendo per sé  fino all’ ultimo istante possibile e  raccontandomi le sue emozioni a proposito di un problema  familiare di cui non era stata messa al corrente. Anche quest’ ultimo racconto era coerente con la fragilità dimostrata  dalla cliente nel gestire le conseguenze del proprio cambiamento; anzi è anche lecito supporre che l’utente quasi attribuisse al percorso di Counseling e alle dinamiche che aveva saputo attivare, la responsabilità della situazione del tutto nuova in cui si era trovata.

Marcella Giordano

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