La crescita di ogni individuo si dipana a partire da un connubio che implica sicurezza da una parte ed esplorazione dall’altra. Nelle sue prime fasi di vita il bimbo dipende completamente dalla figura accudente e, piano piano, impara ad interagire con essa e con il mondo sconosciuto che gli sta intorno. Questo binomio tra conosciuto e sconosciuto, tra prevedibile ed imprevedibile, tra controllabile ed improvviso, prosegue giorno dopo giorno, anno dopo anno, ci riguarda tutti in ogni momento e fase di vita e va a caratterizzarsi per fluidità o rigidità.
L’amore per i nostri figli ci porta sia a volerli proteggere e sia a voler garantire loro occasioni di riuscita, allo stesso modo l’amore ci fa sentire responsabili di ciò che loro fanno/dicono e di ciò che a loro accade (nel bene e nel male). È frequente quindi che i genitori si sentano come presi da un ingranaggio che li costringe tra il voler tenere sempre i propri pargoli sotto un’ala sicura e il volerli vedere volteggiare liberi e soddisfatti. Il primo problema d’amore è dunque gestire queste due spinte, forti entrambi, ma contrarie l’una all’altra.
Se dovesse prevalere la spinta a proteggere si otterrebbe il vantaggio di garantire i figli dai pericoli, dal sapere sempre cosa fanno e dove sono, dal facilitare loro la soluzione di problemi più o meno impegnativi, dal salvarli dalle prove che li mettono in crisi ed in difficoltà, così da sentire che stiamo facendo il nostro dovere di genitori amorevoli, presenti, attenti e partecipi.
Se dovesse prevalere la spinta ad esplorare si otterrebbe il vantaggio di spingere i figli a sperimentare il mondo intorno a loro, a relazionarsi con gruppi di pari e non, ad accumulare esperienze e conoscenze, a mettersi alla prova e così misurare i propri limiti e le proprie capacità, a diventare autonomi, indipendenti, sicuri e curiosi, così da sentire che stiamo facendo il nostro dovere di genitori amorevoli, presenti, attenti e partecipi.
Come è evidente, in entrambi i casi l’intenzione è sia comprensibile che condivisibile, ma la sua attuazione, come spesso accade, può determinare la comparsa dell’altra faccia della medaglia, ossia proprio là dove miravamo ai vantaggi, in effetti facciamo spazio ai loro gemelli contrari: gli svantaggi. Nel nostro monopoli dell’amore genitoriale tiriamo dunque i dadi convinti di poter procedere in avanti e, invece, finiamo su caselle che ci fanno tornare al via o che ci fermano, spesso facendoci pagare dazio. Lo stesso può accadere quando come counselor ci prendiamo cura dei clienti e attraversiamo con loro le maree ed i territori della loro storia e delle loro emozioni.
Accade che in una relazione di aiuto l’affettività che accetta senza condizioni e l’accoglienza che sostiene senza confusioni siano grembo e guida, latte e sorrisi, ma accade anche che possano tramutarsi nei loro opposti. Così un counselor diventa un “altro genitore” e come tale deve fare i conti con i limiti e le risorse del proprio stile, lo stesso che usa per proteggere e per autorizzare. Diventa perciò importantissimo ricordare (non solo con la testa) che ogni bambino, così come ogni adulto, ha una sua individualissima unicità e che non è detto che ciò che piace o sembra adeguato ai genitori (o ai counselor) o che ciò che è mancato loro sia, per proprietà transitiva, ricaduto sui figli (o clienti), quindi corrisponda a ciò che a loro piace, serve o manca.
Nel monopoli, così come in altri giochi, ognuno ha una pedina diversa, specifica ed insostituibile, perciò il tragitto che percorre è solo il suo, anche se a volte ci si trova in due sulle stesse caselle e si resta insieme per una grossa fetta del viaggio.
Ogni genitore come ogni counselor ha il preciso dovere di distinguere se stesso da suo figlio (cliente), per impegnarsi poi a comprendere, fase per fase, quali sono le giuste dosi di sicurezza ed esplorazione, perché una relazione non diventi il riempimento di vuoti, una dimostrazione di potere o un legame che non si scioglie perché si ha troppa paura di perdersi.
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